Negli ultimi giorni abbiamo parlato parecchio di dogmatica: don Samuele Pinna mi ha proposto per Breviarium una bella pagina sui capisaldi del ministero teologale (e sulla vocazione ecclesiale ad esso connessa); su Aleteia, invece, mi chiedevano di esemplificare ad uso dei lettori e tramite immagini “i dogmi della Chiesa”…
Un’affezionata lettrice, allora, mi ha privatamente scritto queste considerazioni, riferite al primo:
Leggendo l’ultimo Breviarium ho pensato che con tutti i paletti fissati da don Samuele forse staremmo ancora alla teoria geocentrica e alla netta opposizione alla libertà di coscienza; da ultimo non meriterebbero la qualifica di teologi persone come Hans Küng, don Carlo Molari e il cardinale Kasper. Il più grande dono che l’uomo ha, la libertà di pensiero, andrebbe a farsi benedire.
E poi queste riferite al secondo:
Chiarissimo e didascalico l’articolo sui dogmi:sembra scritto apposta per me. Saranno pure ben articolati tra di loro ma i dogmi sono frutto della mente dell’uomo e soprattutto dell’uomo di altri tempi; tempi in cui si cresceva a pane e catechismo e nessuno osava mettere alcunché in discussione. Non molto tempo ci separa dall’approvazione dell’ultimo dogma grazie al voto del Papa stesso (la delegazione tedesca per protesta aveva abbandonato l’augusto consesso), eppure ci sono stati e sono ancora in atto cambiamenti epocali. A chi verrebbe in mente oggi di elaborare un nuovo dogma? Penso neppure agli scismatici lefebvriani. All’università studiai un libro di Sapegno finalizzato a dimostrare un concetto fondamentale: ogni uomo è figlio del suo tempo, anche se ha per certi aspetti intuizioni che lo proiettano nel futuro. Ecco, i dogmi, o meglio coloro che li hanno elaborati, erano figli del loro tempo. Oggi ben pochi tra i cattolici ammettono di credere in quelle “verità di fede”.
Alle prime risposi rimandando alla bellissima istruzione Donum Veritatis, cui anche don Samuele rimandava (precisando correttamente che il suo “decalogo” non pretendeva di essere più che «uno tra i molti possibili»). L’istruzione del prefetto Ratzinger l’avevo citata la settimana prima anche a un’altra lettrice, alla quale dicevo che la teologia non è tanto un mestiere, quanto una vocazione. Da ciò conseguono due considerazioni:
- Quanti la trattano da mestiere (Beruf) ne tradiscono il significato e le esigenze di vocazione (Berufung);
- Come ogni vocazione, anche quella teologale può essere tradita in sé stessa, oltre che relativamente ad altro, se chi la vive non la esercita appunto nel suo alveo proprio, cioè nel seno ecclesiale (da quest’unica radice perversa nascono gli errori, eguali e contrarî, di quanti pretendono di giudicare il Papa e di quanti s’illudono che la teologia sia un mero esercizio di “libero pensiero”).
E a tale proposito la questione si fa schiettamente epistemologica, non riguardando più semplicemente il “come si fa teologia”, ma più globalmente il “come si conosce” una verità di fede. Difatti – quanto alle ultime osservazioni – precisavo alla lettrice che un cristianesimo senza dogmi piacerebbe al mondo solo perché non più vero, mentre il dogma è precisamente l’esercito della fede nell’intelletto e la dignità dell’intelletto nella fede1Resta ben inteso che non solo a nessuno verrebbe mai in mente oggi di “elaborare un nuovo dogma”, ma che nessun cattolico ha mai inteso fare una simile mostruosità: il dogma è uno e immutabile, e la maturazione dei dogmi indica il progresso della coscienza ecclesiale nell’approfondimento dell’unica verità rivelata per la salvezza.. Mancuso, Maggi & Co. sono persone astiose che ormai devono vivere suonando la loro grigia canzone e facendosela applaudire da persone con meno pazienza che domande. Ci sono sempre stati, simili personaggi, giacché ogni epoca ha avuto la sfacciataggine di ritenersi migliore delle precedenti: nessuno di loro però lascia un vero segno, perché solo la fedeltà è davvero grande. E corredavo a conforto di queste parole una celebre, benché dimenticata, pagina della Critica della Ragion pura di Kant. Non un libro di teologia, come è noto. Ma nondimeno un libro che ha ancora da dire qualche parola sull’epistemologia e sulle pretese idealistiche (e germinalmente solipsistiche) del nostro tempo.
La matematica ci dà uno splendido esempio di quanto possiamo spingerci innanzi nella conoscenza a priori, indipendentemente dall’esperienza. È vero che essa ha che fare con oggetti e conoscenze solo in quanto si possono presentare nell’intuizione: ma questa circostanza vien facilmente trascurata, perché l’intuizione stessa può essere data a priori, e perciò difficilmente si può distinguere da un concetto puro. Eccitato da una siffatta prova del potere della ragione, l’impulso a spaziare più largamente non vede più confini. La colomba leggiera, mentre nel libero volo fende l’aria di cui sente la resistenza, potrebbe immaginare che le riuscirebbe assai meglio volare nello spazio vuoto di aria. Ed appunto così Platone abbandonò il mondo sensibile, poiché esso pone troppo angusti limiti all’intelletto; e si lanciò sulle ali delle idee al di là di esso, nello spazio vuoto dell’intelletto puro. Egli non si accorse che non guadagnava strada, malgrado i suoi sforzi; giacché non aveva, per così dire, nessun appoggio, sul quale potesse sostenersi e a cui potesse applicare le sue forze per muovere l’intelletto. Ma è un consueto destino della ragione umana nella speculazione allestire più presto che sia possibile il suo edifizio, e solo alla fine cercare se gli sia stato gettato un buon fondamento. Se non che, poi si cercano abbellimenti esterni di ogni specie per confortarci sulla sua saldezza, o anche per evitare del tutto tale tardiva e pericolosa verifica2Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 2000, 38..
Certo, Kant sta parlando delle conoscenze a priori, mentre le “religioni della pace” sono delle costruzioni pratiche eminentemente a posteriori (e i romani sogliono evidenziare i limiti epistemologici delle conoscenze a posteriori con un colorito “e grazi’ ar…”), ma i solipsisti dei nostri giorni sono il frutto del vaticinio prometeico di Schmidt eppure leggendo questa pagina non capiscono almeno tre espressioni di codesto solo ultimo periodo… Giacché l’individualismo (che del solipsismo è il frutto pratico) comporta la bizzarra contraddizione per cui si nega credito a qualunque religione in quanto i dogmi della fede rivelata sarebbero “frutto di elaborazioni umane”, salvo poi accogliere come manna celeste ogni idolatria spirituale espressamente e dichiaratamente creata a tavolino da qualche ominide (solitamente meno dotto, meno buono e meno devoto del meno dotto, meno buono e meno devoto dei santi).
E Platone stesso, nel Fedone, ammetteva che la dogmatica teologica sarebbe assai più ardita, rischiosa e incerta nelle “religioni razionali” che in un’ipotetica fede rivelata:
Mi sembra, Socrate, e forse sarai anche tu del mio parere, che essere così sicuri su certe questioni, sia una cosa impossibile o, per lo meno, molto difficile, almeno in questa vita; d’altronde, io penso che il non esaminare da un punto di vista critico le cose che si son dette, il lasciar perdere il problema, prima di averlo indagato sotto ogni aspetto, sia proprio dell’uomo dappoco; quindi, in casi simili, non c’è altro da fare: o imparare da altri, come stanno le cose, o trovare da sé, oppure, se questo è impossibile, accettare l’opinione degli uomini, la migliore s’intende, e la meno confutabile e con essa, come su di una zattera, varcare a proprio rischio il gran mare dell’esistenza, a meno che uno non abbia la possibilità di far la traversata con più sicurezza e con minor rischio su una barca più solida, cioè con l’aiuto di una rivelazione divina3Platone, Fedone XXXV..
Solo che lui, Platone, la fede rivelata non ce l’aveva (e la sospirava). Noi invece, che l’abbiamo ricevuta, rigettiamo la vera religione per costruirci a tavolino quelle false. E ci crediamo pure progrediti4Laddove forse siamo solo trogloditi.!
Note
↑1 | Resta ben inteso che non solo a nessuno verrebbe mai in mente oggi di “elaborare un nuovo dogma”, ma che nessun cattolico ha mai inteso fare una simile mostruosità: il dogma è uno e immutabile, e la maturazione dei dogmi indica il progresso della coscienza ecclesiale nell’approfondimento dell’unica verità rivelata per la salvezza. |
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↑2 | Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 2000, 38. |
↑3 | Platone, Fedone XXXV. |
↑4 | Laddove forse siamo solo trogloditi. |
Caro Marcotullio,
apprezzo il suo tentativo di difendere la dogmatica, ma non mi sembra che colpisca veramente al cuore le obbiezioni della lettrice.
Non si tratta di concedere o negare a Küng e a Kasper la qualifica di teologi, ma di dire se siano o no buoni teologi. Personalmente non ritengo che lo siano, per la stessa ragione per la quale l’obbiezione della lettrice non tiene: se, come lei dice, “i dogmi sono frutto della mente dell’uomo e soprattutto dell’uomo di altri tempi”, non vedo perché dovrei stare a sentire lei, o i suoi teologi di riferimento, che dopo tutto sono anch’essi “figli del loro tempo”. In breve: in base a che cosa viene reclamata per il nostro sapere odierno una superiorità nei confronti di quello del passato, così da ritenersi proiettati verso un “futuro” sempre più luminoso? Né la lettrice, né i suoi autori di riferimento lo dicono. Il problema sta nel loro porsi in un’ottica esclusivamente temporale, mentre il fatto stesso di parlare ci situa in uno spazio di interlocuzione. Quando parlo mi indirizzo ad altri con la speranza che essi mi capiscano: bisogna perciò che sappia identificare dei luoghi comuni di conversazione, tanto più inglobanti quanto più ampia è la cerchia degli altri a cui mi indirizzo.
Non mi sembra a questo riguardo condivisibile la citazione di Kant, come critico, se ho ben capito, delle “pretese idealistiche”, “germinalmente solipsistiche”. Volendo dedurre la totalità del sapere dall'”io”, egli ne era il padre, propalatore di uno scetticismo trascendentale del quale Stirner non fa che trarre le ultime conseguenze. Bella è invece la citazione di Platone, autore di un tempo in cui il pensiero non si volgeva nella riflessione sull'”io”, ma sul nostro essere in conversazione, che egli esemplifica nei suo dialoghi, mai parlando in prima persona ma lasciando sempre parlare il suo maestro Socrate. Legittimo anche identificare la “rivelazione divina” su cui si chiude la citazione con quella che ci viene dall’evento biblico, dell’esodo dall’Egitto prima, della passione morte e resurrezione di Cristo poi. Ma l’articolo non si doveva allora concludere lì. Doveva ricordare la grande opera dei Padri della Chiesa – nella quale si definirono gli insegnamenti del Cristianesimo, i così detti “dogmi” – grazie alla loro capacità di conversare con uomini estranei alla tradizione biblica, identificando nelle loro tradizioni i luoghi comuni che permettevano di comprendere ed accogliere l’annuncio cristiano. La stessa sfida ci si è presentata con l’allargarsi delle comunicazioni a società delle più diverse tradizioni, ma l’ottica puramente temporale del nostro presuntuoso presente non ce la fa percepire.
Caro Salzano,
le sue obiezioni sono valide e si accostano a quanto scrivo, mi pare, ma appunto per suggerire la distinzione tra buoni e cattivi teologi ho messo per esteso la mia “seconda considerazione” sul ministero teologale. E naturalmente giustizia impone che non si mettano su uno stesso piano Küng e Kasper, che ai profani possono sembrare entrambi alfieri delle “novità”, mentre da dentro è chiaro come il secondo sia tale solo relativamente, e comunque molto meno del primo (penso a Gesù, il Cristo di Kasper: forse non un capolavoro epocale, ma un testo che si può tranquillamente leggere, e con un qualche frutto). Questo fermo restando che a nessuno dei due vanno le mie simpatie accademiche.
Quanto a Kant, che non annovero (neppure lui) tra i miei personali punti di riferimento, ho però l’obbligo di spezzare una lancia in suo favore. Sempre nella prima Critica si legge infatti: «Sta a questa [la prova filosofica dell’esistenza delle cose esterne, N.d.R.] dimostrare come, circa le cose esterne, noi siamo in possesso di un’esperienza, e non di una semplice immaginazione; il che non può aver luogo se non dimostrando che la nostra stessa esperienza interna, che Cartesio ritiene al riparo dal dubbio, non è possibile che presupponendo un’esperienza esterna» (I. Kant, Critica della ragion pura, cap. 2, sez. 3, 252). Se infatti Kant individua la difficoltà, e la rubrica alla voce di “quarto paralogismo della psicologia trascendentale”, egli è decisivo soprattutto nell’illustrarne la relativa critica, ovvero che non si dà esperienza immediata dei fenomeni, ma che questo non implica che i fenomeni non sussistano in qualche modo (anzi l’esperienza sensibile esige un simile postulato). Ora, questo può sembrare pericolosamente ambiguo, ma anche qui ci corre l’obbligo di ricordare che già Agostino faceva simili considerazioni nel Contra Academicos (in particolare III,11,26), e che la stessa impostazione tomistica non propone un realismo trascendentale, bensì un realismo moderato che a studiosi come Johannes Baptist Lotz sembrò conciliabile con l’idealismo trascendentale kantiano (un titolo per tutti: Esperienza trascendentale). Sempre l’amore dei fatti ci impone di ricordare che Kant polemizzò continuamente con Berkeley e Descartes, nella sua opera, presagendo le derive idealistiche che in effetti vi furono – e contro le quali mi pare ammissibile che egli pensasse di apportare il correttivo del Criticismo.
Insomma, non mi sento kantiano in alcun modo – e ho già sottolineato la differenza tra la teologia naturale e l’etica geometrica di uno Spinoza e quelle di chi elabora una religione che minimizzi gli attriti (e non di rado che massimalizzi i profitti…): da una parte si va verso la sintesi a priori, per restare sul kantiano; dall’altra si degrada nella sintesi a posteriori, che può produrre idee anche feconde (e redditizie…), ma in nessun modo un qualsivoglia sapere scientifico. Ho inserito la citazione per mostrare analogicamente che come la colomba dell’intelletto si fonda precisamente sull’aria delle esperienze (e proprio perché il Criticismo puro non è un idealismo le esperienze sono riconosciute e dette un postulato necessario), così anche la teologia naturale, pur potendo conoscere Dio e alcuni suoi attributi con certezza, neppure lontanamente è paragonabile a quella rivelata, poiché la Rivelazione sta alla teologia, in un certo senso, come l’aria alla colomba. Onde il Poeta vergava la notissima terzina: «State contenti, umana gente, al quia; / ché, se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria» (Pg III,37-39). Il quia è l’esistenza di Dio, la sua eternità, la sua onnipotenza, ma «matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone» (Ivi 34-36) – né mi pare con ciò di contravvenire alla costituzione dogmatica Dei Filius. Di qui veniva il nesso con la citazione platonica, e son contento che questa le sia piaciuta.
In ultimo devo scusarmi: se questo piccolo post non si è aperto alla considerazione del meraviglioso sviluppo dogmatico in epoca patristica è perché – come si vede dalle prime battute – da lì prendeva l’avvio.
Grazie per l’attenzione.
Caro Marcotullio,
la ringrazio per la sua sollecitudine nel rispondermi e spero che la nostra conversazione possa interessare ai lettori del suo blog, perché le questioni toccate non riguardano i filosofi di professione, ma gli uomini in quanto tali. Purtroppo non conosco Lotz se non di fama: insegnava alla Gregoriana, se non mi sbaglio, prima che io ci andassi negli anni ottanta. Mi permetto in alternativa di suggerirle il mio amatissimo Antonio Rosmimi: se non vuole affrontare il suo “Nuovo saggio sull’origine delle idee” (purtroppo un po’ lungo, ma si legge bene), oppure la sua “Antropologia in servizio della scienza morale” (anche questa alquanto lunga, ma la scrupolosità analitica delle argomentazioni era forse il peggior “difetto” di Rosmini), può provare con la “Introduzione alla filosofia”. Che cosa ne ho tratto? Che noi uomini non siamo isole, chiusi nei confini della nostra epidermide, con i sensi come solo spiraglio sul fuori. Vana illusione se speriamo con questo di avere accesso ad un mondo comune. Chi di noi non si è mai chiesto se, pur chiamando un colore con lo stesso nome, ad esempio “rosso”, altri percepiscano lo stesso colore che percepiamo noi? Eppure tutta la nostra cultura cospira nel convincerci che l’unica cosa affidabile siano i sensi; quante volte non mi sono sentito dire: “io credo solo in quello che vedo sento e tocco”? Al che io rispondevo: “anche io, il problema è che cosa vedi senti e tocchi? E se provassimo a invertire le cose, e renderci conto che non potremmo nemmeno essere consapevoli di noi stessi come separati da altri, se prima non abbracciassimo loro e noi in una visione d’insieme? Non sto a svolgere le implicazioni di una simile visione, mi ci sono voluti un paio di libri per farlo. Posso solo aggiungere che essa porta a riconoscere nelle cose umane una logica non determinata arbitrariamente da noi, nella quale possiamo comunicare. Rosmini vede in questo un divino lume naturale, logos ideale che solo trova nel “logos fatto carne” la realizzazione soprannaturale. Non sono a conoscenza di altri in epoca moderna che abbiano ugualmente dato ragioni, come richiede san Pietro, della speranza che è in noi.