Thérèse, Cécile e… “la regola delle regole”

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Tutto nasce da una donna acuta ed estremamente non convenzionale: quando tra le mani mi giunse il libro di Thérèse Hargot, Una gioventù sessualmente liberata (o quasi) (Sonzogno, 2017), io ero appena approdata all’Ostetricia “diversa”. Venivo da una formazione abitualmente dedita allo sguardo osé della sessualità, quella che fa rima con “contraccezione” e “piacere”, ma non con “coppia” e “rispetto” (forse con “parità di genere” ma non certo con “femminilità e mascolinità virtù di preziosità”). Leggere il libro della sessuologa – ovviamente rivoluzionaria – francese, mi stordì e mi convinsi che c’era ben altro oltre lo sguardo voluttuoso che una certa parte dell’Ostetricia e della Ginecologia hanno (ancora) della sessualità. Avidamente lessi e continuo a leggere quello che questa donna (e professionista, non dimentichiamolo) – profonda conoscitrice dell’animo femminile e maschile – propone, perché lo fa con uno sguardo sereno e pulito, ben lontano dall’essere quello che ho visto negli occhi di operatori sanitari prescrittori di anticoncezionali alle ragazzine, più simile a quello dell’Omino di Burro di collodiana memoria.

Una volta conosciuta Thérèse, tradotta magistralmente da Giovanni, mi è venuto spontaneo, nel momento in cui questa annunciò di aver trovato un libro adatto alla figlia tredicenne, acquistarlo immediatamente. Rispolverato un francese da scuola media (benedetta la professoressa Rossanigo, severa ma molto competente) ho dovuto assolutamente cercare chi potesse diffonderlo in Italia: Anita Molino mi è venuta subito in mente, poiché so la sua passione per il rispetto della natura infantile. I libri del Leone Verde (collana Il bambino naturale), sono nella libreria di tante mamme e di tante ostetriche poiché sono quei testi nei quali ogni bambino è trattato da quello che effettivamente è: un essere umano prezioso, unico, particolare e degno d’infinito rispetto nello sviluppo della propria soggettiva personalità. I genitori “nutriti” dei libri de Il Leone Verde (ricordo che tra gli autori ci sono Giorgia Cozza, Kerstin Uvnas Moberg, Carlos Gonzalez, Alessandro Volta, Emanuela Rocca, Michel Odent, Alessandra Bortolotti e Antonella Sagone, solo per citarne alcuni a memoria) si trovano spesso con il peso del far parte di una società adultocentrica che oggettivizza il bambino e lo rende qualcosa che soddisfi l’adulto: quando invece si sfogliano i testi che Anita Molino sceglie di pubblicare, si dà al bambino un ruolo fondamentale dell’essere persona da allevare ed educare al Bene e al Bello, per sé e per chi egli incontrerà nella sua vita.

Cosa significa educare al Bello quando si tratta di sessualità? Significa ridare alla persona il ruolo centrale, senza estrapolare i suoi genitali da un contesto complesso: Thérèse Hargot, infatti, parlando di sessualità, sta molto attenta a smontare pezzo per pezzo le ideologie tronfie della Sessuologia pornificata della nostra cultura, che tende a rendere la persona l’oggetto attraverso cui godere (rapidamente e irresponsabilmente) attraverso ridicole pratiche erotiche piuttosto noiose. Tesori Femminili si è ben aggiunto alla pubblicazione – franca e senza fronzoli – della Hargot perché parla alla persona, alla donna – ma anche al l’uomo – considerandola composta da cuore, cervello e anima. 

Sfogliando Tesori Femminili la prima volta, non provai quel senso di noia mortale che tante pubblicazioni per ragazzi sulla cosiddetta “educazione sessuale” e molto spesso sull’ “educazione affettiva”, fanno senza ritegno (e professionalità): ero sollevata che l’anatomia e la fisiologia femminile e maschile fossero descritte come parte integrante della persona e non come un mezzo. Gli ormoni che governano in tanti modi il nostro essere, ad esempio, non sono trattati come stimoli emotivi privi della possibilità di essere controllati da un raziocinio proprio della persona umana: questo vuol dire che raccontare di ossitocina non significa solo relegare a questo ormone la sua funzione durante il parto o l’orgasmo, ma raccontare tutti i mille modi in cui l’ossitocina (ormone della calma e della connessione) “lega” le relazioni d’amore e d’amicizia, specialmente quando vi è rispetto reciproco e accoglienza.

Cécile de Williencourt-Frémont è un’ostetrica (in francese si dice “sage-femme” e in italiano, invece, le ostetriche condividono il nome coi ginecologi, vivendo in costante fraintendimento di ruoli e funzioni) che si occupa di consapevolezza durante la gravidanza, ma che probabilmente poi ha compreso che prima della gravidanza c’è almeno un decennio di fertilità che la donna ha obbligatoriamente ceduto all’anticoncezionalità farmacologica, rimanendo poi invischiata in patologie più o meno gravi, infertilità compresa. La storia di tanti metodi cosiddetti “naturali” si basa sul fatto che le donne siano intelligenti e non bamboline sciocche da gestire tramite una Medicina contraccettiva (che la Hargot fa proseguire con l’abortivismo) e che quindi possano liberarsi del peso del timore della gravidanza poiché la sessualità è vissuta con la consapevolezza di coppia. 

È stato un piacere e una scoperta continua lavorare “gomito a gomito” con Giovanni, per consegnare una versione italiana di Tesori Femminili: non ero mai stata “in prima linea” con un lavoro editoriale e la cosa mi ha appassionato molto. Ringrazio tantissimo Cécile, Thérèse, Giovanni e soprattutto Anita perché adesso, anche qui, si può educare le giovani donne verso la preziosità dell’essere parte di un mondo femminile. Spero, presto, di poterne parlare tutti insieme.

Rachele

Tradurre questo libro ha costituito una sfida particolarmente interessante: non tanto perché è scritto da una donna e con una scrittura che direi “molto femminile” – ed evidentemente era mio compito tentare di renderla con un fraseggio italiano analogo –, ma soprattutto perché l’Autrice parla principalmente di donne e a donne. 

Se prima di iniziare la lettura potevo temere di sentirmi rapidamente un intruso in una conversazione intima, lo scorrere delle pagine mi convinceva gradualmente del contrario: sulle prime mi ritenevo un fortunato carpitore di segreti trafugati a una disciplina dell’arcano; mano a mano invece mi avvedevo di non essere affatto un estraneo, e anzi di come il testo si rivolgesse anche a me (in quanto uomo-maschio), perfino più spesso di quanto pensassi, apprezzavo maggiormente il valore e l’ambizione di questo agile opuscolo. 

I “tesori femminili” fanno parte infatti del nostro corredo universale, foss’anche “solo” perché tutti siamo stati gestati, partoriti, allattati ed educati (anche) da una madre: è evidente che gli uomini funzionino in modo molto diverso dalle donne, ma è pur sempre da queste che anche quelli mutuano la grammatica degli affetti, tanto rilevante pure nella percezione del sé. Anche per questo ho preferito rendere il titolo “trésors de femme” con “tesori femminili” anziché con l’ovvio “tesori di donna”: questo libro parla del mistero delle bambine e delle vecchiette, col quale noi padri, noi nipoti c’interfacciamo da sempre o da un certo momento della nostra vita; nell’aggettivo “femminile” c’è la radice latina di “femur”, che già gli autori latini classici usavano talvolta come sineddoche per “donna” tout court… e tuttavia quel femur, da cui viene lo stesso “femme” francese, non indica solo le ben tornite cosce delle muse di Catullo, bensì anche le gambe infragilite e stanche delle donne in cui si è ormai esaurita la “vitalità ciclica”, ma che nondimeno hanno ancora un importante tratto di strada da percorrere. 

Stromae, Tous les mêmes, 2013

Mentre ammiravo l’appassionante esposizione delle “ricchezze del ciclo femminile” (non a caso il secondo dei cinque capitoli consuma in sé mezzo libro) cominciavo a pormi un problema di resa: il francese non conosce l’espressione “avere il ciclo”, laddove in italiano le donne la adoperano comunemente intendendo “avere le mestruazioni”; per contro, la fase emorragica del ciclo (ossia le mestruazioni, appunto) viene espressa principalmente con due nomi – “les menstruations”, naturalmente, e “les règles”. Certamente qualche lettore dal vocabolario forbito osserverà che anche in italiano “avere le regole” significa “avere le mestruazioni”, ma mentre da noi l’espressione suona quantomeno letteraria, se non arcaica, Oltralpe essa è di uso comunissimo: si ricordi che nella sua celebre hit del 2013, Tous les mêmes, il cantante belga Stromae vi chiudeva l’orecchiabile ritornello («…rendez-vous sûrement aux prochaines règles»). 

Che fare, dunque? Mi si poneva il problema, visto che l’Autrice alternava “menstruations” a “règles” – anche per introdurre una necessaria variatio in certe pagine che altrimenti sarebbero risultate di pesante lettura –, e da una parte avrei voluto sostituire “règles” con un sinonimo italiano di “mestruazioni” che non suonasse poco comune… dall’altro, oltre all’insoddisfazione davanti alle parole che mi si candidavano alla mente, c’era anche da esprimere in qualche modo lo stupore per ciò che quel grande cumulo di osservazioni, consigli, norme e precetti dell’Autrice costituisce. Regole, appunto. Regole che richiedono una così meticolosa attenzione, sostenuta da una tanto intima e convinta adesione, da costituire in fondo una sorta di Regola: la “Regola delle regole”, e non a mo’ di superlativo, bensì di concretissimo complemento di specificazione. 

L’idea mi sorrideva e, di più, mi solleticava, o dovrei dire che mi tentava? Il passaggio da una lingua all’altra stava ponendo le basi per un sovraccarico semantico rispetto al testo di partenza, e ciò mi avrebbe portato ad “arricchire” il testo d’arrivo con sfumature non presenti nell’originale – a un profano delle traduzioni può sembrare una cosa bella, ma non è affatto detto che sia così. Titubavo sul da farsi quando, negli ultimi paragrafi delle ultime pagine del libro ho scoperto con gioia che pure l’Autrice si è spinta a giocare sul doppio senso della parola “règles”:

Il ciclo le ha insegnato molto [alla donna], le ha dato – dice – delle “regole”.

A questo punto non solo potevo, ma dovevo alternare anche in italiano “regole” a “mestruazioni”, o il calembour di quella pagina finale sarebbe rimasto oscuro a molti, tanto più in una lingua che non usa comunemente le due parole come sinonimi, e dunque ho mantenuto (sia pure con minore frequenza) l’alternanza proposta dall’Autrice. 

La cosa bella è che questo non rimane un mero jeu de mots, ma traspare in filigrana come proposta forte per la vita della donna… e della coppia! In altre parole: se una donna viene invitata a conoscere la propria fisionomia per comprendere “le stagioni” della propria personalità e per poterla così esprimere e sviluppare al meglio; all’uomo (soprattutto a chi una donna l’abbia sposata o la sposi) si propone di adottare la “regola delle regole” come oiko-nomia, cioè come “legge della [propria] casa”. Egli comprenderà meglio la sua donna e insieme i due tenteranno di imprimere alla famiglia i ritmi del ciclo. 

In un celebre “discorso agli sposi novelli” dell’11 marzo 1942, Pio XII sviluppava l’intuizione “la sposa e la madre è il sole della famiglia”, e lo faceva talvolta indulgendo alquanto a immagini angelicate che parafrasavano il topos dell’“angelo del focolare”: i tesori femminili fanno invece sì che nell’intuizione di papa Pacelli possano ritrovarsi ulteriori elementi di interesse. 

Al sole, infatti, e alla sua interazione con i parametri planetari, si devono le stagioni e i loro cicli, i quali producono il miracolo della vita e – se ben conosciuti, assecondati e “regolati” – portano al progresso della civiltà umana. 

Giovanni
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