La RU486 non è una caramella: ascoltate un medico e non Speranza

Come medico di medicina generale, abituato a raccogliere sfoghi e amarezze delle donne, in relazione a gravidanze, aborti spontanei, interruzioni volontarie, mi sento di dover aggiungere qualche considerazione di psicologia spicciola.

L’aborto indotto tramite la RU 486, sarebbe meglio dire la morte intrauterina dell’embrione seguita dalla sua espulsione ad opera di una prostaglandina, sembrerebbe, ad udire certi medici e certe “rappresentanti” femminili, la soluzione ideale e indolore al problema dell’interruzione volontaria della gravidanza.

In realtà, guardando la faccenda senza pregiudizi etici o morali, vediamo che il trattamento con la RU486, anche dove già in uso, presenta un tasso di insuccessi o complicazioni non irrilevante, con necessità di ricovero, trasfusioni, intervento chirurgico in una percentuale nettamente superiore a quanto avviene con il metodo “classico”. (a questo proposito sarebbe interessante notare come, statistiche alla mano1[Si tenga presente che riproponiamo qui uno scritto pubblicato su Avvenire nel 2005 [N.d.R.].], le IVG in Italia abbiano ufficialmente un tasso di complicazioni dello 0%; forse perché i pochi casi non vengono registrati?).

Se dunque la RU 486 non è “migliore” dal punto di vista della percentuale di risultati, perché tanto accanimento e tanta voglia di usarla?

La spiegazione che sono tentato di dare sta nel diverso ruolo che con la “pillola magica” recitano il medico e la donna.

Il medico, qualsiasi medico, sa che “sotto sotto” l’IVG è un atto negativo, e capisco benissimo che per un ginecologo, al di là di ogni giustificazione sociale e giuridica, non possa fare piacere impiegare il suo tempo e le sue conoscenze nell’uccidere forme di vita umana. Con l’aborto “classico” spetta infatti al medico il ruolo attivo dell’aspirazione o del raschiamento. Diverso il quadro con la RU486: il medico scrive su un foglietto la prescrizione, magari senza nemmeno vedere la donna, un infermiere le porta la pillola su un piattino, e a questo punto è lei, la donna, a raccogliere la pastiglia, a metterla in bocca e a deglutirla. Dopodiché dovrà aspettare tre giorni che il veleno faccia effetto, senza avere più nessuna possibilità di ripensamento, magari tesa a percepire piccole reazioni del proprio organismo. Dopo i tre giorni, prenderà il secondo farmaco e aspetterà “tranquillamente” l’emorragia, più o meno copiosa, con cui sarà eliminato “il prodotto del concepimento abortito”.

Dal punto di vista psicologico, una prova tremenda! Col metodo tradizionale la donna fino al momento di entrare in sala operatoria può avere un ripensamento, e non sono rarissimi i casi in cui ciò accade. Poi, la sedazione, l’anestesia, e quando la paziente si risveglia, lo stato di incoscienza durante il quale è avvenuta l’IVG rappresenta in qualche modo una sorta di difesa, di riconoscimento di un ruolo passivo di fronte all’atto abortivo, che, se non può rappresentare una esimente morale, certo ha un ruolo nella gestione psicologica dell’avvenimento.

Sentendo parlare in questi giorni esperti e meno esperti, sembra che questo aspetto del “dolore morale” non sia stato preso adeguatamente in considerazione.

Io penso che cosa succederebbe se, in relazione ad altri “eventi medici”, per es. un infarto, o una tonsillectomia, a fronte di trattamenti standard con una certa percentuale di effetti collaterali, si proponesse una via alternativa, decisamente più onerosa in termini di complicazioni ed effetti avversi, ma più economica e “più comoda”; si scatenerebbe il finimondo contro la classe medica insensibile e “ragioniera”.

La stessa affermazione, sempre citata “per una donna è sempre una scelta difficile e dolorosa”, che è certamente vera (anche se magari il dolore sopraggiunge con ritardo di mesi o anni), mal si concilia con la RU486. Ma ce l’immaginiamo che cosa deve accadere nella mente di una donna, arrivata dolorosamente alla difficile scelta di interrompere la gravidanza, nei due giorni dopo aver assunto la “semplice pillola”?

Sa che non potrà tornare indietro; ogni minimo doloretto, sa che potrebbe essere l’inizio dell’espulsione; se per caso l’aborto non risulta completo, dovrà fare anche il raschiamento; se non funzionerà, ha firmato per abortire comunque, dato il rischio di malformazioni.

So che non è molto elegante, e forse dal punto di vista teoretico-morale è anche sbagliato, ma una donna che ha scelto, dolorosamente e con difficoltà, l’IVG, quando, magari a distanza di anni e decenni, sarà sfiorata da sensi di colpa o anche solo da dubbi e ripensamenti, può spesso trovare “scusanti” o giustificazioni, nelle circostanze, nel comportamento di altri, talvolta solo nel “non ricordare bene i particolari”. Come reagirà una donna che saprà di aver preso in mano la pillola, di averla inghiottita e deglutita, di aver firmato carte su carte…


Nota dell’Autore

A distanza di 15 anni, mi fa piacere non dover cambiare nemmeno una virgola. In realtà, l’unica cosa da cambiare sarebbe la statistica delle complicanze da aborto. Nelle ultime relazioni ministeriali, il dato dello “zero spaccato”, è diventato uno “zero virgola”, sempre comunque molto lontano dalla credibilità, anche rapportandoci a quanto avviene in nazioni europee “civili”, che hanno cifre di molto maggiori.

Note

Note
1 [Si tenga presente che riproponiamo qui uno scritto pubblicato su Avvenire nel 2005 [N.d.R.].]

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