La teologia è un sapere scientifico? Un percorso (parte 3ª)

Con Pannenberg facciamo un deciso salto nella seconda metà del XX secolo. Wolfhart Pannenberg è uno dei teologi più importanti del secolo scorso, punto di riferimento e di dibattito anche oggi. Con lui torniamo al problema centrale di questo percorso: la teologia è una scienza? Teologo di professione Pannenberg ha insegnato in diverse università tedesche, nelle quali erano (e lo sono tuttora) presenti le facoltà di teologia. Pannenberg si interessa del nostro tema nel testo “Epistemologia e teologia”. In quel periodo le università tedesche sono coinvolte in un momento di ristrutturazione e riforma che ri-accende il dibattito sulla questione epistemologica. In questo contesto nasce il libro da cui traiamo alcune idee sul nostro argomento di discussione.

Una teologia immersa nella storia

Per inquadrare il problema Pannenberg svolge un’ampia presentazione storica delle posizioni di teologi e pensatori sullo statuto scientifico della teologia (quasi primo figura Tommaso). Panneberg approfondisce i due limiti che abbiamo sopra visto in Tommaso. – e poi integra le riflessioni di due pensatori dell’Otto e Novecento – Popper e Dilthey. Ecco in estrema sintesi l’approfondimento esposto dal nostro teologo:

  1. Se i “princìpi” della teologia sono gli articoli di fede allora essi sottostanno ad un processo di controllo sulla base dell’esperienza, in due modi almeno.
    1. I cosiddetti dogmi od articoli di fede sono tratti da una storia (biblica, ebraica e cristiana). Dunque bisogna determinare in maniera storico-teologica quali essi siano e se siano stati intesi in maniera adeguata. Inoltre bisogna “seguirli” nel loro processo all’interno della tradizione religiosa propria (il cristianesimo).
    2. Oltre a ciò essi stessi devono essere sottoposti ad una critica veritativa: ad es. la Trinità è “vera” come immagine di Dio? Critica che deve avvenire tramite un controllo sull’esperienza di cui parleremo ancora dopo.
  2. La stessa esistenza dell’oggetto principale della teologia, cioé Dio (come già affermava Tommaso), non può più essere data per scontata. Essa deve invece essere assunta come un problema. Pannenberg propone come definizione nominale della natura di Dio la realtà che determina ogni cosa. Questa definizione “vuota” è adatta a essere determinata in maniera tale da dovere e potere poi essere controllata sulla base dell’esperienza.

Come si può notare gli approfondimenti ruotano tutti attorno alla realtà e all’idea di storia. Per Pannenberg la storia non è soltanto una specie di teatro in cui disporre eventi e “scoperte”. La storia è quella realtà nella quale si dispiega il senso del mondo. Il senso si dispiega nella storia nell’intrecciarsi del cambiamento del mondo, delle esperienze che ne vengono fatte e dei tentativi sempre nuovi di comprenderlo. Infatti ogni sistema filosofico, ogni esperienza religiosa, morale, scientifica, si colloca nella storia e lì vive. Per Pannenberg questo è (anche) il carattere profondo della rivelazione cristiana. Essa avviene nella storia e lì va incontrata e accolta – da cui il titolo della più nota tra le sue opere: “Rivelazione come storia”.

La teologia dopo Popper…

A partire da questo importante tassello possiamo presentare la visione della teologia che per Pannenberg giustifica la sua pretesa di scientificità. Per fare ciò il nostro teologo “assimila” i contributi di due filosofi e pensatori: Popper, di cui abbiamo parlato, e Dilthey (a cui accenneremo brevemente).

Da Popper viene assunta l’idea che ciò che demarca una scienza va trovato nella controllabilità delle sue ipotesi, cioé nella possibilità che esse siano falsificabili. In maniera analoga rispetto a Popper, Panneberg è costretto a rinunciare al raggiungimento di risultati definitivi. Definitivi come ipotesi o “teorie” che valgano una volta per tutte e per sempre come vere. Controllando criticamente le affermazioni teologiche esse guadagnano la possibilità di essere assunte da tutti come possibile fonte di conoscenza – di essere opera della scienza insomma. Rimane solo un problema: se le teorie della fisica sono controllabili tramite esperimenti come si controllano le affermazioni teologiche?

…e dopo Dilthey

Qui viene incontro il secondo pensatore, Dilthey (ed altri al seguito). Dilthey aveva individuato già a cavallo tra Otto e Novecento una possibile distinzione e fondazione dei due tipi di ricerca che muovevano lo sviluppo dell’umanità. Da un lato le scienze della natura, il cui carattere scientifico non era in dubbio, anzi era da alcuni ritenuto l’unico modello possibile di scienza. Dall’altra quelle che oggi chiamiamo discipline umanistiche – filosofia, storia… Dilthey propone una caratterizzazione dei due ordini di ricerca che fondi e giustifichi il loro statuto di scienza evitando due rischi contrapposti:

  • ritenere il modello delle scienze naturali l’unico possibile sacrificando l’autonomia e la consistenza dell’altra tipologia di ricerca;
  • rinunciare semplicemente per le discipline umanistiche allo statuto scientifico, facendole decadere a semplice gioco di parole (o retorica).

Di conseguenza Dilthey ritiene che l’oggetto delle scienze naturali, la natura e i suoi fenomeni, richieda un atteggiamento analitico di spiegazione e verifica (sperimentale). L’oggetto proprio delle discipline “umanistiche” è lo spirito – la capacità umana di creare e comprendere il senso del mondo umano e non. Atteggiamento corrispondente a questo campo di ricerca è quello della comprensione. Comprendere è abbracciare il fenomeno nella sua interezza, con le sue implicazioni, i suoi presupposti, il suo orizzonte e il suo legame con l’intera realtà.

Comprendere il senso: ecco il metodo

Naturalmente la teologia viene collocata in questa tipologia. Il suo oggetto specifico invece diventa la comprensione del senso della realtà in quanto determinata da Dio. La realtà però si dà in un’esperienza che è nella storia, e la storia è per principio aperta – nessun uomo ha “chiuso” la storia. Ciò significa che l’esperienza della realtà che ci fa conoscere Dio (rivelazione o tradizione religiosa) non è mai al termine. E di conseguenza nemmeno l’atto di comprenderla.

Da qui la specificazione del metodo della comprensione come ermeneutica. L’ermeneutica è l’arte o disciplina di interpretare. Ovvero comprendere il senso di un documento o realtà che arriva a noi e che richiede di essere colto. Ora, l’interpretazione di un testo è sempre virtualmente senza fine. Allo stesso modo lo è l’interpretazione del senso della realtà come condizionata da Dio, almeno fino a che la realtà della storia non finirà.

Chi controlla…la realtà che determina ogni cosa?

La teologia dunque ha Dio come oggetto e, in lui, la realtà come ciò che è da lui determinata. Tale legame avviene sulla base della definizione sopra riportata di Dio come realtà che determina ogni cosa – un po’ come l’incondizionato kantiano o, ma solo parzialmente, l’assoluto hegeliano. Ma in che modo si controlla che ciò che vien detto di lui sia valido, adeguato, vero?

È qui evidente che soltanto la fine di tutta la storia può consentire la decisione definitiva su tutte le asserzioni che riguardano la realtà nel suo complesso, e quindi anche la realtà di Dio e il destino dell’uomo. Tuttavia, considerata l’inevitabilità delle ipotesi sulla realtà nel suo complesso, è importante sviluppare fin d’ora, per l’uomo d’oggi, dei criteri che permettano di prendere una decisione almeno provvisoria su tali ipotesi. Una decisione di questo genere può essere orientata solo a questo: se le ipotesi sulla realtà nel suo complesso, quali vengano tematizzate nelle asserzioni delle tradizioni religiose come anche nelle resi del pensiero filosofico, si dimostrano o non si dimostrano vere nelle esperienze che noi facciamo effettivamente nei vari settori esperienziali.
Wolfhart Pannenberg, Epistemologia e teologia, trad. it. di D. Antiseri e L. Pusci, Queriniana, Brescia 19992 (1975), p. 325.

Le asserzioni religiose su Dio che la teologia elabora non possono essere controllate direttamente sul loro oggetto. Per definizione, potremmo dire, se un oggetto può entrare come variabile in un esperimento, quell’oggetto non è Dio, ma un pezzo di mondo, condizionato dal resto del mondo. La verifica è solo indiretta, dunque. Se Dio determina ogni cosa, allora si possono confrontare le affermazioni su di lui con l’esperienza della realtà di volta in volta possibile, con quelle del passato e del presente.

Falsificare la teologia: criterî di controllo

I criteri che elabora sono applicati al caso di una teologia che discuta la concezione di Dio del cristianesimo, ma, adattati, sarebbero, per lui, estendibili a qualunque altra religione. Sono criteri falsificanti, non affermativi – come in Popper.

  1. Il primo elemento di falsificazione è per così dire interno: le affermazioni su Dio e il mondo che pur essendo legati alla fede ebraico-cristiana non sono uno sviluppo di implicazioni delle tradizioni bibliche non sono accoglibili (potrebbero esserlo in un’altra tradizione?).
  2. Il secondo criterio richiede che le affermazioni teologiche debbano poter essere estendibili anche all’oggi, al presente con il suo portato di nuove esperienze e pure di nuove conoscenze.
  3. Per terzo tali affermazioni devono integrare il settore della vita di cui parlano con gli altri settori della vita nel loro complesso (religioso e politico, morale e economico ad esempio).
  4. Infine le affermazioni o ipotesi devono spiegare di più e comprendere meglio di altre ipotesi o affermazioni già introdotte in passato.

Come risulta chiaro i criteri non sono tali da poter fornire giudizi evidenti che per principio si sottraggano ad ogni contestazione. Rimane un ampio margine di dissenso, senz’altro molto maggiore che nelle scienze naturali. Tuttavia rimangono criterî di controllo che, se accolti, fungono da criterî regolativi e di giudizio.

Qui non si tratta d’una certezza prettamente esistenziale, che non potrebbe addurre alcuna ragione o argomento in suo favore. Ma non può nemmeno indurre ad aderirvi per necessità logica chi non ne accetta il senso. Infatti, data l’incompiutezza della realtà e dei suoi contesti di senso, sono sempre possibili anche altre anticipazioni della verità definitiva, benché da una data posizione possano apparire ancora improbabili. Il controllo teologico e la riformulazione delle tramandate asserzioni religiose non può quindi approdare a una certezza teorica, ma al massimo a un giudizio, se si dimostrano o non si dimostrano vere; può inoltre indicare le ragioni per cui una data asserzione religiosa deve essere ritenuta confermata o no.
Wolfhart Pannenberg, Epistemologia e teologia, trad. it. di D. Antiseri e L. Pusci, Queriniana, Brescia 19992 (1975), pp. 325-326

Pannenberg di fronte a Tommaso

Si possono ora affrontare delle osservazioni conclusive. Pannenberg prova ad affrontare “di petto” i problemi che avevamo rilevato in Tommaso.

Primo fra tutti il fatto che gli “assiomi” della teologia non erano condivisi da tutti né potevano essere imposti all’evidenza di tutti. Per il nostro teologo tedesco la teologia deve abbandonare la pretesa di partire da quei princìpi come indiscussi e deve anzi esporli alla valutazione come ogni altro. Il dato dogmatico dunque è sì un dato della teologia del cristianesimo, ma è esposto al giudizio critico, per Pannenberg, e non può essere accolto come dogma.

Come conseguenza la teologia cristiana è solo uno dei campi della teologia, che dovrebbe valutare la pretesa delle altre tradizioni – allo stesso modo e alle stesse condizioni. Ciò significa che si possono controllare i risultati di ciascun teologo di ogni religione sulla base di questi criterii. Non certo per stabilire il vincitore nelle “religiompiadi”, ma almeno per valutare sviluppi e concezioni in un contesto sia oggettivo (riferimento alla realtà) che inter-soggettivo (discussione tra teologi e non).

La teologia rimane intelligenza della fede? Due punti deboli

Quali sono i punti deboli? Ne individuerei due che, apparentemente opposti, hanno un punto di convergenza iniziale.

Il primo deriva dall’oggetto, dal contenuto proprio della teologia. Una delle più celebri definizioni della teologia cristiana la definisce come l’intelligenza della fede. Ora uno dei caratteri della rivelazione e della fede cristiana sta nel riconoscimento dell’autorità di Dio che si rivela in Gesù Cristo e nei suoi testimoni – gli Apostoli e poi la Chiesa – e nei testi accolti come ispirati (le Scritture o Bibbia). Per quanto la fede abbracci tale autorità sulla base di un tipo di persuasione non arbitraria, in ogni caso non sembra possibile eludere del tutto questo “momento” della fede. Una teologia della fede cristiana che escluda totalmente questo aspetto (come in Pannenberg) può dirsi fedele al suo oggetto?

Il secondo giunge a questo stesso paradosso dal punto di vista complementare. Il principio aristotelico per cui nessuna scienza parte da premesse che è lei a dimostrare o che nessuna scienza è senza premesse ha conseguenze importanti. Dato questo assunto una scienza che ambisca ad abbracciare il senso di tutto il reale (come la teologia, ma pure la filosofia) non può partire da premesse dimostrate in altri contesti – quale ricerca sarebbe più generale della loro? – né misurare la verità delle premesse su un qualche esperimento – il suo oggetto non è delimitabile rispetto ad altri. Rimane però bisognosa di premesse e infatti Pannenberg è “costretto” ad inserire la fedeltà alla tradizione biblica – solo ad essa, essendo protestante. Questo inserimento è ingiustificato dal punto di vista della neutralità scientifica nel momento di verificazione della teologia.

Queste due difficoltà partendo da esigenze diverse disegnano due esigenze paradossali per la teologia:

  • -c’è bisogno di premesse “indimostrate” e non soltanto logiche o generali (principio di non-contraddizione), premesse teologiche che permettano un reale sviluppo di un rapporto uomo-mondo-Dio carico di senso;
  • queste premesse devono essere in un rapporto di evidenza rispetto a chi le abbraccia, non l’evidenza cartesiana, ma un’evidenza simbolica, che non renda la loro presupposizione puramente arbitraria.

La teologia è un sapere scientifico?

In conclusione, si può rispondere con un sì o un no alla domanda se la teologia sia o possa essere una scienza? Certamente non nel senso di ottenere una disciplina in grado di fondarsi sulla piena evidenza della matematica o sulla innegabile riconferma sperimentale e tecnica del complesso delle scienze naturali. Nessun teorema della Trinità dunque, e nessuna verifica della provvidenza tale da farne una legge di previsione e controllo della natura o della storia. Tuttavia abbiamo potuto verificare, leggendolo o parlandone, che il procedere delle argomentazioni teologiche è dotato di struttura e coerenza argomentativa – e infatti si possono criticare e confutare sulla base degli stessi passi del loro procedere. Questa “esibizione” di razionalità nei propri argomenti gioca a favore di una teologia che può essere seguita nel suo sviluppo e che quindi è costitutivamente aperta alla discussione inter-soggettiva.

Accanto a questo punto a favore rimane il fatto che se la teologia è intelligenza (comprensione) della fede essa si basa su di un’esperienza non assolutamente universalizzabile. La teologia su questo punto deve compiere il suo dovere di discutere la credibilità delle proprie premesse e di elaborarne l’evidenza – simbolica ed esistenziale. Questo compito è estremamente utile perché strappa all’arbitrio le premesse esistenziali, religiose, etiche di cui tutti si nutrono nell’elaborare le proprio visioni di vita e le proprie filosofie. In maniera analoga alla filosofia, e spesso in incontro-scontro con lei, la teologia può svolgere un servizio prezioso per l’elaborazione di una visione della vita e del mondo condivisibile con tutti e con tutti oggetto di dibattito e discussione. Avendo come orizzonte la ricerca della verità e la comunicazione tra tutti gli uomini.

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