Perché dovremmo rimetterci alla scuola delle filosofie ellenistiche

Appartato rispetto all’agorà di Atene, nel solitario silenzio della campagna, il Giardino che Epicuro scelse per filosofare rappresentò, rispetto ai valori dell’Ellade classica, una sfida che, certo in un contesto mutato, anche noi possiamo raccogliere. Una sfida topografica: quel luogo alludeva ad una perdita di senso della città e quindi del politico, per far fiorire valori nuovi. Veniva così svelata quella dimensione interiore dell’esistenza che il Medioevo filosofico, da Agostino ad Abelardo, avrebbe coltivato. Il Portico degli stoici, e l’inutilità del suo potere mostrata dal Cinico Diogene allo stesso Alessandro Magno, il Macedone che avrebbe voluto unificare Greci e Barbari nel suo Impero, rappresentano ulteriori riverberi dello stesso atteggiamento.

Interessarsi alle scuole ellenistiche, al sogno infranto del discepolo di Aristotele e alla successiva formazione di regni tanto vasti quanto anonimamente impersonali, non rappresenta una questione per eruditi. Il sinuoso percorso che conduce alla nascita di una sfera individuale; la rilevanza dell’etica e del concetto di dovere; il valore dell’amicizia; l’importanza di minoranze creative, sono aspetti che, sorti in quel tempo, giungono fino ai nostri giorni in un’affascinante nesso tra opportunità e rischi.

Non si tratta di rinvenire insulse analogie tra temperie profondamente difformi, ma solo di notare che, come l’uomo dei regni ellenistici, noi siamo inquieti, vivendo un mutamento di paradigma di cui è arduo scorgere anche solo i confusi lineamenti. Oggi, quei grandi racconti che avrebbero voluto descrivere globalmente il reale si sono frantumati, e l’uomo post moderno resta solo con le sue idolatrie, ad iniziare da quella della tecnica che, nella crisi delle moderne democrazie rappresentative, diviene tecnocratica.

Ed allora torniamo nel Giardino per respirare questa atmosfera nuova, oltre la ormai decaduta grandezza dell’Accademia platonica e del Liceo aristotelico. Un luogo inclusivo: vi affluivano varie tipologie di persone: Greci e Barbari, uomini e donne. Antichi steccati iniziavano ad incrinarsi, almeno dal punto di vista teorico: il verbo filosofico si dilatava rivolgendosi anche a categorie che ancora Aristotele, collidendo con alcuni principi del suo stesso sistema, considerava incapaci di libere attività. Simili ad oggetti parlanti, gli schiavi non disponevano pienamente di se stessi, essendo la parte razionale della loro anima molto debole e, quindi, dovevano prendere ordini da altri.

Quello che proveniva dalle filosofie ellenistiche era un messaggio che aveva per sé il futuro, oltre la grandezza, divenuta muta, delle antiche scuole di pensiero, distanti non tanto dal punto di vista cronologico, quanto da quello etico.

Non più cittadino, non ancora individuo, l’uomo di questo periodo storico vide crollare quei valori con cui i filosofi della Grecia classica identificarono i confini della stessa civiltà tanto che oltre tali valori – tra cui primeggiavano il rapporto con la polis e la superiorità della cultura ellenica – scorsero solo barbarie. L’orizzonte della città si fece così improvvisamente angusto, come quello di una politica che esigeva la partecipazione attiva dei maschi di condizione libera, i soli che avessero il tempo e la cultura per occuparsi degli affari dello “stato”. Ma ora la creazione di regni immensi rendeva superflue queste competenze.

Ed ecco farsi strada, nei sentieri interrotti del conoscere umano, una nuova figura: quella del tecnico, dotato di un sapere specialistico, non alla portata di tutti gli uomini liberi, ma frutto dello studio. Ecco ancora, topograficamente, emergere diverse città, Pergamo e Alessandria su tutte, fautrici di una cultura che, se perdeva terreno rispetto alla profondità delle antiche acquisizioni, si estendeva ad un numero maggiore di individui e, fondendosi con quella di altri popoli, diveniva più settoriale. Ecco soprattutto il primato di un’etica svincolata dalla politica ma comunque avvinta all’individuo, ad una nozione problematica, e per questo straordinariamente moderna, della felicità: in quell’orto che simboleggia l’intero della filosofia, la morale ne rappresenta, a sua volta il frutto più dolce da gustare in ristrette cerchie di amici, che pensano e vivono in una dimensione nascosta e discosta dagli onori. Ecco un ripiegarsi dell’individuo su se stesso, un cercare una aretè diversa perché attingibile da ogni uomo e soprattutto da ciascuna donna. Si assiste così al progressivo e sinuoso incedere di quella sfera privata che consentirà all’ellenismo di forgiare non più solo cittadini, ma individui. E se l’individualismo rappresenta un rischio, anche l’irriflessa identificazione con una città, uno stato, una certa classe sociale, ha prodotto guasti inenarrabili.

La stessa religione pubblica, di cui del resto i filosofi greci non avevano mai avuto grande stima, era ancor più afasica e lontana: gli Dèi certo esistevano, ma non si occupavano del mondo sublunare. La stessa paura della morte tendeva illusoriamente a sfumare in un materialismo di fondo che giungeva, in ambienti stoici, ad affermare la corporeità di Dio stesso. In ambito epicureo, invece, si cercava in modo raffinato il piacere: non un godimento crasso, ma l’accorto soppesare le varie circostanze, per valutare se e quali gioie cogliere.

Si delineava in tal modo il profilo del saggio, beato come un Dio fra i mortali, persino se vessato dalle torture perché le contingenze esterne, compreso l’ondivago errare della sorte, non toccavano il filosofo, armato dell’affascinante scoperta della sua interiorità.

Compresse tra la grandezza dei sistemi che le hanno precedute, ed incalzate dalla rivoluzione Cristiana con la quale (soprattutto gli Stoici) ebbero non poche tangenze, le filosofie ellenistiche vengono spesso trascurate nei nostri licei. Eppure in questo scrigno sono racchiuse non poche competenze: da quella di riconoscersi anche come uomo interiore, proprio mentre la società ci spinge al compulsivo uso di cose e persone; a quella di svelare due doni celati ai più, l’esistenza di una ricchezza non materiale e quella dell’amicizia, imprescindibile rifugio nei marosi della vita.

Se, come educatori, fossimo capaci di forgiare individui e non solo cittadini, se sapessimo renderli liberi anche dalle loro appartenenze, allora plasmeremmo uomini che magari non muteranno le sorti del mondo, ma ogni giorno miglioreranno se stessi.

Informazioni su Alessio Conti 4 articoli
Nato a Frascati nel 1974, Alessio Conti è attualmente docente di storia e filosofia presso il Liceo Scientifico statale Bruno Touschek di Grottaferrata. Dottore di ricerca in discipline storico filosofiche, ha pubblicato con l'editrice Taυ due libri (Fiat lux. Piccolo trattato di teologia della luce [2019], e Storia della mia vista [2020]). Già docente di religione cattolica per la Diocesi di Roma, è attivo nel mondo ecclesiale all'interno dell'Azione Cattolica Italiana di cui è responsabile parrocchiale del gruppo adulti. Persona non vedente dalla nascita, vive la sua condizione filtrandola grazie a due lenti, quella dello studio, e quella di un'ironia garbata e mordace, che lo porta a vivere, e a far vivere, eventi e situazioni in modo originale.

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