Eucatastrofe di una notte e della storia: come Lewis si convertì a Cristo

La descrizione che segue rivisita la biografia collettiva “Gli Inklings” di Humphrey Carpenter. Le parole esatte di quella notte non le conosciamo, sono ricostruite dalle opere autobiografiche e letterarie di Tolkien e Lewis.

Hugo venne a trovare Jack, che aveva come ospite Tollers per la cena al Magdalene, il College in cui insegnava Lewis. I tre amici dopo cena vollero fare una passeggiata nei dintorni, trai giardini e viali del complesso accademico e d’intorno lungo la Addison’s Walk, qui proruppe Lewis in tutta la sua sanguigna sincerità, coinvolgendo e sfidando i due amici, ancora una volta, sulla pretesa storica del Cristianesimo.

Pare di vederli nell’insolita circostanza: Tolkien cammina davanti, di rado voltandosi, guardandosi intorno alla luce della luna e Lewis, il-sempre-camminatore efficiente (che mal sopportava le lunghe osservazioni botaniche di Tolkien durante le loro passeggiate e gite), ora incespicare e raffrenarsi cercando nuove e più fini obiezioni alle tranquille risposte di Tollers, rimanendo qualche passo attardato per le continue interruzioni, seguendo così l’amico tanto nel discorso che nelle impronte su sentieri e selciati, con gli occhi la nuca di lui. Ci ritroviamo noi in mezzo, come Dyson, talvolta intervenendo con appunti interessanti, indici puntati, alle affermazioni di Tolkien, tentando di guardare contemporaneamente entrambi.

Jack è l’uomo che negli ultimi mesi (anni) ha avuto questo pensiero dominante e di sofferta incomprensione, un tarlo non di dubbio ma di domanda, su quel Tolkien così caro e intelligente che pure credeva senza mezzi termini a Gesù Cristo. Nella passeggiata è aggravato non più da un’ansia esistenziale di natura intellettuale, ma come una gelosia amicale, nata nell’incontro diretto con un uomo dalla coscienza sanamente invidiabile. Così, Jack ad un certo punto deve aver anche sbottato, di fronte alla certezza di Tollers su quelle che secondo lui non potevano essere leggende. Il Vangelo, come la sua cara “Northerness” (il carattere “nordico” della materia germanica), Artù ed Enea.

Jack: «Erano menzogne, e quindi privi di valore, anche se sussurrate attraverso l’argento».

Ad un’obiezione tanto radicale (e così poco logica, anche se poetica, non certo il costume di Jack), Tolkien dovette fermarsi. Ma non si girò subito: alzo la testa davanti a sé e con la solita tranquillità, ma con una nuova e più accorata risolutezza, sembra abbracciare l’amico con le parole.

Tollers : «No, non sono bugie».

Sporgendoci, vediamo che Tolkien sta ammirando un magnifico albero, vecchio, al centro del cortile in cui sono capitati. Dice, mentre si volge al cielo stellato:

«Guardiamo gli alberi e li chiamiamo “alberi”, dopo di che probabilmente non pensiamo più alla parola. Chiamiamo una stella “stella”, e non ci pensiamo più. Ma bisogna ricordare che queste parole, “albero”, “stella”, erano (nella loro forma originaria) nomi dati a questi oggetti da gente con un modo di vedere diverso dal nostro. Per noi un albero è, semplicemente, un organismo vegetale, e una stella semplicemente una palla di materia inanimata che si muove lungo una rotta matematica. Ma i primi uomini che parlarono di “alberi ” e di “stelle” vedevano le cose in maniera del tutto differente. Per loro, il mondo era animato da esseri mitologici

E finalmente Jack, che ha seguito le mire di Tollers intorno a sé, riceve lo sguardo che aspettava da tutta la notte, lo sguardo di un amico che aspettava da tutta una vita. Ronald gli spiega non nonostante le obiezioni di Jack, ma dal di dentro e, se vogliamo non risponde con una motivazione rigorosamente esplicativa, ma anzi ribadendo la domanda, raccoglie la passione che gli condivide e ne mostra il senso come domanda, nel suo giusto posto.

«Per loro, tutta la creazione era intessuta di miti e popolata di elfi. L’uomo in definitiva non è un bugiardo. Potrà forse storpiare i suoi pensieri sotto forma di menzogne, ma egli proviene da Dio, ed è da Lui che egli trae i suoi ideali ultimi. Perciò non soltanto i pensieri astratti dell’uomo, ma anche le invenzioni della sua immaginazione devono derivare da Dio, e, di conseguenza, riflettere parte della verità eterna. Creando un mito, praticando la “mitopoiesi” e popolando il mondo di elfi, draghi e spiriti maligni, il narratore o “sub-creatore” realizza, di fatto, il progetto di Dio, e riflette un minuscolo frammento della vera luce. I miti pagani, perciò, non sono mai semplici “bugie”, poiché in essi vi è sempre qualcosa di vero

Jack dunque rilancia la domanda: perché Cristo? Perché serve proprio Cristo? Tollers non si fa pregare oltre.

«Il cristianesimo era esattamente la stessa cosa – con l’enorme differenza che il poeta che ne era stato l’ideatore era Dio stesso, e le immagini che aveva usato erano uomini in carne e ossa, e fatti storicamente autentici.»

Finirono di parlare alle 4 del mattino, con Jack che dopo non avrebbe saputo dormire nemmeno sedato. In lui c’era un ruggito e un tremore, alla risonanza accompagnandosi l’intuizione della “vera luce” di cui Ronald aveva discusso e i chiarori dell’alba. Nelle due settimane che seguirono, Jack meditò quelle parole e le incalzò per verificarle, finché, il 28 settembre, come racconta sempre in Sorpreso dalla Gioia:

So benissimo quando, ma non come, fu fatto il passo finale. Un mattino di sole mi recavo a Whipsnade. Quando partimmo non credevo che Gesù Cristo fosse il Figlio di Dio, ma quando raggiungemmo lo zoo ne ero convinto.”

L’espressione della sua nuova convinzione è restituita al meglioi in questa lettera ad Arthur Greeves (suo amico d’infanzia, nonché compassionale nelle letterature) del 18 ottobre, qui citata corposamente:

Quello che mi ha trattenuto (perlomeno durante l’anno passato, all’incirca) non è stata tanto una difficoltà a credere, ma piuttosto a sapere cosa la dottrina volesse significare: non puoi credere a una cosa mentre ignori cosa questa sia. La mia difficoltà era la Dottrina della Redenzione nella sua interezza, in che modo la vita e morte di Cristo “avessero salvato” o “spalancato la salvezza” per il mondo. Capivo come una salvezza miracolosa potesse essere necessaria: uno può vedere dall’esperienza di tutti i giorni come il peccato (per esempio nel caso di un alcolizzato) possa portare l’uomo a un punto tale che egli sia destinato a raggiungere l’Inferno (la completa degradazione e miseria) in questa vita, a meno che un qualche aiuto o sforzo non semplicemente naturale prenda l’iniziativa. E potevo bene immaginare un mondo intero nella stessa condizione, e in maniera simile la necessità di un miracolo.

Quello che non riuscivo a capire era come la vita e la morte di Qualcun Altro (chiunque questi fosse) duemila anni fa potesse aiutare noi adesso – se non nella misura in cui poteva esserci utile il suo esempio. E la questione dell’esempio, sebbene tanto vera e importante, non è il cristianesimo: proprio al centro del cristianesimo, nei Vangeli e in san Paolo, trovi qualcosa di completamente diverso e misterioso, espresso in quelle frasi di cui io mi sono fatto gioco così spesso (“propiziazione”, “sacrificio”, “il sangue dell’Agnello”), espressioni che riuscivo a interpretare solo in modi che mi parevano o sciocchi o scandalosi.

Ora, quello che Dyson e Tolkien mi hanno mostrato era questo: che se io incontro l’idea del sacrificio in un racconto pagano questa non mi crea alcun problema: anzi, che se mi trovo davanti un dio che si sacrifica, ne sono attratto e misteriosamente commosso: ancora, che l’idea del dio che muore e risorge (Balder, Adone, Bacco) mi colpisce così tanto a condizione che io la trovi ovunque tranne che nei Vangeli. La ragione è che nei racconti pagani io sono stato preparato a percepire il mito nella sua profondità e suggestione di significati oltre ogni mia capacità di comprensione, anche se poi nella freddezza della prosa io non riesco a dire “cosa significhi”.

Ora, la storia di Cristo è semplicemente un mito vero: un mito che agisce su di noi come gli altri, ma con la tremenda differenza che questo è davvero avvenuto. […]

Cioè, le storie pagane sono Dio che esprime Sé stesso attraverso la mente dei poeti, facendo uso delle immagini che vi ha trovato, mentre il cristianesimo è Dio che esprime Se stesso attraverso quello che chiamiamo “realtà”. Perciò è vero, non essendo una “descrizione” di Dio (cosa che una mente finita non potrebbe racchiudere) ma la via attraverso cui Dio sceglie di mostrarsi alle nostre facoltà. Le “dottrine” che tiriamo fuori dal vero mito sono certamente meno vere di questo: traducono in concetti e idee quello che Dio ha già espresso in un linguaggio più adeguato, la vera incarnazione, crocifissione e resurrezione”.

Oltre la commozione per il reale vissuto di Lewis, stupisce molto com’egli abbia fatto proprie, spiegandole e rimodellandole, le parole dell’amico. Jack centra davvero il punto che Tolkien aveva insinuato in lui: la pretesa del cristianesimo di ricadere dal mito sulla Storia si concentra nella soluzione del mito stesso, fino a quel momento irrisolto, in un “sacrificio” che ha un significato reale. Una necessità che si concretizza in un’iniziativa di Dio. Tutto ciò è ben lungi dal mettere in pace Lewis.

È sufficiente tutto questo per credere al cristianesimo? In ogni caso adesso sono certo che:

A) in un certo senso, questo è il metodo con cui il cristianesimo deve essere avvicinato, così come mi accosto agli altri miti;

B) fattore più importante e ricco di significato, sono quasi certo che sia tutto accaduto per davvero.”

Prima che Faccia Notte. Racconti e Scritti Inediti di C.S. Lewis, enfasi dal testo originale

Lewis percepisce con ancora maggiore urgenza l’importanza dei miti rispetto alla propria vita, li comprende ora come una questione fondamentale nei loro significati reali, non in un’estetica delle interpretazioni. Il “quasi” finale non è un’ammissione d’insicurezza, la qual cosa cozzerebbe con tutte le conclusioni precedenti della lettera. La conversione non è un evento definitivo, è invece un volgersi continuo, ogni giorno, alla certezza intuita la prima volta.

L’Incarnazione, la Crocefissione, la Risurrezione informano dunque i miti per fare di essi un racconto verificato, fatto vero. I momenti decisivi della Storia della Salvezza forniscono un prototipo per questa nuova concezione, originale di Tolkien (e adottata da Lewis), l’eucatastrofe, il capovolgimento che ribalta la tragedia imminente nel fine più lieto. Tolkien stesso si lascia provocare ed ispirare da quella notte: nel suo celebre saggio On Fairy-Stories, egli dimostra di aver già conquistato in coscienza una mirabile conciliazione tra il mito e la fiaba da una parte, il Vangelo dall’altra. Seppur non ancora proclamata nella lettura pubblica all’Università di St. Andrews 1I manoscritti del saggio dicono che l’inserimento dell’Eucatastrofe e il valore paradigmatico e ultimativo del Vangelo compaiono con successive revisioni, probabilmente non prima del 1943. Nelle cronache dei quotidiani e delle riviste scozzesi che descrivono la Andrew Lang Lecture dell’8 marzo 1939 non si fa menzione dei due elementi, che per il loro rilievo peculiare avrebbero certamente attirato l’attenzione dei bollettini accademici e dei redattori., il suo ritrovato concettuale s’inserisce come svolta decisiva nel condurre la storia alla Consolazione, al finale lieto, quindi al suscitarne la gioia “della liberazione”, caratteristica fondativa della fiaba che:

nega (a dispetto di un gran numero di prove, se si vuole) la sconfitta finale ed universale, ed è in quanto tale un evangelium, che fornisce una visione fuggevole della Gioia, quella Gioia oltre le muraglie del mondo, intensa come il dolore.

[…] La particolare qualità della «gioia» della Fantasia ben riuscita può quindi essere spiegata come uno sguardo improvviso sulla realtà, o verità, sottesa. Non è solo una «consolazione» per i dolori di questo mondo, ma una soddisfazione, e una risposta alla domanda «È vero?».

– J.R.R. Tolkien, Sulle Fiabe, cfr. Il Medioevo e il Fantastico. Da qui in avanti le citazioni di Tolkien non diversamente dichiarate.

Essa si rivela quando porta con sé un improvviso e incontenibile carico di gioia, fino ad aprire ad un altro tipo di Gioia. Esemplificativo è dunque il momento in cui Tolkien riconobbe alla sua prima opera narrativa il suo valore. Tale sentimento lo esprime al figlio Christopher in una lettera del novembre ’44 (di poco successiva all’elaborazione del concetto):

Per venire a cose meno importanti: mi resi conto di aver scritto una storia che vale con Lo Hobbit, quando leggendola (dopo che era abbastanza maturata perché me ne staccassi) provai improvvisamente in modo intenso l’emozione “eucatastrofica” all’esclamazione di Bilbo: “Le Aquile! Stanno arrivando le Aquile!”

Lettere di J.R.R. Tolkien, a cura di Humphrey Carpenter.

Passando allora dal mito e dalla fiaba alla letteratura d’invenzione, Tolkien si accorge che la risposta alla domanda su quale sia la verità dei racconti, è data allo stesso modo per lui, il mitopoieta del tempo suo e di Lewis, come il mitografo antico da loro ammirato. In questa intuizione universale si delinea una strada che dall’Arte procede verso la sua fonte:

La risposta a questa domanda [È vero?] che io ho dato in un primo momento era (abbastanza giustamente): «Se hai costruito bene il tuo piccolo mondo, sì: è vero in quel mondo». Ciò basta per un artistia (o per la parte artistica di un artista). Ma nella «eucatastrofe» scorgiamo una fugace visione come la risposta possa essere più ampia: può essere un bagliore o un’eco distanti dell’evangelium nel mondo reale.

[…] Mi azzarderei dunque a dire che, avvicinando da questo versante la Storia Cristiana, ho avuto da gran tempo la sensazione (una gioiosa sensazione) che Dio abbia redento i suoi esseri corrotti e creatori, gli uomini, in modo che si adatta a questo, ed ad altri aspetti della loro singolare natura.  I Vangeli contengono una favola o meglio una vicenda di un genere più ampio che include l’intera essenza delle fiabe. I Vangeli contengono molte meraviglie, di un’artisticità particolare, belle e commoventi: “mitiche” nel loro significato perfetto, in sé conchiuso: e tra le meraviglie c’è l’eucatastrofe massima e più completa che si possa concepire. Solo che questa vicenda ha penetrato di sé la Storia e il mondo primario; il desiderio e l’anelito alla subcreazione sono stati elevati al compimento della Creazione. La nascita del Cristo è l’eucatastrofe della storia dell’Uomo; la Resurrezione, l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione. Questa vicenda si inizia e si conclude in gioia, e mostra in maniera inequivocabile la “intima consistenza della realtà”. Non c’è racconto mai narrato che gli uomini possano trovare più vero di questo, e nessun racconto che tanti scettici abbiano accettato come vero per i suoi meriti. Ché l’Arte di esso ha il tono, supremamente convincente dell’Arte Primaria, vale a dire della Creazione. Respingerlo conduce alla tristezza o all’ira.”

L’Eucatastrofe di Tolkien non nasce nella letteratura, ma anzi inizia e penetra la Storia: l’Arte (Secondaria) sarà magnifica se saprà raccontare di quella Primaria; non è l’Arte Primaria, l’Avvenimento, la Creazione di ogni giorno nel suo essere raccontata ad avvalersi di un frutto dell’Arte Secondaria. Cioè la Creazione richiede la collaborazione del sub-creatore, l’artista, che si scopre investito di questa gioia. Quella notte, l’eucatastrofe scese tra quei tre amici in un giardino del Magdalene e fu così eucatastrofica, così densa di bene in una così abissale catastrofe, che aveva in sé il germe della sub-creazione dei miti di Arda e di Narnia.

Note

Note
1 I manoscritti del saggio dicono che l’inserimento dell’Eucatastrofe e il valore paradigmatico e ultimativo del Vangelo compaiono con successive revisioni, probabilmente non prima del 1943. Nelle cronache dei quotidiani e delle riviste scozzesi che descrivono la Andrew Lang Lecture dell’8 marzo 1939 non si fa menzione dei due elementi, che per il loro rilievo peculiare avrebbero certamente attirato l’attenzione dei bollettini accademici e dei redattori.

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