Il marchio di Caino

Un cattolico non ha alleati, non può avere che fratelli.
(Paul Claudel)

di Thomas Merton

Essenziale della fede cristiana è che colui che rinuncia alla sua illusoria autonomia individuale allo scopo di ricevere il suo vero essere e la sua vera libertà in Cristo e per mezzo di Cristo, è «giustificato», dalla misericordia di Dio sulla Croce di Cristo. I suoi «peccati sono perdonati» nella misura in cui la radice della colpa viene sradicata nella resa che la fede fa a Cristo. Invece di tenermi la mia illusoria autonomia, io rinuncio per Cristo a tutti i miei diritti su di me nella speranza che con il suo Spirito, che è Spirito e Vita della sua Chiesa, egli vivrà in me e agirà in me e, una volta diventato una sola cosa con lui, trovata la mia vera identità in lui, io agirò esclusivamente come membro del suo Corpo e fedele cittadino del suo Regno.
La Chiesa è il luogo in cui questa rinuncia all’autonomia individuale diventa reale, garantita dalla verità dello Spirito e dal suo amore, nonché dal perdono dei peccati: poiché la Chiesa stessa assume su di sé tutti i peccati dell’uomo. La Chiesa confessa immediatamente come suoi i peccati di tutti gli uomini, e riceve in sé la misericordia che è offerta a tutti gli uomini.
Ma se invece di confessare i peccati del mondo che si è presi su di sé, la Chiesa – o un gruppo di cristiani che si arroghi il nome di «Chiesa» – diventasse un meccanismo sociale di autogiustificazione? Se questa «Chiesa», che in realtà non è affatto una Chiesa, si assumesse la funzione di dichiarare tutti gli altri colpevoli e i peccati dei suoi membri atti di virtù? Se diventasse una macchina così perfetta e impeccabile da potersi dichiarare senza peccato? Se fornisse agli uomini il modo di sapere quando devono e quando non devono accusarsi di qualcosa dinanzi a Dio? Se in luogo della coscienza fornisse agli uomini il sostegno di un’approvazione o di una disapprovazione unanime di gruppo?
Questi interrogativi spiegano come qualcuno possa commettere un assassinio in nome di Cristo e credersi non colpevole, anzi congratularsi con se stesso per aver servito Cristo così bene. Per un uomo simile la funzione della «chiesa» è di fornire un ambiente in cui uno può decidere quando è e quando non è colpevole, che cosa è e che cosa non è peccato. La «chiesa» diventa semplicemente un luogo dove gli uomini si radunano per decretare che gli altri sono colpevoli e che loro sono innocenti.
Se poi gli altri, a loro volta, li accusano di ipocrisia e di flagrante infedeltà alla verità, non fa che confermarli nella loro intima convinzione di essere nel giusto. La «chiesa» in tal caso diventa una macchina per acquietare una coscienza inquieta; una macchina perfettamente efficiente per fabbricare l’autocompiacimento e la pace interiore!
È caratteristica del pseudocristianesimo che, mentre pretende di essere giustificato da Dio, dalla fede, o dalle opere di fede e di carità, fa semplicemente funzionare una macchina per scusare il peccato invece di confessarlo e perdonarlo, una macchina per produrre la sensazione di essere nel giusto e che tutti gli altri sono peccatori. Se diventa un espediente per commettere un assassinio, sia mediante linciaggio sia mediante una tirannia inquisitoria, ecco che l’assassinio diventa un atto di santa giustizia. Opprimere e perseguitare gli altri diventa un’affermazione della propria libertà religiosa e del proprio coraggio dinanzi a Dio, un segno di forza cristiana. E come viene rafforzata questa fede? Come vengono confermati i fratelli nella loro testimonianza? Con la ripetizione di questi atti eccitanti, violenti e drammatici che gli «estranei» denunciano come delitti e atti colpevoli. Il modo per dimostrare a se stesso di essere virtuoso e non criminale consiste nel rinnovare l’atto, ripeterlo in continuazione e, se necessario, farsi processare e assolvere da un giuri di pari della stessa congrega e così provare che l’atto non era criminale ma giusto e santo. In tal modo la decisione di pervertire la coscienza cristiana diventa a poco a poco una funzione della «chiesa», forse anche la sua prima funzione. E questa diventa, inevitabilmente, il segno del giudizio di Dio su quella «chiesa». La spaventosa innocenza di questi «giusti» sta scritta sulla loro fronte come il marchio di Caino, il marchio di uno che nessuno può toccare, perché è messo da parte per l’inferno.

(tratto da Diario di un testimone colpevole, tr. it. Garzanti, Milano 1968, pp. 114-116)

di Jorge Mario Bergoglio

[…] Il corrotto ha sempre bisogno di paragonarsi ad altri che appaiono coerenti con la loro stessa vita (anche quando si tratta della coerenza del pubblicano nel confessarsi peccatore) per coprire la propria incoerenza, per giustificare il proprio atteggiamento. Per esempio, per un velleitario, una persona che ha chiari i limiti morali e non fa sconti è un fondamentalista, un antiquato, uno chiuso, una persona che non è all’altezza dei tempi. E qui compare un altro tratto tipico del corrotto: il modo in cui si giustifica.
Perché, in fondo, il corrotto ha necessità di autogiustificarsi, anche se non si accorge di farlo. […] Un ambiente di corruzione, una persona corrotta, non permette di crescere in libertà. Il corrotto non conosce la fraternità o l’amicizia, ma la complicità. Per lui non vale il precetto dell’amore ai nemici o quella distinzione alla base della legge antica: o amico o nemico. Egli si muove nei parametri di complice o nemico. Per esempio, quando un corrotto esercita il potere, coinvolgerà sempre gli altri nella sua corruzione, li abbasserà alla sua misura e li farà complici della sua scelta di stile.

(tratto da Guarire dalla corruzione, tr. it. Emi, Bologna 2013, p. 24 e 20)

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