Fuggire dalla caverna dei social (o almeno soprav-vivere)

Qualche giorno fa Sean Parker, 38 anni appena e già fondatore di Napster (da hacker), collaboratore di Zuckerberg, ex presidente di Facebook, è stato intervistato ad un evento Axios presso il National Constitution Center di Philadelphia. Il convegno a cui era invitato trattava di innovazioni nelle terapie contro il cancro (Parker ha fondato infatti un istituto per l’immunoterapia contro il cancro), ma ha stupito tutti, lasciandosi andare ad affermazioni schiette e del tutto inaspettate, proprio sui social media, che hanno fatto la sua fortuna e alla cui fortuna ha così grandemente contribuito.

Parker si è definito un obiettore di coscienza nei confronti dei social, i quali hanno un enorme potere anche sociale e che hanno raggiunto una diffusione di entità finora sconosciuta alla storia umana.

I social, e Facebook in particolare, hanno sfruttato una vulnerabilità umana, ossia il bisogno di riconoscimento sociale («proprio la cosa che si sarebbe inventato un hacker come me») e lui stesso, Mark Zuckerberg e Kevin Systrom di Instagram «ne eravamo del tutto coscienti, ma l’abbiamo fatto comunque». Come? «Dandovi ogni tanto un po’ di dopamina, perché qualcuno mette “mi piace” o commenta una foto, un post o qualcos’altro». Questo meccanismo di convalida sociale crea un effetto dipendenza dal social stesso: posto qualcosa, ricevo qualche “mi piace” o dei commenti e allora sono spinto a interagire di nuovo, in un circolo vizioso che si autoalimenta. La crescita costante dell’uso dei social affonda le sue radici in questo bisogno di riconoscimento sociale.

Eppure siamo dietro una tastiera, o con il naso abbassato su uno smartphone, e ci sembra di interagire, mentre magari, per rispondere ad un tweet, diciamo al nostro vicino di tavolo di non importunarci.

Quando un network cresce fino a un miliardo o due miliardi di persone, cambia letteralmente la tua relazione con la società, con gli altri. Probabilmente interferisce in modo misterioso con la produttività in strani modi. Solo Dio sa cosa stia facendo ai cervelli dei nostri bambini.

Le preoccupazioni postume di Parker sono più che condivisibili e il fatto che siano esternate da una persona che conosce così approfonditamente i meccanismi sottesi alla fortuna dei social, e che li ha consapevolmente sfruttati, non ci permette di archiviarle come le ennesime profezie di sventura di qualche novella Cassandra.

Il film che maggiormente descrive la realtà della società moderna è Matrix, del lontano 1999, che già presagiva con inarrivabile efficacia l’alienazione di chi vive una continua finzione pilotata da altri, per scopi produttivi (energetici, nel film) del tutto alieni all’interesse al bene comune.

I fratelli Wachowski, in una visione futuristica distopica, immaginarono un mondo in cui niente di ciò che appare esiste realmente e la realtà concreta è invece un pianeta oscuro, dominato da perfide macchine, che coltivano gli esseri umani per sfruttarne la capacità biologica di produrre energia alimentando i loro cervelli di fantasie virtuali direttamente innestate nella corteccia.

Nel film ci sono un paio di chicche insuperate, come la storia di questo sfruttamento, descritta da uno dei personaggi: all’inizio della “coltivazione umana” le macchine avrebbero provato a suggerire scenari virtuali piacevoli, mondi immaginari di pace e amore, ma inspiegabilmente gli uomini così non sopravvivevano. E allora avevano modificato la programmazione della realtà virtuale in cui facevano galleggiare gli uomini inserendo il dolore e la fatica come elementi primari. E così il mondo virtuale era esattamente come il nostro: faticoso, a tratti doloroso, a volte soleggiato, a volte con la pioggia, difficile, impegnativo.

Naturalmente è solo un particolare curioso di una pellicola di fantascienza, ma non è un particolare da poco e ci suggerisce una verità mai pienamente affermata sugli esseri umani: la fatica fa parte del nostro vivere in modo intrinseco, siamo soddisfatti solo di ciò che ci siamo guadagnati con sforzo, o, più prosaicamente, il lavoro, inteso come la partecipazione attiva alla costruzione della propria realtà, è necessità psicologica primaria.

Altra scena mitica del film è il tradimento di uno dei combattenti, il quale ad un certo punto della storia si arrende alla fatica di dover sostenere il peso della verità e decide di ritornare dentro la finzione, chiede alle macchine di piallargli la memoria per approdare nuovamente alla rassicurante ignoranza: per quanto il mondo virtuale non fosse idilliaco, la verità cruda era mille volte peggio, meglio non sapere.

Questa è una tentazione a cui le masse sono sempre soggette, sotto ogni forma di manipolazione mediatica orchestrata da qualsiasi entità di potere: il senso di impotenza che prende chi si affaccia all’amara consapevolezza a volte abbatte più di ogni ingiustizia. Sapere e non poter far nulla, o troppo poco, è assai peggio che non sapere.

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