Qualcuno mi può (anzi, mi deve!) giudicare

Black elementary student standing on a class in the classroom and having a talk with his teacher.

Quali fattori ci impediscono un rapporto sereno con la valutazione? Perché mentre da un lato vorremmo misurare ogni processo, prodotto, servizio irrigidendolo in una scala; dall’altro rifiutiamo energicamente il giudizio di chi, essendo competente, verifica le prestazioni di altri? Già a metà degli anni sessanta Caterina Caselli cantava Nessuno mi può giudicare. L’artista rivendicava, nell’ambito di un più generale ridisegno della società, il diritto di ciascuno a vivere secondo le proprie inclinazioni.

Una rivendicazione legittima in alcuni ambiti, ma che non può certo assurger a parametro universale di giudizio. La pretesa di non essere valutati, infatti diviene a sua volta un dogma irriflesso. Così, dialetticamente, una profonda crisi investe le professioni che tra i loro compiti hanno anche quello di giudicare. Lo sanno bene gli insegnanti e i medici di pronto soccorso, ma anche i giovani arbitri che, spesso per un mero rimborso spese, calcano i campi sterrati del Belpaese.

Un quattro in greco, una diagnosi sgradita, un fuorigioco rappresentano fattispece in cui, spesso in poche frazioni di secondo, si è chiamati ad assumere una decisione. L’errore, certo è sempre in agguato, soprattutto, per restare al rettangolo di gioco, quando l’assenza del var impedisce di rivedere l’azione, ma anche in presenza di questa moviola ipertecnologica, che cela l’illusione di annullare lo sbaglio, questo può ripresentarsi perché la medesima azione si presta a molteplici letture.

«La verità mi fa male», cantava ancora la Caselli ed il punto è proprio questo: al fondo dell’allergia al giudizio non vi è solo quel bisogno oggi esponenziale, non tanto della gratificazione quanto del suo riconoscimento, che da sempre caratterizza l’uomo; sottesa a tale questione resta ineludibile la contestazione, per molti versi legittima, di un sapere gerarchico e gerarchizzato in cui, chi è più competente giudica le prestazioni di chi lo è meno. Sempre più si vanno diffondendo modelli di una cultura orizzontale, pensiamo ai motori di ricerca della rete, in cui i risultati appaiono anche in virtù del gradimento riscontrato da quei contenuti in precedenti interazioni.

Il consenso diviene così l’unico criterio veritativo, ma esiste uno iato tra il fatto che un contenuto sia gradito e quello che sia attendibile. Un discrimine etereo perché non coglibile da tutti, ma solo da chi, conoscendo quella materia, può valutare quanto legge. La verità che uno studente ha approfondito poco la teoria delle idee di Platone potrà fargli male, certo, potrà in quel mercanteggiamento continuo che sta divenendo il rapporto con le giovani generazioni avere conseguenze per lui sgradite; ma va detta perché quella nozione gli serve a migliorare se stesso e ad apprendere i tanti aspetti del sapere che ad essa si riconnettono.

Allo stesso tempo l’eventuale insuccesso va delimitato: non rappresenta mai una valutazione globale sulla persona – come uomo, prima che come insegnante, io non ho alcun diritto di giudicare un mio allievo. Ma rivendico quello di mettergli quattro senza subire eccessive pressioni se ritengo che questo sia utile per la sua crescita. Più sottilmente, ma forse ancor più profondamente, un simile discrimine vale anche per chi ha voti alti. Qualora la mia famiglia mi trasformi in una macchina prestazionale che viene lodata solo se produce risultati eccellenti, mi sta imponendo sottilmente il modello di un bene condizionato. Io ti accetto, ti voglio bene, perché tu vai bene, rispondi e corrispondi allle mie attese. Così il primo insuccesso anche se lieve diviene una tragedia ed è precluso l’orizzonte stesso del miglioramento.

Insuperato resta, da questo punto di vista, il messaggio del imperativo categorico kantiano che, trasposto nel caso di spece, direbbe una verità patente: non si studia per i voti, per i premi o la paura dei castighi. Chi fa questo ristagna nella palude dell’imperativo ipotetico – se prendi buoni voti avrai questo premio –, e l’impressione più deprimente è che a farlo siano anche le nostre istituzioni scolastiche in cui persino le attività di volontariato, se attestate, possono concorrere al credito formativo di uno studente.

Si studia, invece, perché si avverte il dovere di migliorare e di migliorarsi. Ma per avvertire il pungolo di tale inclinazione occorre accettare di essere uomini, enti cioè razionali e finiti, fallibili, e quindi sempre in ricerca. È questa pazienza che oggi ci manca: se, stando alle ultime indicazioni ministeriali, uno studente di III liceo fa già un capolavoro, cosa sarà la sua tesi di laurea? Studiare significa intraprendere un lungo viaggio, avventurarsi nell’intricato labirinto del sapere, perdersi nelle conquiste, negli errori, in quelle avvincenti scoperte che hanno mutato il corso di una o più discipline. Per fare questo però occorrono tempo e pazienza, ma occorre soprattutto scegliersi alcune guide. Allora sarà intricante intrattenersi con loro, metaforicamente parlare con Agostino, Platone Aristotele, Carlo V, e discutere di loro con chi ne sa di più. Questo dovrebbe essere un colloquio orale, non la spasmodica ricerca della nozione, pure talora necessaria. In questo orizzonte la Caselli ha torto: qualcuno mi può, anzi mi deve, giudicare.

Informazioni su Alessio Conti 16 articoli
Nato a Frascati nel 1974, Alessio Conti è attualmente docente di storia e filosofia presso il Liceo Scientifico statale Bruno Touschek di Grottaferrata. Dottore di ricerca in discipline storico filosofiche, ha pubblicato con l'editrice Taυ due libri (Fiat lux. Piccolo trattato di teologia della luce [2019], e Storia della mia vista [2020]). Già docente di religione cattolica per la Diocesi di Roma, è attivo nel mondo ecclesiale all'interno dell'Azione Cattolica Italiana di cui è responsabile parrocchiale del gruppo adulti. Persona non vedente dalla nascita, vive la sua condizione filtrandola grazie a due lenti, quella dello studio, e quella di un'ironia garbata e mordace, che lo porta a vivere, e a far vivere, eventi e situazioni in modo originale.

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