…ma che amo, amando te? Non una bellezza corporea, non una leggiadria transitoria, non un fulgore come quello della luce, che piace a questi occhi, non dolci melodie di canti d’ogni specie, non soave profumo di fiori, di unguenti, di aromi, non manna e miele, non membra gioconde all’amplesso carnale. Non codeste cose amo io, amando il mio Dio. E tuttavia amo, per così dire, una luce, una voce, un profumo, un cibo, un amplesso, quando amo il mio Dio, luce, voce, profumo, cibo, amplesso, dell’uomo interiore che è in me, dove risplende nell’anima mia una luce che non si disperde nel luogo, dove risuona una voce che il tempo non rapisce, dove odora un profumo che il vento non disperde, dove gusto un sapore che la voracità non diminuisce, dove mi stringe un amplesso che la sazietà mai non discioglie…
Aug., Conf. x,vi
Una sola parola ”tuttavia” delinea, nel passo agostiniano, gli sfumati contorni della condizione umana: siamo certo raminghi e cercatori di un’eccedenza rispetto alle luci fioche, ai suoni attutiti, agli amplessi interrotti, ai cibi il cui gusto scipisce. Tuttavia si tratta di un’eccedenza paradossale, perché capace di affiorare proprio nella variegata esperienza di gioie frante, sì, ma già presaghe di ulteriorità.
Ed ecco che negli interstizi dell’umano bussa un dio straniero ed ignoto. Velato dalle presentazioni catechetiche ed edificanti, assente nei mille surrogati creati per sostituirllo. Questo Dio “indigente”sceglie di aver bisogno delle nostre gioie per farci gustare la sua.
E se, invece che rimpiazzarlo, il Crocifisso che abita moltiplicandoli i nostri godimenti e lenisce provandoli i nostri stessi dolori, ci chiedesse di essere conosciuto e quindi amato?
Allora si che Tutto cambierebbe: Egli non sarebbe più la negazione o la proiezione dell’umano; ma in una voce melodiosa direbbe di essere quel canto incapace di cessare, tramite una fragranza intensa bisbiglierebbe di essere quel profumo che nessun vento può disperdere. Oltre le metafore il silenzio e il vento sono i marosi di ogni vita, quei momenti bui da cui ciascuno è traversato. Ed Agostino, uomo fra gli uomini,ne valicò di momenti tristi: la morte della madre Monica e quella del figlio Adeodato; il sacco di Roma e le accuse rivolte contro i Cristiani, l’assedio di Ipona – città di cui era Vescovo – da parte dei Vandali. Valicare un momento arduo non significa solo viverlo, ma rileggerlo in una prospettiva diversa. Così dal sacco di Roma sorgerà La città di Dio – opera che inaugura la visione provvidenziale della storia –; dalla morte di Monica rampolleranno le stupende pagine delle Confessioni ambientate sul litorale di Ostia; dalla prematura fine di Adeodato fiorirà Il maestro interiore, intenso scritto pedagogico che allude al sacello dell’anima quale luogo elettivo di ogni esperienza educativa.
Fu nella trama di queste circostanze che Agostino udì il sussurro dell’Altissimo, ma anche a te, uomo post-moderno, questo Dio direbbe che quella dei tuoi aneliti è la sua lingua. Lui non ti chiede di rinnegare ciò che ami; vorrebbe solo che, nelle pieghe delle cose, delle persone, delle situazioni, fossi capace di sentire il gorgoglio di quell’acqua bevuta la quale non avrai più sete.
Del resto la nostra stessa felicità, proprio perché umana, è destinata a non durare, disvelandosi talora in attimi sconnessi e franti. Anche per questo suo tendere a ciò che appare per natura inafferrabile Agostino ci è profondamente vicino: un tendere che è cercare uno stabile appagamento nelle più diverse attività umane. Così si entusiasmò per il successo, per le dispute verbali, per la gloria del foro; prima di comprendere che la stessa retorica non andava rinnegata ma usata per altri scopi.
Noi erriamo e questo errare è, ancora secondo Agostino, la prova che esistiamo. Ciò accade perché siamo segnati dal limite: se questo è un dato innegabile, altro è subirlo solo come una ferita, altro abitarlo come se fosse una feritoia che permetta al refolo di questa eccedenza di baluginare, facendo brillare cose e persone.
Così la nostra stessa fragilità sarebbe redenta, divenendo un luogo teologico, perché capace di farsi anelito e non rovello, pianto e non rimpianto. Per altri rispetti contiguo, il Neoplatonismo di Plotino ci appare abissalmente lontano perché il corpo, la vita concreta, le persone incontrate, amate e perdute, non sono, per Agostino, simulacri vani, tanto che la stessa filosofia indugia sulle loro gioie e sulle loro lacrime. Solo in un simile orizzonte, che poi è quello del pensare nella fede, la verità della resurrezione dei corpi può donare al lampo di ogni nostra gioia, il fulgore consolante dell’eternità.
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