Le “Residential Schools” e l’«uccidere l’indiano nel bambino»: quando le Chiese seguono lo Zeitgeist

“Thomas Moore” before and after his entrance into the Regina Indian Residential School in Saskatchewan, in 1874.

«La vergogna del Canada: “Ecco le fosse comuni dei bimbi indigeni”» 

Repubblica

«Dentro l’orrore delle fosse comuni di bambini indigeni scoperte in Canada»

Rolling Stones

«Ancora orrore in Canada: i resti di centinaia di bambini nativi sotterrati nei pressi di una ex scuola cattolica»

La Stampa

«Canada, le tombe anonime dei bambini nativi»

Vatican News

Come già accaduto per l’Irlanda, anche per il Canada i titoli dei giornali evocano scenari inquietanti, ed è facile, per il lettore sconcertato, cadere negli opposti estremi di gridare ai “crimini della Chiesa” o di levarsi a difendere dal “fango” quanti si sono certamente spesi con generosità nelle missioni o negli istituti.

Il tempo in cui viviamo vuole risposte rapide e nette, più di quanto le voglia “vere”; eppure davanti a vicende complesse, che si dipanano in archi temporali molto lunghi e che coinvolgono attori diversi, l’unica possibilità per conoscere quanto è davvero accaduto è fermarsi, prendere tempo, studiare.

Se per quanto avvenuto in Irlanda una fonte preziosa è il “Final Report” della Mother and Baby Homes Commission of Investigation pubblicato a ottobre 2020, per comprendere la vicenda delle residential schools canadesi non si può prescindere dalle conclusioni della Truth and Reconciliation Commission of Canada (TRC) – istituita dal c.d. Indian Residential Schools Settlement Agreement – che ha pubblicato nel 2015 una serie di report molto dettagliati, riassunti in un documento dal titolo Honouring the truth, reconciling for the future”.

Questi documenti consentono di ricostruire la storia delle scuole residenziali canadesi, ci permettono di ascoltare le esperienze dei survivors, e ci interrogano sui passi necessari da compiere verso una memoria condivisa e una possibile riconciliazione.

La storia delle residential schools

Le c.d. residential schools sono esistite in Canada per oltre 100 anni.

Prima di discutere di quali fossero le concrete condizioni di vita, è necessario comprendere che questi istituti sono nati con lo scopo dichiarato di allontanare i minori Aborigeni dalle loro famiglie e dalle loro comunità e di indebolire i legami con la loro cultura e la loro identità, per “assimilarli” alla nuova cultura “europea” dominante nel Paese.

Se infatti per l’educazione dei bambini Nativi si fossero privilegiate scuole collocate nelle riserve, disse candidamente il Primo Ministro canadese nel 1883 (anno ufficiale di inizio del programma), questi avrebbero continuato a vivere con i genitori, circondati da “selvaggi”, e – pur ricevendo un’istruzione – sarebbero diventati semplicemente «selvaggi che sanno leggere e scrivere».

Già prima della nascita della nazione canadese, le diverse Chiese (Cattolica, Anglicana, Metodista, Presbiteriana…) avevano iniziato a costruire scuole per i Nativi (in genere piccole scuole, collocate vicino alle comunità indigene): il Governo canadese ritenne di avvalersi della loro collaborazione, costruendo scuole più grandi – lontane dalle riserve – o acquistando dalle chiese le vecchie scuole; gli istituti erano quindi finanziati dallo Stato, ma gestiti da enti religiosi. 

La collaborazione con le confessioni religiose continuò fino al 1969; la maggior parte delle scuole (passate alla gestione statale o – più raramente – degli stessi Nativi) furono chiuse entro gli anni ’80, ma le ultime restarono operative fino alla fine gli anni ’90.

Tra la seconda metà dell’Ottocento e gli anni ’90 del Novecento, circa 150.000 bambini furono inviati in circa 140 residential schools; circa 80.000 persone che hanno trascorso un periodo in questi istituti sono ancora in vita ai nostri giorni.

Il modello non era certo quello dei collegi frequentati dai figli delle élites britanniche e canadesi, quanto piuttosto quello delle industrial schools e dei riformatorî destinati, in Europa e in Nord America, ai figli dei poveri (vi dice niente “Oliver Twist”?), o quello delle boarding schools già in uso da metà Ottocento negli Stati Uniti per i Nativi Americani.

Inizialmente, l’iscrizione era volontaria; tuttavia, se le autorità ritenevano che un ragazzino “Indiano” tra i sei e i sedici anni non ricevesse cure ed educazione adeguate dalla famiglia, potevano ordinare che fosse collocato in un istituto. Le scuole residenziali avevano anche la funzione di orfanotrofi e, in tempi più recenti, non pochi bambini vi venivano inviati dai servizi sociali, che soprattutto negli anni ’60 e ’70 tolsero molti minori alle famiglie native (c.d. “Sixties Scoop”), affidandoli a famiglie bianche o agli istituti.

“Thomas Moore” before and after his entrance into the Regina Indian Residential School in Saskatchewan, in 1874.

Di fatto, anche quando il bambino era collocato in una residential school per volontà dei genitori (i quali spesso la consideravano l’unica opportunità per i figli di ricevere un’istruzione), difficilmente poteva allontanarsene senza il consenso delle autorità, e sempre più la tendenza fu di rendere obbligatoria la frequenzacon sanzioni (fino al carcere) per i genitori inadempienti. 

A partire dal 1920, il Dipartimento degli Affari Indiani aveva formalmente l’autorità di inviare qualsiasi bambino in età scolastica presso una scuola diurna o una scuola residenziale; se un minore si allontanava senza permesso o non rientrava dopo le vacanze, era possibile ricorrere alla forza pubblica per ricondurlo a scuola.

La vita nelle residential schools

A prescindere dalla buona volontà del personale che operava in queste scuole (alcuni insegnanti e inservienti facevano il possibile e sono ricordati con affetto dai testimoni), e senza considerare i casi di veri e propri abusi, la vita era senza dubbio molto dura per i bambini nelle residential schools.

Innanzitutto, subivano un grave trauma venendo allontanati bruscamente dalle loro famiglie e inviati in luoghi sconosciuti. Spesso non conoscevano l’inglese o il francese che si parlava nelle scuole, ma solo le lingue native, che in molti istituti erano proibite: l’impossibilità di comunicare rendeva i primi tempi un’esperienza sconcertante e spaventosa per bambini anche molto piccoli (4 o 5 anni).

Abituati a una vita libera, all’aperto (alcuni sopravvissuti raccontano con nostalgia i primi anni di vita nomade, al seguito dei genitori cacciatori o pescatori), erano costretti ad adattarsi all’improvviso ad una vita molto irregimentata, con regole che spesso non erano in grado di capire. 

Il cibo, oltre ad essere spesso insufficiente (moltissimi ex alunni raccontano di aver avuto sempre fame) e di scarsa qualità, era totalmente diverso da quello a cui erano abituati. 

Dovevano lavorare per aiutare nella gestione della scuola e nelle attività agricole, e talvolta si verificavano incidenti sul lavoro.

La disciplina era molto severa. Naturalmente parliamo anche di epoche diverse, in cui le punizioni corporali erano comunemente praticate (ancora oggi, peraltro, non sono del tutto illegali nelle scuole canadesi); tuttavia i documenti e le testimonianze evidenziano come quelle inflitte nelle residential schools non fossero regolamentate ed eccedessero non di rado i limiti dettati per le scuole pubbliche. 

Cross Lake Indian Residential School, boys’ dormitory, probably February 1940

Molti sopravvissuti raccontano di vere e proprie violenze (anche di lesioni permanenti, come la perdita dell’udito in seguito a percosse), spesso accompagnate da pubbliche umiliazioni. Un ulteriore shock era dovuto al fatto che le punizioni fisiche non erano molto diffuse tra i genitori indigeni, e che molti bambini le sperimentavano per la prima volta.

Il personale era scarso, non accuratamente selezionato né supervisionato in maniera appropriata; gli istituti cattolici si avvalevano dell’opera dei religiosi, mentre quelli protestanti impiegavano missionari laici; gli uni e gli altri spesso non erano adeguatamente formati all’insegnamento, mentre il personale esterno era mal pagato e ci si doveva “accontentare”: in un tale contesto, ben poteva esserci chi approfittava della situazione per abusi di potere più o meno gravi.

Molte testimonianze riferiscono di abusi sessuali, da parte di membri del personale che si guadagnavano con gentilezze e piccoli doni la fiducia dei bambini appena arrivati, traumatizzati dalla separazione dalla famiglia e dal difficile adattamento alla vita negli istituti; talvolta si trattava di vere e proprie aggressioni sessuali e violenze. Se i minori trovavano il coraggio di confidarsi, spesso le famiglie (soprattutto quelle convertite al cristianesimo) non credevano ai loro racconti, e solo di rado i casi di abusi venivano denunciati e perseguiti.

È emerso anche che, in alcune scuole, i bambini furono oggetto di ricerche scientifiche (ad esempio, sulla malnutrizione), senza il consenso delle famiglie e con conseguenze negative per la loro salute.

I morti nelle residential schools

Lo stato di cose che abbiamo provato a descrivere ha provocato la morte di bambini? Si può dire che, in questi istituti, i bambini venivano “uccisi”?

Informazioni su Barbara Sgorbati 0 articoli
Sono nata nel 1987 a Piacenza, dove ho studiato Giurisprudenza all’Università Cattolica del Sacro Cuore e dove tuttora vivo e lavoro come avvocato. Avida lettrice e accumulatrice di libri, ogni tanto scribacchio di bio-diritto e di altre cose che potete leggere su BioLaw Journal e su WoMag; mi occupo anche del tema della tutela dei minori e delle persone vulnerabili, in particolare in ambienti ecclesiali.

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