Ieri mi hanno passato un articolo pubblicato su Il Post intitolato “cosa significa ‘studiare dai gesuiti’”. Eloquente il “catenaccio”:
Lo ha fatto Mario Draghi, come tanti altri personaggi illustri per i quali viene puntualmente ricordato: cosa c’è di tanto speciale?
L’articolo de Il Post
Vi si legge, fra l’altro:
L’istruzione e la diffusione della fede sono sempre stati due elementi fondamentali della Compagnia. I gesuiti viaggiavano molto, furono efficienti missionari e si spinsero fino in America Latina e nell’estremo Oriente. La loro competenza e organizzazione li fece diventare talmente influenti che nel Settecento furono perseguitati da molti regnanti dell’epoca, che li cacciarono dai loro paesi. A quel punto il papa fu costretto a sciogliere l’ordine, che continuò tuttavia a operare fino a quando non fu nuovamente riformato. […]
La qualità dell’istruzione data dai gesuiti è una fama che si portano dietro da secoli, che ha avuto fasi di crisi soprattutto nell’Ottocento ma che oggi è diventata quasi proverbiale: «Un giorno potei dire a Fidel Castro, apprezzandone la sottigliezza dialettica, che lui mi batteva perché aveva studiato dai gesuiti», scrisse Giulio Andreotti. Castro frequentò infatti per alcuni anni una scuola gesuita dell’Avana.
Secondo Sabina Pavone, docente di storia moderna dell’Università di Macerata, il successo del metodo di istruzione gesuita era dovuto a diversi fattori: «Ignazio studiò alla Sorbona di Parigi dove imparò il modus parisiensis, che prevedeva la divisione per classi e per età degli studenti», spiega Pavone. «A questo metodo si aggiungeva il modus italicus, che invece aveva un’attenzione speciale per lo studio del latino e delle materie umanistiche». I gesuiti inoltre erano più aperti rispetto al resto del clero di allora. Il loro metodo pedagogico era allo stesso tempo rigoroso ma permeabile alle influenze della società che li circondava.
Al netto di alcune imprecisioni e/o semplificazioni, l’articolista scrive giusto. Ancora più interessante mi pare però il passaggio finale:
Buona parte degli insegnanti adesso è laica, dice Pavone, ma una caratteristica che è rimasta intatta è «l’approccio allo studio attraverso l’esercizio del pensiero critico, un richiamo al principio del “dovere dell’intelligenza”, elemento chiave dell’identità ignaziana». Nonostante molte scuole gesuite siano private ed esclusive, generalmente chi le frequenta lo fa per ricevere un’istruzione migliore e non per riservarsi un percorso “facilitato”, come capita in altri casi. «E poi non bisogna trascurare la rete di relazioni che ti fornisce l’ambiente gesuita», aggiunge Pavone. «È una rete di conoscenze internazionale: pensiamo alla Georgetown University negli Stati Uniti, che è ancora oggi una delle più importanti del paese, oppure alle università che ci sono in Giappone e in Europa».
Non è una rete di conoscenze “clientelari”, precisa però Pavone. Semplicemente, studiare dai gesuiti permette di frequentare un ambiente ben inserito nella società e con una lunga tradizione di legami culturali, diffusi in tutto il mondo. Oggi non si usa più, ma in passato era comune il detto secondo cui chi aveva studiato dai gesuiti diventava in qualche modo un gesuita laico, “un gesuita con l’abito corto”.
Qui sta da un lato ciò che mi fa particolarmente interessato all’argomento, nonché titolato a intervenire (anche io infatti “ho studiato dai gesuiti”, in Gregoriana e non solo); dall’altro ciò che mi fa molto critico sull’approccio che normalmente si ha al tema. Quando si sente o si dice “ha studiato dai gesuiti”, infatti, il piú delle volte non si pensa alla “sottigliezza dialettica” (che poi neanche sarebbe il cuore della questione), bensì alla “rete di conoscenze”, e a quel punto a poco giova precisare che non sarebbe “una rete di conoscenze clientelari”. Certo che lo è, o meglio… che può anche diventarlo: nessun gesuita serio ha mai preteso che la Compagnia, come la Chiesa stessa, sia immune dalla mondanità – e il martellante ammonimento di papa Francesco (gesuita) a riguardo dovrebbe dirla lunga…
Il Codice della vita italiana di Prezzolini
In realtà, quando si dice o si sente “ha studiato dai gesuiti” quel che balena alla mente è perlopiù l’immaginario efficacemente descritto da Giuseppe Prezzolini all’inizio del Codice della vita italiana (che mi fece leggere appunto un gesuita):
I cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi.
Non c’è una definizione di fesso. Però: se uno paga il biglietto intero in ferrovia, non entra gratis a teatro; non ha un commendatore zio, amico della moglie e potente nella magistratura, nella Pubblica Istruzione ecc.; non è massone o gesuita; dichiara all’agente delle imposte il suo vero reddito; mantiene la parola data anche a costo di perderci, ecc. questi è un fesso.
Giuseppe Prezzolini, Codice della vita italiana, artt. 1-2
La scrittura di Prezzolini è al contempo iperbolica e molto prosaica: è evidente che esageri, eppure pretende di non star esagerando affatto – un po’ come quella bizzarra schizofrenia per la quale, a prescindere dalle cose biasimevoli che si richiedono per essere della partita, nessuno tutti vorrebbero se non essere o passare per furbi almeno non essere o passare per fessi. Ecco: si guarda con un misto di ammirazione e invidia (due attitudini che, allo stato puro, sono simili ma assolutamente inconciliabili) a chi “ha studiato dai gesuiti” perché in fondo si pensa che sia un furbo (qualunque cosa “furbo” voglia dire)… o perlomeno che non passi per fesso (qualunque cosa “fesso” voglia dire).
A questo punto bisogna che io scopra un poco il mio punto e spieghi perché mi sta tanto a cuore la cosa, cioè che cosa significhi per me aver studiato dai gesuiti – cosa che evidentemente include i preziosi anni di formazione intellettuale in Gregoriana, ma non si limita a quelli.
- Anzitutto mi ha reso “gesuita in pectore” la frequentazione con Ignazio: con i suoi scritti ma soprattutto con il suo metodo (di preghiera, di esegesi, di studio, di politica ecclesiastica…).
- Contestualmente a questo primo e fondamentale elemento, sono stato gratificato della conoscenza e dell’accompagnamento di alcuni tra i migliori gesuiti italiani del secolo presente, tra i quali mi è d’obbligo ricordare almeno Filippo Clerici e Silvano Fausti, Ugo Vanni e Giandomenico Mucci (di altri taccio, ché sono tuttora viventi): uomini semplicissimi e dottissimi, sapienti e prudenti, a loro debbo anzitutto un’alta scuola di amore a Gesù Cristo, quindi lo spettacolo di una consumata esperienza nel saggiare il cuore umano e accompagnarlo.
- Tra i gesuiti che mi hanno segnato, infine, ve ne sono alcuni del secolo scorso, grandissimi, che non ho mai potuto conoscere se non attraverso gli scritti – penso almeno a Henri De Lubac, Jean Daniélou e (tutto sommato) Hans Urs Von Balthasar –: il segno che questi uomini hanno lasciato sulla Chiesa e sul mondo, per via diretta e indiretta, è – ritengo – letteralmente inestimabile.
Il Discorso di “Ignazio Rahner” a un gesuita odierno
Ora c’è uno scritto di un grande gesuita del secolo scorso (non l’ho citato tra quelli sopra solo perché non ho grande empatia teologica coi suoi scritti, di cui pure riconosco la grandezza) che mi fu raccomandato e citato da tre dei quattro gesuiti italiani di cui sopra: è il Discorso di Ignazio di Loyola a un gesuita odierno, che Karl Rahner scrisse nel 1978. Il genere del discorso fittizio (o della lettera fittizia) è molto congeniale allo spirito immaginifico esercitato dalla scuola ignaziana, e forse a qualcuno torneranno in mente le due Lettere di Silvano Fausti – rispettivamente a Sila e a Voltaire (altro celebre allievo dei gesuiti).
Ebbene, in questo saggio discorsivo Rahner tracciava un rapido ma denso consuntivo di tutta la storia della Compagnia, scendendo talvolta fin nelle sfumature delle storiche controversie de Gratia, ma si concentrava soprattutto sulla questione del senso e del destino del carisma gesuitico oggi (e sebbene nel mondo e nella Chiesa siano successe tantissime cose, dal 1978 in qua, possiamo ancora prendere per buono come nostro “oggi” quel suo “oggi” di allora). Nelle ultime pagine di quel denso saggio si trovavano finalmente alcune considerazioni su “la scienza nell’Ordine”, e dunque in senso lato sullo “studiare dai gesuiti”. Ne riporto qualche passaggio:
Quando voi eravate umanisti dalla mentalità moderna [è Ignazio che scrive, nella fictio litterarum, N.d.R.] nella teologia e riflettevate con un certo ottimismo, tipico dell’evo moderno, sull’uomo, anche preso soltanto nella sua semplice natura; quando per la vostra missione in Cina e in India ne traeste conseguenze che Roma non volle approvare: tutto ciò costituiva già un preludio, intenzionale o meno, o un’antropologia teologica quale deve esistere in una Chiesa, la quale intende essere la Chiesa di tutto il mondo e di tutte le culture e non limitarsi a coltivare e ad esportare dappertutto il cristianesimo europeo. […]
Come la vostra teologia con legittimazione storica ha contribuito a quello sviluppo della coscienza della fede della Chiesa, che si è oggettivato nel Vaticano I, così oggi essa ha il dovere di sviluppare ulteriormente quegli spunti relativi alla costituzione giuridica della Chiesa, che sono stati espressi nel Vaticano II. Dovete rimanere fedeli nella teologia (e nella prassi) al papato, perché ciò costituisce in modo speciale una parte della vostra eredità; il papato però nella sua forma concreta sarà anche in futuro soggetto a un’evoluzione storica, per cui la vostra teologia e il vostro diritto canonico devono porsi soprattutto al servizio del papato quale esso dovrà essere nel futuro, per costituire un sostegno e non un impedimento all’unità della cristianità. Per il resto: studiate Marx, Freud e Einstein; cercate di sviluppare una teologia adatta all’orecchio e al cuore dell’uomo moderno; ricordate però che punto di partenza e meta della vostra teologia – che può anche oggi avere il coraggio di essere genuinamente sistematica – rimane Gesù Cristo crocifisso e risorto, autoespressione e promessa del Dio incomprensibile al mondo, e non una qualsiasi moda culturale, che oggi sorge e domani tramonta.
Spesso hanno rimproverato alla vostra teologia di essere affetta da un eclettismo a buon mercato. Non è un rimprovero del tutto immeritato. Ma se Dio è “sempre un Dio più grande”, che fa saltare qualsiasi sistema attraverso cui l’uomo cerca di soggiogarsi la realtà, allora il vostro “eclettismo” potrebbe anche essere l’espressione del fatto che l’uomo non è in condizione di comprendere tutta la verità di Dio e accetta di buon grado tale sua impotenza.
Karl Rahner, Discorso di Ignazio di Loyola a un gesuita odierno, 1974
E poi, nel paragrafo dedicato alle possibili trasformazioni della Compagnia:
Ho dato, sì, il via per la fondazione della Gregoriana e del Germanicum, ma a Roma ho anche fondato la Casa di Santa Marta per le prostitute che intendevano rifugiarvisi […].
È vero, ho fondato scuole, ho dato alla loro fondazione uno statuto giuridico e ho così dovuto adattare un poco – sospirando – la legislazione dell’Ordine relativa alla povertà, tanto che in qualche periodo e in qualche paese questo è diventato un Ordine di insegnanti e dedito all’insegnamento, cosa contro cui non ho veramente nulla da obiettare, qualora essa non sfiguri il suo carattere e la sua mentalità generale. Non dimenticate però un particolare: ai miei tempi queste scuole erano gratuite, avevano quindi un carattere eminentemente socio-politico, mentre le vostre scuole odierne sono necessariamente costose e a pagamento, cosa che non ho difficoltà ad ammettere. E altre cose del genere ci sarebbero da dire.
Ibid.
Negli ultimi passaggi di quel bellissimo saggio, “Ignazio Rahner” ricordava gli impegni che la Compagnia si assunse nel 1974, durante la sua storica XXXII Congregazione Generale, quando si ripromise di guardare al calo delle vocazioni e, piú in generale, alla crisi del proprio carisma nel panorama ecclesiale, come a un’occasione di rigenerazione:
Se seguirete il Gesù povero e umile; se – come ho già detto – non accetterete come un’amara costrizione una nuova “marginalità” della vostra vita nell’ambito della società, che forse il futuro ha in serbo per voi in misura superiore al passato, ma l’abbraccerete volentieri come la sorte toccata allo stesso Gesù, allora verrete forse a trovarvi nella posizione giusta per portare avanti la lotta per la giustizia. […]. Poi potrete continuare a fare teologia ad alto livello, a sviluppare strategie culturali, a fare un po’ di politica ecclesiastica, a utilizzare i mass-media ecc. Potrete fare anche tutto questo. Però guardatevi dal valutare la vostra vita e l’importanza dell’Ordine in base ai successi riportati in questi campi.
Ibid.
In Compagnia di Gesú ci prepariamo, se necessario, a passare per fessi
Queste pagine mi confortano: leniscono l’irritazione che mi viene – a me che “ho studiato dai gesuiti”! – quando sento l’espressione “ha studiato dai gesuiti” e capisco o sospetto che s’intende il prezzoliniano “quello è un furbo!” (o l’italianissimo “quello non passa da fesso”). La vera scuola di Ignazio, quella che a pieno diritto e con cognizione di causa è chiamata “Compagnia di Gesú”, è invece l’esatto opposto: saremo anche furbi, ma ci prepariamo appunto a passare da fessi, se necessario. Per questo ho colto l’occasione di buttare giú queste riflessioni proprio oggi che, nella Chiesa, si festeggiano san Paolo Miki e i suoi venticinque compagni, i quali nel 1596 furono crocifissi dai furbi, che in Giappone s’illudevano di reprimere in tal modo la diffusione dell’Evangelo. Nel gruppo c’erano altri due gesuiti giapponesi (“traditori della patria”), sei frati missionari spagnoli e diciassette giapponesi che, guidati da questi, si erano fatti terziari francescani. Ecco: questo vuol dire veramente “aver studiato dai gesuiti”, stare nella Compagnia di Gesú, ovvero stare in compagnia di Gesú.
Piantate le croci, fu meraviglioso vedere in tutti quella fortezza alla quale li esortava sia Padre Pasio, sia Padre Rodriguez. Il Padre commissario si mantenne sempre in piedi, quasi senza muoversi, con gli occhi rivolti al cielo. Fratel Martino cantava alcuni salmi per ringraziare la bontà divina, aggiungendo il versetto: «Mi affido alle tue mani» (Sal 30, 6). Anche Fratel Francesco Blanco rendeva grazie a Dio ad alta voce. Fratel Gonsalvo a voce altissima recitava il Padre nostro e l’Ave Maria.
Il nostro fratello Paolo Miki, vedendosi innalzato sul pulpito più onorifico che mai avesse avuto, per prima cosa dichiarò ai presenti di essere giapponese e di appartenere alla Compagnia di Gesù, di morire per aver annunziato il vangelo e di ringraziare Dio per un beneficio così prezioso. Quindi soggiunse: «Giunto a questo istante, penso che nessuno tra voi creda che voglia tacere la verità. Dichiaro pertanto a voi che non c’è altra via di salvezza, se non quella seguita dai cristiani. Poiché questa mi insegna a perdonare ai nemici e a tutti quelli che mi hanno offeso, io volentieri perdono all’imperatore e a tutti i responsabili della mia morte, e li prego di volersi istruire intorno al battesimo cristiano».
Si rivolse quindi ai compagni, giunti ormai all’estrema battaglia, e cominciò a dir loro parole di incoraggiamento.
Sui volti di tutti appariva una certa letizia, ma in Ludovico era particolare. A lui gridava un altro cristiano che presto sarebbe stato in paradiso, ed egli, con gesti pieni di gioia, delle dita e di tutto il corpo, attirò su di sé gli sguardi di tutti gli spettatori.
Antonio, che stava di fianco a Ludovico, con gli occhi fissi al cielo, dopo aver invocato il santissimo nome di Gesù e di Maria, intonò il salmo Laudate, pueri, Dominum, che aveva imparato a Nagasaki durante l’istruzione catechistica; in essa infatti vengono insegnati ai fanciulli alcuni salmi a questo scopo.
Altri infine ripetevano: «Gesù! Maria!», con volto sereno. Alcuni esortavano anche i circostanti ad una degna vita cristiana; con questi e altri gesti simili dimostravano la loro prontezza di fronte alla morte.
Allora quattro carnefici cominciarono ad estrarre dal fodero le spade in uso presso i giapponesi. Alla loro orribile vista tutti i fedeli gridarono: «Gesù! Maria!» e, quel che è più, seguì un compassionevole lamento di più persone, che salì fino al cielo. I loro carnefici con un primo e un secondo colpo, in brevissimo tempo, li uccisero.
Dalla «Storia del martirio dei santi Paolo Miki e compagni» scritta da un autore contemporaneo (Cap. 14, 109-110; Acta Sanctorum Febr. 1, 769)
La crocifissione di Paolo Miki e compagni, sulla collina di Tateyama (nei pressi di Nagasaki), il 6 febbraio 1597. Il quadro è conservato nel palazzo episcopale di Macao, e da Cyril J. Law, un giovane sacerdote che è un amico e che opera a Macao, abbiamo avuto le foto successive a questa e le indicazioni che compendiamo nella galleria.
Gli abiti dei religiosi crocifissi (cf. figura precedente) sono evidentemente francescani: la tela era stata concepita come un omaggio ai martiri francescani, non a quelli gesuiti, i quali sono collocati nelle tre figure affacciate alla finestra dell'edificio sull'estrema destra del quadro. La mozzetta bordata d'ermellino individua Paolo Miki.
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