«La carità non avrà fine…» (e neppure va in vacanza!)

O Dio, che nel tuo ineffabile amore
hai creato l’universo,
donaci di adorarti sempre
con tutto il nostro essere
e di amare ogni uomo
con affetto giusto e fraterno…

dalla XIX domenica del Tempo “Per annum”, Rito ambrosiano

In un agosto afoso con un virus che non vuole mollare la presa, medito su quella carità cristiana che non si stanca di prodigarsi per coloro che non hanno il lusso di staccare dalla routine quotidiana per andare in vacanza. E penso soprattutto a quelle persone che per fede in Dio (e non solo per solidarietà umana) non si fermano nel donarsi nonostante la calura insopportabile. Guardo ammirato gli amici della Società San Vincenzo De Paoli della mia parrocchia e insieme immagino quelli di molte altre che instancabili al bene si dedicano ai più bisognosi.

Ho avuto anch’io, infatti, la ventura di prendere parte alle Conferenze di Carità proprio a imitazione della prima, avvenuta il 23 aprile 1833 in Rue de Petit-Bourbon-Saint-Sulpice a Parigi, in cui si ritrovarono sotto la spinta di Antonio Federico Ozanam, Le Taillandier, Lamache, Lallier, Devaux, Clavè e Bailly. In un tempo in cui era vietata l’assistenza sociale da parte dei cattolici ecco degli incontri per dare senso caritativo all’essere credenti. La prima riunione si aprì significativamente con l’invocazione allo Spirito Santo e con la lettura di un brano dell’Imitazione di Cristo. Si stabilirono poi due punti fondamentali: quel ritrovarsi doveva possedere un carattere semplice e amichevole, oltre di scambievole confidenza tra i partecipanti e un fine pratico, “attivo”, di fede operante. Fu invitato anche un sacerdote – stessa mia sorte – per avere dei consigli e per mostrare il rispetto e l’obbedienza verso l’autorità della Chiesa di questo gruppo di laici animati dal desiderio di operare cristianamente.

Ho potuto, quindi, osservare da vicino i benefici effetti di chi si spende senza risparmio per il prossimo a imitazione di quel san Vincenzo, il quale – aggiungendo iniziative a iniziative – aveva vissuto così tutta la vita, divenendo ispiratore di altri Santi (oltre al già citato beato Ozanam, basti ricordare la Piccola Casa della Divina Provvidenza che il Cottolengo pose sotto i suoi auspici).

Oggi si parla molto di povertà (e giustamente!), soprattutto nel magistero di papa Francesco, il quale nel IV Messaggio della Giornata mondiale dei poveri (2020) scrive a un certo punto:

Il grido silenzioso dei tanti poveri deve trovare il popolo di Dio in prima linea, sempre e dovunque, per dare loro voce, per difenderli e solidarizzare con essi davanti a tanta ipocrisia e tante promesse disattese, e per invitarli a partecipare alla vita della comunità.

Sono rimasto molto colpito da queste parole perché mi pare sintetizzino quanto abbiano fatto per secoli i missionari cristiani che, motivati e senza scadenze, si sono consumati in terre lontane, tenendo fede a dei propositi che sono evangelici e quindi indubbi. Hanno, pertanto, tentato con ogni sforzo di combattere il peggio, recando non solo mezzi necessari alla sopravvivenza di molti, ma una Parola di salvezza. Si rimane stupiti da certi racconti, davvero eroici, di chi si è ingegnato per portare l’amore di Dio in latitudini e longitudini avverse a un buon destino. Rimango sempre ammaliato quando ascolto (o leggo) il mio amico Giorgio Torelli, reporter speciale perché solo di “buone nuove”. Nella primavera del 1985, il giornale per cui lavorava (quello di Indro Montanelli, per intenderci) lo aveva inviato in Africa.

Andassi dove mi piaceva – commenta il giornalista di lungo corso – per dimostrare che i missionari sono facitori di sviluppo e che quasi tutto il resto – organizzazioni internazionali, grandi opere spicciative, piani faraonici, ipotesi a tavolino, spedizioni improvvisate – risulta, più spesso che non si osi dire, occasione mancata e dissipazione di intenti e danaro. Ho fatto fagotto ancora una volta, sono partito […]. Ci sono almeno 19mila missionari italiani sparsi sulla faccia della Terra. E, poi, ci sono quelli – innumerevoli – che italiani non sono e allineano facce, nomi, storie, delusioni, vittorie, tessiture, giorni amari e forza per reggere. Nessuno più osa dire agli uomini che Dio è padre, se non sostenendo – giorno dopo giorno – a fianco dei percossi, la battaglia contro il peggio. Ogni peggio può essere debellato, ritorto e ricacciato nella polvere. Nessuno ci prova quanto i galantuomini – intendo uomini e donne – che bruciano, negli avamposti del mondo, la complessità di una vita.

G. Torelli, Baba Camillo e altre storie d’Africa, De Agostini, Novara 1986, p. 5

Queste intuizioni confermano una mia convinzione: l’amore cristiano è vivere della prossimità e non è solo “fare della carità”, intesa come elemosina, seppur anch’essa sia importantissima. Lo stesso san Cipriano di Cartagine, difatti, nel suo De opere et eleemosynis afferma che chi

è educato dalle ispirazioni ed esortazioni dello Spirito Santo a sperare nel regno celeste ha ricevuto l’ordine di fare elemosine (facere eleemosynas jubetur) (IV).

Cypr., De opere et eleemosynis 4

Ciononostante, non basta fare della carità, ma bisogna vivere con carità, nell’Amore. E mi pare coincidere con l’invito che il Pontefice rivolge a tutto il popolo di Dio: l’amore cristiano si sperimenta anche in quella forma di carità che consente di entrare in comunione con il povero. Per non cadere in iniziative puramente sociali o filantropiche, che in sé non sono di certo un male, si deve avere la stessa intuizione antica di un san Vincenzo o di un san Giuseppe Benedetto (ribadita oggi, mi pare, dal Vicario di Cristo). Del resto, sappiamo dell’esistenza, grazie al sopracitato Emanuel Bailly, delle Conferenze di diritto e storia, che però non potevano bastare a un cuore cristiano, come quello del beato Ozaman, che le trasformò in qualcosa di differente. È a imitazione di quel nobile cuore ciò che dovrebbe animare l’intento evangelico di soccorrere i poveri: non solamente (anche) un aiuto materiale (la Lettera di Giacomo è chiara in proposito), ma un farsi prossimi a livello spirituale, farsi riconoscere come fratelli. Qui c’è un salto non immediato da compiere: è facile infatti dare, è più difficile darsi. Nulla, però, è più arricchente ed è quello che è capitato, nel mio piccolo, a me grazie al mio amico Rhami. Ci siamo conosciuti per una richiesta: lui aveva bisogno e io potevo corrispondere, seppur in minima misura. La Provvidenza volle, tra l’altro, che entrambi arrivassimo in una parrocchia milanese nello stesso periodo: io provenivo da una comunità pastorale di provincia e lui dal Marocco. Abbiamo – io e Rahmi – incominciato a conoscerci, parlando, discutendo delle realtà intorno a noi, volendoci bene con semplicità. Non ha mai desiderato una carità sbrigativa (che spesso noi sacerdoti, vista la mole di richieste, tante volte compiamo), l’ha poi sempre rifiutata da un amico. Accetta, invece, qualche spicciolo solo se può contraccambiare con un lavoretto o con un aiuto pratico. In lui rivedo l’autentica immagine del povero: colui a cui manca magari il necessario per vivere, ma non la dignità, mentre al mondo ci sono tanti miseri (c’è differenza tra miseria e povertà!) che pur essendo più o meno agiati hanno poco da offrire.

Certo, è difficile poter instaurare un rapporto profondo con tutte le persone che gravitano attorno alla nostra esistenza, tuttavia percepisco sia questo il primario compito di un cristiano. E allora il cammello di stoffa portato dal Marocco e l’andare al ristorante insieme (lusso per il mio amico che lo riempie di un orgoglio gioioso) rendono, per chi dà e per chi riceve (e quante volte si scambiano i ruoli!), più positiva la vita. D’altronde, Rahmi, mi rammenta coi suoi discorsi una frase di Giovannino Guareschi:

La povertà – ha detto lo scrittore mediante la voce di don Camillo – è una disgrazia, non un merito. Non basta essere poveri per essere giusti. E non è vero che i poveri abbiano solo diritti e i ricchi solo doveri: davanti a Dio tutti gli uomini hanno esclusivamente dei doveri.

G. Guareschi, 333. Vennero per suonare e tornarono salati, in Id., Mondo piccolo. Tutto don Camillo. Volume secondo (183-346), a cura di Carlotta e Alberto Guareschi, BUR, Milano 20113, pp. 3046-3054: p. 3046.

A tal proposito, mi sorge un’ultima riflessione, che può apparire una provocazione, ma che – ne sono sicuro – può evitare tanti impacci legati insieme da ideologie di diversa fattura. Non è un pensiero mio, ma che ho fatto mio. L’ho imparato da un mio maestro, il cardinal Giacomo Biffi (1928-2015), il quale ha insegnato che la Chiesa (che noi spesso riduciamo a semplice istituzione umana, mentre è molto di più o almeno dovrebbe esserlo per i battezzati) non deve essere povera, ma ricca (e lo è già “custodendo” la realtà più preziosa al mondo, la Rivelazione divina). Mi ricordo ancora una battuta quando andavo a trovarlo nel suo luogo di riposo sui colli bolognesi: “Il denaro è lo sterco del diavolo!”, esclamava per poi chiedersi con il viso volutamente corrucciato: “E noi che ne facciamo?”. E, dopo una pausa ad effetto, la riposta liberatoria: “Concimiamo la vigna del Signore, che è la Chiesa!”.

Si rideva con don Giacomo, perché era un fine umorista, capace cioè di far riflettere attraverso un racconto o un aneddoto, quasi sempre spassoso. Ripropongo la sua riflessione perché fa comprendere la differenza tra l’amore per la povertà e un becero pauperismo.

Personalmente sono abbastanza critico sull’uso così diffuso dell’espressione “Chiesa povera”: è ambigua, può essere forviante, e serve di fatto a quelle forze mondane che osteggiano in tutte le maniere un’efficace presenza della “nazione santa” nella storia. Il Vangelo è chiaro ed esigente nel prospettare a tutti noi il distacco dai beni di quaggiù e la rinuncia agli agi, ovviamente in conformità al proprio stato. E questo vale in modo particolare per gli ecclesiastici, che dovranno guardarsi da un’esistenza troppo lussuosa o troppo comoda […]. Ma non sta scritto da nessuna parte nel Nuovo Testamento che la Chiesa non debba avere i mezzi necessari per il miglior esercizio della sua missione sulla terra, né che il popolo credente non possa esprimere la sua fede e l’amore per il Signore che l’ha redento, anche attraverso la bellezza e il pregio di tutto ciò che serve al culto del vero Dio e alla celebrazione dei misteri della salvezza. Ci può utilmente illuminare su tale questione la condotta seguita da sant’Ambrogio. Ricco di famiglia, una volta divenuto vescovo cedette ogni possedimento alla sua Chiesa […] «per seguire Cristo Signore – nota il suo segretario e biografo Paolino – come un soldato non appesantito da armi e senza bagagli» (Vita Ambrosii 38,5). Era larghissimo nell’aiutare concretamente i poveri, e non aveva esitato a infrangere i vasi sacri per riscattare con l’oro ricavato i cristiani caduti prigionieri dei barbari. Ma al tempo stesso non temeva di promuovere la costruzione di nuove ampie basiliche e di uno splendido battistero ottagonale. Come si vede, la sua volontà di attenersi integralmente ai consigli evangelici lo spingeva a praticare personalmente la povertà e a soccorrere chi era nella necessità. Era però ben lontana dai suoi pensieri l’idea che la Chiesa non dovesse avere i mezzi che le facilitassero i suoi compiti apostolici. Lasciando alla Chiesa di Milano tutte le sue proprietà, egli ci dà implicitamente un insegnamento che non va disatteso.

G. Biffi, Memorie e digressioni di un italiano cardinale, Nuova edizione ampliata, Cantagalli, Siena 2010, pp. 566-567.

Anche nel mio libro letterario intitolato Dalle lettere di don Augusto. Come rimanere cattolici nonostante tutto, ho preso bonariamente in giro la (distorta) anima francescana,

quella che parla di povertà a ogni piè sospinto, nonostante sia proprietaria di un enorme appartamento cittadino (pur vivendo sola), più una casa al lago, al mare, a Saint-Moritz e via discorrendo. E senza dimenticare il macchinone parcheggiato davanti ai locali della parrocchia in sosta vietata, perché va bene essere ecologisti, che è di moda, ma duecento metri a piedi non si possono mica fare!

S. Pinna, Dalle lettere di don Augusto. Come rimanere cattolici nonostante tutto, Presentazione di Paolo Gulisano e Postfazione di Enrico Beruschi, Edizioni Ares, Milano 2020, p. 81.

Insomma si potrebbe dire di questa gente un po’ ideologica: amano la povertà perché non la possiedono!

Tutt’altra storia per chi sceglie, come san Francesco, a imitazione del Cristo, di sposare Madonna Povertà, non smettendo mai di amarla lungo tutta la sua vita fino al passaggio nell’eternità.

Spesso – scrive san Bonaventura da Bagnoregio – [san Francesco] richiamava alla mente, piangendo, la povertà di Gesù Cristo e della Madre sua, e affermava che questa è la regina delle virtù, perché la si vede brillare così fulgidamente, più di tutte le altre, nel Re dei re e nella regina sua Madre. Anche quando i frati, in capitolo, gli domandarono qual è la virtù che, più delle altre, rende amici di Cristo, rispose, quasi aprendo il segreto del suo cuore: «Sappiate, fratelli, che la povertà è la via speciale della salvezza, giacché è alimento dell’umiltà, radice della perfezione. Molteplici sono i suoi frutti, benché nascosti. Difatti essa è il tesoro nascosto nel campo del Vangelo: per comprarlo, si deve vendere tutto e si deve disprezzare tutto quello che non si può vendere».

Bonaventura da Bagnoregio, Leggenda maggiore, VII, 1, in Fonti Francescane, Editrici Francescane, Padova 2004, p. 646, n. 1118.

Siamo di fronte alla

logica dello stile oblativo, che illumina la vita di Francesco, non più ripiegato su se stesso. Non è agevole condividerla, dal momento che comporta un capovolgimento radicale dell’esistenza, pensata e progettata per lo più entro la logica possessiva e dominatoria. In effetti, i suoi concittadini non la compresero, respingendola con sarcasmo e derisione.

O. Todisco, Il sottosuolo della letizia francescana. Ovvero pensare all’aperto, «Città di Vita» 72 (2017) 1, pp. 7-20: p. 12.

Tuttavia, Dante, nella Divina Commedia, rileva l’aspetto successivo alla scherno di un primo momento: la scelta di povertà come offerta a Dio per il bene del prossimo diviene contagiosa.

La lor concordia e i lor lieti sembianti,
amore e maraviglia e dolce sguardo
facieno esser cagion di pensier santi.

Pd XI, vv. 76-78

La perfetta concordia (la lor concordia) tra Francesco e la Povertà e la letizia dei loro aspetti (lor lieti sembianti), dei loro volti sereni, unita all’amore e alla felice meraviglia (amore e maraviglia) che apparivano nel loro dolce guardarsi, quasi una sorta di contemplazione, erano motivo di santi pensieri in chiunque li vedesse (esser cagion di pensieri santi).

La povertà è bene, una grazia divina, solamente quando è cristianamente scelta, non quando è subita o proclamata come virtù che non si vive. I bisognosi vanno, quindi, soccorsi con le ricchezze (materiali e spirituali), ma per portarli a conoscere, nella libertà, quella più bella, buona e vera che coincide con la persona di Gesù Cristo.

Il mio amico Rhami, che cristiano non è, me l’ha insegnato attraverso la sua amicizia disinteressata (lui che poteva vantare interessi), conscio che in fondo – parafrasando la Sacra Scrittura – chi trova un amico trova un tesoro. Guarda caso – per me appassionato – questo è anche un titolo di un film di due miei paladini, Bud Spencer e Terence Hill. E nel lungometraggio si vede come il rapporto amicale non può mai essere idealizzato, ma bisogna sforzarsi di farlo crescere, perché l’amicizia è

un valore e una virtù che – se può nascere spontanea – deve essere coltivata e custodita.

S. Pinna, Spaghetti con Gesù Cristo! La «teologia» di Bud Spencer, Àncora, Milano 2017, p. 76

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