Più tremendo del segreto del peccato: la confessione

Giuseppe Molteni (1800-1867), La confessione, 1838, Gallerie di Piazza Scala, Milano (part).

Oh, nessun segreto è così pesante per un uomo come il segreto del peccato. C’è soltanto una cosa che è ancora più tremenda: la confessione. Perciò la confessione umana ha inventato qualche sollievo per aiutare questa difficile nascita. […] La confessione umana ha escogitato il sollievo che colui che riceve la confessione stia nascosto – poiché la sua vista la renderebbe troppo dura – sì, troppo duro per il peccatore l’alleviare la sua coscienza. Alla fine la compassione umana ha escogitato che non c’è neppure bisogno di una simile confessione o di un simile ascoltare nascosto; la confessione si faccia soltanto davanti a Dio nel segreto e così tutto potrebbe rimanere nascosto nell’intimo di ciascuno1Kierkegaard, Tre Discorsi per la Comunione del Venerdì, III. La peccatrice..

In questo passo Kierkegaard sembra indovinare la difficoltà tutta moderna e contemporanea dell’uomo rispetto alla confessione dei peccati. Come suo costume Kierkegaard lo fa andando al cuore dell’uomo che vive “davanti” a Dio evitando considerazioni di semplice costume. Se il segreto del peccato è pesante, più pesante è confessare il peccato per ogni uomo che voglia alleviare la sua coscienza dal peso della colpa. La figura che fa da contrasto a questo climax prima ascendente (il peso del segreto e il peso della confessione) e poi discendente (le misure atte a diminuire il peso) è la peccatrice senza nome di Luca 7. Lei invece di percorrere in discesa le misure che gli uomini hanno escogitato, secondo Kierkegaard, per rendere più facile la confessione, si presenta ad un banchetto, davanti al Santo ed in casa di un fariseo rendendo manifesto il proprio essere una peccatrice.

A risaltare per prima è la brevissima sintesi della storia della confessione interpretata secondo la crescente inventiva umana finalizzata ad alleviare il peso di un atto che è, appunto, il più pesante possibile. La storia della penitenza come Sacramento riflette in parte il movimento riportato da Kierkegaard. Nei primi sei secoli la prassi penitenziale richiedeva la confessione fatta al Vescovo e l’iscrizione nell’ordo (o gruppo) dei penitenti alla quale seguiva un lungo periodo di espiazione rigorosa e penosa che terminava con una solenne riconciliazione in presenza di tutta la comunità. Va da sé che questo cammino era “riservato” ai peccati gravi (mortalia o capitalia); in sovrappiù la possibilità della riconciliazione era unica: ciò che provocò la diserzione frequente dei fedeli all’inizio del cammino e la sua differita fino al termine della vita. Dal settimo secolo in avanti, sia in Occidente che in Oriente, il sacramento della Penitenza diventa privato, individuale. L’assoluzione si sposta dopo la confessione (come ora) e precede le opere penitenziali e per questo motivo la confessio peccatum assume un’importanza fondamentale. La forma privata e “moltiplicata” della Penitenza rimane in sostanza la medesima nell’Occidente cattolico fino ad oggi, mentre nell’area del cristianesimo sorto dalla Riforma si arriva alla confessione “nel segreto”, solitaria, cui Kierkegaard accenna come termine finale (confessione peraltro de-sacramentalizzata).

Giuseppe Molteni (1800-1867), La confessione, 1838, Gallerie di Piazza Scala, Milano.

Di questa storia la Chiesa cattolica condivide soltanto fino al penultimo passo, al confessore che resta nascosto perché «la sua vista la renderebbe troppo dura [la confessione]». Ciò che è essenzialmente il medesimo è invece il peso della confessione per i cattolici in genere, qualcosa che rende duro accostarsi a quello che pure è (a ragione) chiamato il Sacramento della Riconciliazione. La gioia liberante del perdono non sembra abbastanza forte per vincere il peso della confessione, che dovrebbe liberare dal peso del segreto del peccato e invece sembra farsene forza. Il motivo ha certo il suo fondamento teologico nel peccato originale e nella chiusura che questo ed ogni peccato comporta. Ovvero la vittoria della carne (non del corpo!) cioè il ripiegarsi su noi stessi volendo fare della nostra fragilità una fortezza nella quale difendere precisamente ciò che odiamo e odiare ciò che difendiamo.

Secondo la riflessione kierkegaardiana (di nuovo) questo mutismo dell’io, non imposto dall’esterno, ma proveniente da sé, questa resistenza, che è il peccato, è definito con una formula particolarmente acuta. «Davanti a Dio ovvero con l’idea di Dio, o disperatamente non voler essere se stesso, o disperatamente voler essere se stesso» (Kierkegaard, La Malattia mortale, Parte II, A, 75). In un caso è la debolezza potenziata del rifiuto di sé come dell’io che ha fallito, nell’altro caso è l’ostinazione potenziata di chi vuole essere se stesso a dispetto di ogni spinta contraria: in entrambi i casi disperazione e peccato. A parte le forme opposte della disperazione (debolezza – ostinazione) la chiave dell’espressione è quel davanti a Dio. Esso va inteso non come nelle nostre formule di giuramento nelle quali è una formuletta enfatica che ingigantisce e sottolinea l’importanza di una decisione presa. Quel davanti a Dio indica precisamente il fatto che l’io umano e l’uomo tutto intero sorge e sta come rapporto che è in rapporto con la potenza che lo ha posto: ovvero in rapporto con Dio.

Confessare è dunque confessare, ma essenzialmente davanti a Dio. Ora forse è più utile comprendere perché la differenza tra la Confessione cattolica, presso un sacerdote, seppur nel segreto, e la confessione nel segreto a cui si riferisce Kierkegaard è essenziale. Confessare è la cosa tremenda, così per la donna peccatrice, ma tremenda per quel davanti a Dio. Ora nella confessione nel segreto quel davanti a Dio è volatilizzato. Tutta la produzione kierkegaardiana si dibatte nell’accusa alla Cristianità del tempo di aver volatilizzato la scelta della libertà, senza trovare una qualche soluzione. Ora è evidente che nella Confessione sacramentale del Cattolicesimo il davanti a Dio trova un luogo di inveramento nell’accostarsi del singolo al sacerdote. Per quanto l’evento puntuale della confessione si debba inserire in un cammino che lo deve precedere e in un altro che lo deve seguire, l’evento della confessione ne è il fulcro come scelta dell’azione di porsi davanti a Dio secondo la logica dell’Incarnazione. Infatti confessare ad un sacerdote è porsi davanti ad un’altra “carne”, nel senso insieme più concreto e più profondo (la “carne” del Prologo di Giovanni), che dona il perdono che, a ragione, i farisei affermavano essere prerogativa esclusiva di Dio (Mc 2, 7-Lc 5, 21 e Mt 9, 3).

Ora possiamo tornare al punto di partenza, a quella difficoltà tutta attuale della confessione. Il più delle volte anche soltanto l’idea che il perdono comporti una confessione dinanzi ad un altro essere umano è semplicemente incomprensibile. Quando è accettata, lo è come si accetta un peso necessario, un male inevitabile, qualcosa da “fare” per lasciarsi alle spalle un carico ingombrante. Davvero confessare è la cosa più tremenda, e la Confessione per i cattolici mantiene questo peso impedendo la volatilizzazione del “segreto” (o della celebrazione anonima). Questo rifiuto del porsi davanti ad un’altra carne può senz’altro derivare da una certa mentalità per la quale il “mente a mente” dell’uomo con Dio dovrebbe essere più che sufficiente: cosa c’entrano le carni con l’avvento del perdono? In questo senso la meditazione del Verbo fatto carne, fatto pochi chilogrammi di carne, nel Natale e nell’ottava può riportare la fede nel senso pieno dell’Incarnazione. Forse però c’è altro nel paradosso per cui ciò che guarisce pure allontana. Forse Pascal può aiutare.

Giacché le due sorgenti dei nostri peccati sono l’orgoglio e l’accidia, Dio ci ha rivelato due sue qualità per guarirle, la sua misericordia e la sua giustizia. Il proprio della giustizia è di abbattere l’orgoglio, per quanto sante siano le opere, “e non entrare in giudizio, ecc”, e il proprio della misericordia è di combattere l’accidia invitando alle opere buone secondo questo passaggio: “La misericordia di Dio invita a penitenza” e quest’altro dei Niniviti: “facciamo penitenza per vedere se per caso non avrà pietà di noi”. E così tanto è falso che la misericordia autorizzi il rilassamento che è al contrario la qualità che lo combatte formalmente; in maniera che invece di dire: “se non vi fosse in Dio misericordia alcuna, bisognerebbe fare ogni tipo di sforzo per la virtù”, bisogna dire, al contrario, che è poiché vi è in Dio la misericordia che bisogna fare ogni genere di sforzo2Pascal, Pensées 648 LG / 497 Br..

Questo pensiero di Pascal meriterebbe una meditazione tutta per sé, specie in relazione a questo pontificato e alle sue tensioni intra-ecclesiali. Nessuna distrazione però, ora, dalla luce che porge alla realtà che costituisce tutto il senso e l’essenza della confessione: la misericordia. Pascal illustra la funzione economica (rispetto alla salvezza) delle qualità divine della misericordia e della giustizia. Facendolo inverte la funzione che abitualmente attribuiamo loro. Se c’è una qualità divina tradizionalmente pensata per combattere l’accidia – ovvero la mancanza di senso e perciò di decisione per il bene e le “cose dello Spirito” – è proprio la giustizia nella forma della retribuzione: chi non si pente e non fa il bene sarà punito. Viceversa la misericordia sembra principalmente pensata come antidoto all’orgoglio: bisognoso di misericordia usato come altro modo per dire “misero” a qualcuno (noi in primis).

Pascal invece pensa la funzione guaritrice delle due qualità divine all’inverso. La giustizia abbatte l’orgoglio in quanto nessuno è santo davanti al Santo: e questo è discorso ascoltato con frequenza. La misericordia invece è la qualità divina con la quale siamo guariti dall’accidia: proprio lei che – allora come oggi – è accusata di autorizzare il rilassamento. Qui lo spirito di finezza di Pascal coglie il cuore del senso cristiano della misericordia. La misericordia come qualità divina è una qualità operante e sua opera è precisamente dare all’uomo energia, senso e volontà di operare il bene ovvero di convertirsi, di cambiare sguardo e strada.

Questa illuminante visione della misericordia divina offre la sua luce anche al Sacramento della misericordia per eccellenza, la Confessione. L’accidia è, tra i vizi capitali, uno dei più terribili. L’accidia è resa abitualmente con il termine pigrizia, a livello di senso. Non è sbagliato, ma è pure qualcosa di più. Il pigro è colui che non agisce, che non tollera la fatica e il lavoro: l’accidioso non tollera le fatiche nella vita spirituale dell’uomo. La vita spirituale non è (soltanto) uno dei tanti ambiti della vita umana, ma indica invece il carattere e l’agire fondamentale e concreto di ciascuno rispetto al suo essere davanti a Dio (che sia in preghiera adorante o stia lavando i piatti). All’accidioso diventano oscuri e distorti i termini della vita spirituale, il proprio io e Dio. Non in senso teorico, ma nel sentire: con un’efficace metafora si può dire che il volto dell’io e il volto di Dio diventano opachi, se non proprio sfigurati.

L’uomo, noi – tu ed io – quando è nel peccato non è solo bisognoso di consegnare un peso che lo opprime come qualcosa di visibile e di chiaro. “Io ho commesso quest’azione sbagliata e quest’altra e ora ne chiedo perdono”. Questo momento di consapevolezza dev’esserci e c’è, dev’essere guidato da una presa di coscienza, da un confronto con una norma interiore e tuttavia trascendente (la coscienza formata) che giudica e chiama. E tuttavia la prima conseguenza del peccato è che l’uomo non sa più né chi sia né dove sia. Come per Adamo è necessario un intervento dall’esterno, una parola – dove sei? – che squarci l’umanità ripiegata su se stessa.

Ecco che la confessione dei peccati diventa, proprio per questo motivo, «la cosa più tremenda» ed insieme misura di misericordia. La confessione è tremenda perché contrasta con quel ripiegamento della carne su se stessa che è terreno e frutto del peccato. Essa contrasta anche con quella tremenda illusione di potersi fare giustizia da sé facendo giustizia su di sé, illusione e insieme tentazione: come può fare giustizia chi ha di sé una falsa immagine? Come può fare giustizia di sé chi nemmeno può avere un’idea chiara del suo peccato – davanti a Dio soltanto si può averla – e del suo peso? Disperare del perdono e disperarsi nell’ostinazione sono i poli estremi dello spirito della carne nel suo rapporto a Dio.

Proprio per questo la confessione è anche la misura di misericordia diretta precisamente contro la disperata chiusura dell’io. La confessione implica un movimento, un agire, che è anche uno spostamento fisico, un pellegrinaggio di ritorno. In particolare nella frenetica vita della contemporaneità confessarsi è preceduto da un dislocarsi che scardina luoghi e tempi abituali. Il momento più odioso e tremendo, le parole dette ad un altro uomo, di cui si vede il volto o almeno si sente la voce, risponde a questa impellente necessità e impellente passione. La necessità di ricevere luce sul proprio volto e su quello di Dio nello stesso tempo in cui il proprio volto e cuore sono fatti nuovi. La passione impellente di Dio di ridare un cuore nuovo e un nuovo rapporto con Lui.

La resistenza esistenziale alla confessione trova piena rispondenza nella resistenza “teologica” ovvero nel trovare ed esprimere il senso della forma pratica del Sacramento. Fornire appoggio teologico alla resistenza esistenziale alla confessione significa accettare, consapevolmente o meno, una visione ridotta del peccato e dell’uomo (insieme), riduzione dai molteplici aspetti:

  • Concepire il peccato come un carico, come un qualcosa di cui liberarsi ignorando la radice antropologica ovvero il suo innnestarsi nella fonte costitutiva di ogni essere umano: una relazione libera e aperta con Dio, con gli uomini e con il mondo;
  • Concepire al limite la relazione con Dio come ciò che aumenta il peso del debito (offendere il padre è più grave che offendere un estraneo) ignorando o sottovalutando che è nel suo essere davanti a Dio che l’uomo può realizzarsi fondandosi trasparente nella Potenza che lo ha posto;
  • Concepire l’uomo come essenzialmente non toccato dalle relazioni che ha con Dio e con gli altri uomini, come se egli fosse essenzialmente lo stesso, prima e dopo il peccato, prima e dopo le proprie libere scelte.

Per essere esauditi da Dio bisogna che l’esteriorità sia unita all’interiorità ovvero che ci si metta in ginocchio, si preghi con le labbra ecc., perché l’uomo orgoglioso che non ha voluto sottomettersi a Dio sia ora sottomesso alla creatura. Attendere il soccorso da questa esteriorità è essere superstiziosi, non volerlo unire all’interiorità significa essere superbi3Pascal, Pensées 732 LG / 250 Br..

La “resistenza” della confessione al sacerdote nella pratica sacramentale – anche nelle forme attenuate nelle quali oggi da secoli è vissuto – assume in questa luce un aspetto diverso. Il cammino verso il “confessore” – il dislocamento fisico e temporale suaccennato – è esso stesso atto di misericordia. La confessione nel segreto infatti coltiva l’illusione che l’uomo sappia da sé chi sia: non metafisicamente, ma qui e ora, nella sua storia. Coltiva anche l’illusione di avere da sé il senso del peccato quando tanto spesso ci si inganna: ci si culla in un dolce sentimento di nullità che non vede la radicalità del male e la necessità della scelta; o ci si tormenta con un’atroce auto-accusa, ossessiva e pedante, spesso concentrata su particolari.

Il giogo della confessione manifesta quindi il dono con il quale si manifesta e si fa esistenza un rinnovato senso della fede ed un autentico senso del peccato. Un rinnovato sensus fidei in una libertà che cerca Dio, ma il Dio di Gesù, il Padre, nel Figlio, il Dio fatto carne, nel pellegrinaggio (breve a volte) verso un uomo, stupendosi che «un figlio dell’uomo abbia, sulla terra, il potere di rimettere i peccati» (Mc 2, 10, Mt 9, 6). Un autentico senso del peccato perché solo nell’incontro con il Figlio si ottiene il volto autentico di Dio e, quindi, il nostro.

Note

Note
1 Kierkegaard, Tre Discorsi per la Comunione del Venerdì, III. La peccatrice.
2 Pascal, Pensées 648 LG / 497 Br.
3 Pascal, Pensées 732 LG / 250 Br.

2 commenti

  1. Per cogliere meglio quel “davanti” credo sia bene ricordare il n° 1424 del CCC: “In un senso profondo esso è anche una « confessione », riconoscimento e lode della santità di Dio e della sua misericordia verso l’uomo peccatore.” Adorazione, Lode ed esperienza di Misericordia, come viene detto citando anche Pascal. È infatti la Lode, rettamente intesa, che eccita alla caparra dello Spirito depositata nel cuore che spinge realmente a “contristazione”, “confessione” stando “davanti”, e a “collaborazione” alla spinta della Grazia a cambiare vita. E, non ultimo a “legarsi” con tutto il corpo mistico. Ricorda il CCC a proposito della seconda conversione nel n° 1428 “Ora, l’appello di Cristo alla conversione continua a risuonare nella vita dei cristiani. Questa seconda conversione è un impegno continuo per tutta la Chiesa che « comprende nel suo seno i peccatori » e che, « santa insieme e sempre bisognosa di purificazione, incessantemente si applica alla penitenza e al suo rinnovamento ».” Sebbene la confessione, dunque, è atto personale esso non è mai disgiunto da una comunione effettiva, nella Lode, con coloro che ci sono stati consegnati come “Volto”; a cominciare dal coniuge e dai figli.

  2. Articolo molto interessante.

    Si potrebbe aggiungere rispetto la visione fondamentalmente protestante della confessione “nel segreto”, “tra me e Dio”, come questa salti a piè pari misconoscendolo l’aspetto del peccato quale fonte di offesa-discomunione del peccatore rispetto la Comunità (comunità di Fratelli, comunione mistica fedele-Corpo di Cristo-Chiesa).

    Il peccato, qualunque peccato seppur in gradi diversi, interrompe la nostra comunione con Dio, la coabitazione dello spirito Santo in noi e di conseguenza – conseguenza inevitabile – la comunione con i Fratelli.

    In più il nostro peccato, interrompe il processo di Grazia del piano di Dio, che non è mai riservato al solo singolo fedele o individuo. Sebbene Dio nella Sua Onniscenza sa come porre rimedio ai nostri adulteri che interrompono questo flusso di Grazia.

    Da ciò è ben comprensibile come sia assolutamente consono che la Confessione che precede la Riconciliazione sia da farsi ad un altro uomo, nonché Fratello, nonché rappresentante e Ministro di quella Chiesa la cui integrità e sviluppo il nostro peccato a leso.

    Ciò spiega anche la prassi, già nell’articolo riportata, per cui nella Chiesa dei primi secoli, il peccato grave e pubblico, era una questione che riguardava l’intera Comunità Cristiana, dalla quale il peccatore veniva allontanato per un tempo e la sua riammissione alla Chiesa (che in realtà non era mai una “troncatura”. Le antiche chiese avevano un nartece https://it.wikipedia.org/wiki/Nartece da cui catecumeni e penitenti potevano comunque assistere alla Liturgia) era presieduta dal Vescovo ed era motivo di gioia e a cui partecipava tutta la Comunità (come già detto nell’articolo).

    Oggi il nartece rimane solo una sorta di atrio di ingresso nelle chiese più antiche, della sua funzione si è persa memoria, ma ciò che è più grave, si è smarrito il senso del peccato-rottura di Comunione con il nostro prossimo, partendo da coloro che ci sono più vicini (pure sarebbe sufficiente riandare al racconto del peccato di Adamo ed Eva per ritrovarne evidenti le immediate conseguenze).

    Un’ultima notazione sulla difficoltà alla confessione come primo passo verso la Riconciliazione (primo passo sarebbe riconoscere il proprio peccato, ma questo apre una diversa tematica), che mi permetto aggiungere a quelle già bene descritte: di nuovo ci troviamo di fronte al rifiuto “naturale” (di una naturalità ferita) dell’Uomo, di morire a se stesso.
    Il “peso della confessione”, quella cattolica, è il peso di accettare l’umiliazione del porsi di fronte all’altro, il sacerdote, in parte volendo mitigata dal classico confessionale che ci nasconde e nasconde alla vista. L’umiliarsi confessando appunto e non di rado, atti che sono di scandalo a noi i i stessi (figuriamoci agli altri se fossero pubblici).
    E’ passare per la “porta stretta”, è accettare di morire al nostro orgoglio, per poter risorgere al termine del Sacramento.

    In qualche misura è la stessa difficoltà che abbiamo tutti, tutti i giorni, nel chiedere perdono a chiunque.

Di’ cosa ne pensi