Il Pakistan è una bomba a orologeria islamica – intervista con Jean-François Colosimo

Jean-François Colosimo. ® Fabien Clairefond

Lo storico delle idee e delle religioni Jean-François Colosimo spiega perché la sorte di Asia Bibi scatena le passioni degli islamisti. La blasfemia occupa una posizione centrale nell’islam politico, in particolare in un paese dove la sharia si trova al centro del sistema giuridico.

di Eugénie Bastié

Eugénie Bastié – Come interpretare l’accanimento degli islamisti pakistani nei confronti di Asia Bibi?

Jean-François Colosimo. – Per definizione, l’Asia ci risulta più lontana del Medio Oriente. Non per questo costituisce un epicentro minore per le convulsioni del mondo musuilmano. Il Pakistan è una polveriera munita di fuoco atomico dove l’islamismo detta legge nel senso proprio del termine. Non controlla semplicemente le strade, ha incancrenito anche l’educazione, l’esercito, il governo. Il primo ministro, Imran Khan, dall’aria tanto moderna e liberale, si è fatto eleggere, nell’agosto 2018, con la promessa di rafforzare la sharia.

Khadim Hussain Rizvi, il capo del partito integralista Tehreek-e-Labbaik Pakistan, ha mostrato dove sta il vero potere mobilitando le folle contro la sentenza della Corte suprema che ha assolto Asia Bibi, invocando ad assassinare i giudici e incitando all’ammutinamento soldati e poliziotti. Dire no alla pressione dell’opinione pubblica mondiale equivale, per gli islamisti, a riarmare il jihad interiore contro le minoranze miscredenti e il jihad esteriore contro l’empio Occidente. Il problema è che fin dall’inizio, nella Repubblica islamica del Pakistan, nazionalismo e fondamentalismo sono andati a braccetto. Senza cessare di presentarsi come un paese moderno, alleato del mondo libero, nello stesso tempo il Pakistan non non ha mai smesso di giocare su due tavoli al punto da aver procurato una base d’appoggio ai talebani e un rifugio clandestino per Bin Laden.

Perché la questione della blasfemia riveste una tale importanza per l’islam politico?

Istanza antropologica all’intersezione tra il religioso e il politico, il blasfemo permette di sacralizzare l’unità trascendente del corpo sociale stabilendo dei divieti assoluti, la trasgressione dei quali si traduce nella morte fisica o civile. Lo aveva compreso l’imam Khomeyni appropriandosi, nel 1989, dell’affare Rushdie: risvegliare la Umma affinché si purifichi, entri nella lotta finale e converta il mondo, richiede di designare il nemico. Che per l’islamismo è universale. All’infuori di chi si sottomette alla sharia non vi sono che sacrileghi e apostati. Di conseguenza il terrore diventa, secondo un modello totalitario, un dovere dello Stato.

Qual è esattamente il ruolo della sharia in Pakistan e fino a che punto il regime è islamista?

Sono le due componenti essenziali del suo codice genetico. Il Pakistan nasce dal progetto ideologico formulato dall’indo-musulmano Mohammed Iqbal all’inizio del 20° secolo: l’islam, per emanciparsi e imporsi, deve rifondarsi attorno alla sua forza eminente che è di poter disporre di un corpo giuridico organico in grado di fondere l’ordine spirituale e quello temporale. Cioè la sharia. Ma per essere esercitata appieno occorre sradicare ogni eterogeneità. L’opposizione frontale delle due nazioni teorizzata dal suo discepolo, Ali Jinnah, conduce nel 1947 alla separazione dall’India, col suo corteo di massacri e di esodi etnico-religiosi. Nello stesso momento Maulana Maududi, l’emulo locale di Hassan el-Banna, il fondatore dei Fratelli musulmani, assegna al proprio partito, Jamaat-i-Islami, la missione di trasformare la nuova nazione nella «avanguardia della rivoluzione islamista mondiale» vivente non solamente sotto la sharia, ma anche attraverso la sharia e per la sharia.

Fin dalla sua creazione, il Pakistan rivendica costituzionalmente la sovranità di Allah. Il diritto civile si ispira alla Common Law dei colonizzatori britannici, ma a condizione che non contraddica la legge coranica. Di fatto il regime militare del generale Zia ul-Haq avvia, al volgere del 1980, una islamizzazione a tappe forzate del paese che si traduce, nei tribunali, nell’adozione delle pene previste dalla sharia, tra cui, ad esempio, la lapidazione per la donna adultera. Questo doppio arsenale giuridico permette così di ricorrere sia alla diffamazione, sia alla blasfemia per escludere e ridurre al nulla ogni differenza giudicata come deviante.

Che tipo di islam caratterizza il Pakistan?

Musulmani per il 95%, più del 75% dei pakistani sono sunniti e di tradizione hanafita: dominante in Asia, in apparenza liberale per essersi strutturata in un contesto culturale complesso, questa scuola giuridica pone per l’appunto una grande attenzione nell’arginare gli «infedeli».

Questa schiacciante maggioranza sunnita si suddivide in tre correnti maggiori: gli Ahl al-hadith, variante locale dal salafismo, per un quinto; i Deobandi, letteralisti e rigoristi, per un quarto; infine, per la metà, i Barelvi che si richiamano al sufismo, la qual cosa comporta certamente degli accenti mistici e pietistici ma che consiste innanzitutto nell’avvolgere la popolazione in una maglia ben serrata e vincolante di confraternite. Le loro rivalità interne sono fonte di problemi ricorrenti che vanno a intensificare la guerra civile latente, con tanto di attentati terroristi, col 15-20% di sciiti duodecimani, secondi per numero dopo l’Iran, e il cui bilancio ammonta a parecchie migliaia di morti negli ultimi vent’anni. È comunque l’islam politico che cementa le fazioni sunnite: l’influenza del wahhabismo saudita è in crescita, mettendo a profitto la massiccia delega dell’istruzione primaria a quelle scuole coraniche che sono le madrasse. Queste fazioni peraltro si mostrano unanimi quando si tratta di opprimere il 3% di induisti e di cristiani.

Qual è la situazione dei cristiani del Pakistan?

Quella dei perseguitati, di cui Asia Bibi non è che un esempio. Potremmo citare, per la sola annata 2012, Rimsha Masih, una adolescente di dodici anni, ritardata mentale, condannata a morte per avere, secondo un imam del suo quartiere, bruciato alcune pagine del Corano. Oppure Ryan Brian Patras, quattordici anni di età, accusato di aver bestemmiato il Profeta con un sms e incorso a questo titolo nella pena capitale. Alla fine entrambi potranno espatriare grazie all’intervento della Santa Sede. Così la folla preferisce procedere col linciaggio, l’ultimo caso in ordine di tempo è stato quello, nel 2015, di Nauman Masih, 14 anni, innaffiato con la benzina e bruciato vivo dai passanti perché portava una croce.

Sono stimati in molte centinaia all’anno gli stupri, i rapimenti, le conversioni forzate e le vendite come schiavi che devono subire i cristiani, e che rimangono impuniti perché coperti dal «codice d’onore».

Infine, le classi dirigenti sono particolarmente prese di mira: Shahbaz Bhatti, cattolico, membro del Partito del popolo pakistano che raccoglie l’opposizione laica, nominato nel 2008 ministro delle minoranze religiose, il 9 febbraio 2011 è stato abbattuto dal venticinque pallottole per il suo sostegno ad Asia Bibi.

I paesi occidentali sono all’altezza del compito di aiutare questa minoranza oppressa? Che potrebbero fare di più?

Il patto silenzioso che l’America ha stretto con l’islamismo sunnita contro il comunismo continua, dopo l’11 settembre 2001, a produrre i suoi effetti deleteri. La politica compiacente di Washington si applica a Islamabad come a Riyad. Bruxelles, Londra, Parigi seguono a ruota e si attengono a una patetica logica di interessi materiali a breve termine. Isoliamo l’Iran e esoneriamo Bin Salman. Evidenziamo i massacri in Sria, ignoriamo i bombardamenti in Yemen. Finiamo per occuparci di Asia Bibi sotto i riflettori dei media, ma stendiamo un velo sulle sue sorelle e sui suoi compatrioti, musulmani come cristiani, uccisi a colpi di pietra. Sono la nostra ipocrisia e la nostra viltà a lasciare libero corso al male.

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