Charlie, Alfie, Vincent… Neanche in Italia siamo al sicuro. Ecco perché

Mentre la “giustizia” inglese froda i diritti parentali dell’ennesima malcapitata coppia comune (Charlie, Isaiah ed Alfie non sarebbero stati condannati a morte, se fossero stati figli di Kate Middleton…), in Francia si apparecchia un ben peggiore assalto alla cultura giuridica e popolare europea, giacché alcune lobbies d’Oltralpe sembrano determinate ad affamare a morte Vincent Lambert per forzare le marce della politica sul tema eutanasia. Le Alpi non ci salveranno: già nella legge sul “biotestamento” sono stati inseriti i silenzi e le ambiguità che alla prima occasione “utile” permetteranno a quelle barbarie di infiltrarsi nel nostro ordinamento. Monica Boccardi ha speso nei mesi scorsi parole importanti: mi pare utile richiamarle ora.
Giovanni Marcotullio

di Monica Boccardi1Avvocato riminese, membro dei Giuristi per la Vita, militante del Popolo della Famiglia

Il Partito Democratico, nel rush finale di questa legislatura, dopo aver portato a casa le leggi anti-cattoliche sul divorzio breve e sul simil-matrimonio gay (unioni civili), ha approvato le DAT (Disposizioni anticipate di trattamento). Un nome che inganna, perché di fatto in Parlamento, anche se qualcuno cerca invano di negare, hanno spalancato le porte all’eutanasia passiva: in poche parole la morte per fame e per sete, dato che per la legge si possono interrompere l’idratazione e l’alimentazione artificiale che sono sostegni vitali. Abbiamo intervistato Monica Boccardi, avvocato di Rimini dei Giuristi per la Vita per scoprire i pericoli nascosti in questa nuova legge.

Sembrerà scontato, ma in tantissimi non conoscono il tema che stiamo trattando. Innanzitutto qual è la differenza tra accanimento terapeutico ed eutanasia?

Non sono una bioeticista, né un medico ma un semplice avvocato, quindi posso rispondere basandomi solo sulle mie conoscenze legali, sul buon senso e su ciò che ritengo essere la guida per ciascun cattolico che voglia rimanere tale, il Catechismo della Chiesa cattolica. Perciò la definizione che sto per dare non è universale, ma è frutto della mia personale elaborazione. Anche perché, se ci basiamo sullo stato attuale della bioetica, possiamo dire tutto e il contrario di tutto.
Per eutanasia intendo la morte del paziente, desiderata dallo stesso (o da chi per lui) e procurata con una condotta che abbia tale finalità. Pertanto, in primo luogo, posso distinguere due modi per attuare il fine ultimo dell’exitus: l’eutanasia attiva che consiste nella somministrazione di sostanze che causano il decesso del paziente e quella passiva che invece si esplica nel sospendere la somministrazione delle terapie che lo tengono in vita, ma in entrambi i casi il fine è provocare la morte del paziente, entro il più breve tempo possibile.
La rinuncia all’accanimento terapeutico si situa al confine con l’eutanasia passiva, perché consiste nel rifiuto del paziente (o di chi per lui) di continuare le terapie in corso, ma è considerata legittima dal Catechismo della Chiesa Cattolica, perché il suo scopo finale non è la morte del paziente, ma lasciare che la malattia faccia il suo corso senza contrastarla con effetti peggiori, accettando che non la si possa più impedire.

L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente.

Ciò che distingue l’eutanasia dalla rinuncia all’accanimento terapeutico, quindi, è solamente la volontà: nel primo caso si desidera la morte, nel secondo la si accetta come conseguenza inevitabile della malattia.

In molti, che si professano pure cattolici, dicono che si tratta di una legge sull’accanimento terapeutico e non sull’eutanasia. Perché questa confusione? Cosa dice in realtà questa legge?
L’apparenza non corrisponde alla sostanza. La legge va letta nella sua interezza e coordinando i vari articoli e commi che la compongono. Il combinato disposto di alcune sue parti consente, anche contro la volontà del paziente, di sottoporlo ad eutanasia passiva per sospensione della nutrizione e dell’idratazione che, sconsideratamente (o volutamente), sono esplicitamente definite “trattamenti sanitari” dal legislatore, cosicché ne è consentita, anzi resa obbligatoria in taluni casi, la sospensione.
In particolare mi riferisco a questi disposti:

  1. 
Art. 1 comma 5: «Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici.”
Art. 1 comma 6: “Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali».
  2. Art. 2 comma 2: «Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati»,
  3. 
Art 4 comma 5: «Fermo restando quanto previsto dal comma 6 dell’articolo 1, il medico è tenuto al rispetto delle DAT, le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente…»

Il primo punto, a mio avviso, gravissimo, è la sostanziale equiparazione e confusione che la legge fa tra “trattamenti sanitari” e “terapie”, che dovrebbero essere due cose del tutto differenti. 
Pur non essendo medico, in quanto avvocato, posso dire che è fondamentale sapere su che cosa si sta legiferando. Equiparare i primi alle seconde significa confondere le acque.

Definire trattamenti sanitari la nutrizione e l’idratazione artificiale, li equipara sostanzialmente alle terapie vere e proprie, cioè all’insieme dei metodi e delle pratiche terapeutiche per ripristinare, mantenere o migliorare lo stato di salute, mentre invece si tratta dei mezzi per l’apporto non di medicinali, ma del mero sostentamento necessario alla vita.

Poiché nella legge è previsto il divieto di “trattamenti sanitari contrari a norme di legge” insieme all’obbligo di astensione dai “trattamenti inutili o sproporzionati”, in determinate circostanze, questa equiparazione permette di considerare (ma per finta e tra poco vedremo perché) accanimento terapeutico anche la somministrazione di cibo e acqua. 
Va però considerato che la loro sospensione non comporta il lasciar fare il suo corso alla malattia, ma bensì porta al decesso del paziente per fame e per sete.
 Il paziente al quale vengono sospese nutrizione e idratazione infatti non muore a causa del cancro, ad esempio, ma per mancanza del sostentamento vitale.

Il paziente insomma muore per una causa diversa dalla patologia, una causa che deriva da una omissione che non riguarda i medicinali o le terapie specifiche per la sua malattia (ad esempio la sospensione della dialisi porta al decesso perché non sostituendo la filtrazione renale col macchinario, il corpo si intossica, si riempie di liquidi e alla fine gli organi collassano).

Questo distinguo è fondamentale e se non lo si accetta, ovviamente, il ragionamento successivo non ha più senso.
 Quindi dobbiamo partire da un dato di certezza condiviso, che cioè la sospensione di nutrizione e idratazione non influisce sul decorso della malattia ma si sostituisce ad esso, portando alla morte del paziente per fame e/o per sete.

Poiché la legge sulle DAT include sostanzialmente tra le terapie la nutrizione e l’idratazione, vieta la somministrazione di cure inutili ai malati con prognosi infausta a breve termine (peraltro senza stabilire in che cosa consista tale brevità di termine), oltre a stabilire che il paziente non può pretendere terapie vietate dalla legge, viene di fatto vietato ai medici di somministrare idratazione e nutrizione ai pazienti terminali, visto che non hanno alcuna possibilità di guarirlo.

Un suo post su Facebook, pubblicato qualche settimana fa, è stato molto condiviso. Quali sono i maggiori pericoli nascosti in questa legge che proprio lei hai sollevato?

Il combinato disposto di questi quattro commi permetterà ai medici di sospendere al paziente i “trattamenti sanitari” di nutrizione e idratazione artificiale, qualora ritengano infausta la prognosi e inutili i trattamenti. 
E, nel caso in cui fossero invece di contrario avviso, consentirebbe ai parenti, allo stato, ai giudici di obbligarli a sospendere i trattamenti, vietando persino l’esercizio dell’obiezione di coscienza, che non è prevista.

Questa interpretazione, che è del tutto aderente alla lettera della legge, ci permette di affermare due cose.

  1. Che la sospensione di nutrizione e idratazione, che non sono terapie nel vero senso della parola, comporta non la cessazione di un accanimento terapeutico, ma una forma di eutanasia passiva, in quanto il malato cui vengano sospese morirà non a causa della sua malattia, ma per una causa differente, cioè di fame e/o di sete.
  2. Che questa forma di eutanasia passiva potrà/dovrà essere applicata anche agli ammalati che non abbiano compilato alcuna DAT chiedendo la sospensione delle terapie comportanti accanimento terapeutico, o addirittura al paziente che abbia richiesto con le DAT (o che richieda personalmente, se cosciente) di non cessare alcuna terapia, nemmeno di tale natura.
 Infatti il comma 5 dell’articolo 6, laddove prevede che il medico possa disattendere le DAT “qualora appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente”, concede la possibilità di evitare la sospensione delle cure nel caso in cui, nel tempo trascorso tra la compilazione, ad esempio, e il momento di decidere, siano sorte nuove terapie maggiormente efficaci. Ma può ben essere letto anche nel senso contrario, cioè che il medico possa (in accordo con il fiduciario ove sia stato nominato, ma anche da solo, se non vi sia alcun fiduciario, ovvero grazie a un giudice in caso di disaccordo) stabilire che la DAT del paziente che richieda di continuare le cure ad oltranza sia palesemente incongrua. E decidere dunque di sospendere anche la nutrizione e l’idratazione, sottoponendo il paziente ad eutanasia passiva per morte di fame e/o di sete, totalmente contro la sua volontà.

Riprendo a questo punto il concetto, sopra citato, di prognosi infausta a breve termine, che la legge non definisce in alcun modo. 
Che cosa si intende per breve termine, in assenza di una sua definizione normativa?
 Non possiamo saperlo e dunque la sua definizione è lasciata alla soggettività del medico chiamato ad esprimere la prognosi. A ciò si aggiunge il fatto che la prognosi stessa non è qualcosa di assolutamente certo, ma è basata su una valutazione soggettiva, esperienziale, se vogliamo, ma del tutto aleatoria (cioè impossibile da definire con certezza rispetto al suo accadere, soprattutto in relazione al tempo, al quando, accadrà).

Per cercare di spiegarmi meglio: ciascuno di noi porta con sé una prognosi infausta, poiché siamo certi che moriremo. Non sappiamo quando, né come, ma sappiamo che accadrà.

Rispetto al malato, in presenza di determinate patologie, i medici sono in grado di predire che ciò accadrà in un tempo valutabile in base alla media dei tempi di sopravvivenza dei malati di quella patologia. 
Ma in ciascun caso specifico vi sono variabili (la resistenza del fisico, la virulenza della malattia, il funzionamento delle terapie ecc.) che possono modificare in maniera consistente i tempi di sopravvivenza, come pure la qualità della vita durante tali tempi.

Perciò, in ipotesi, possiamo dire che un malato terminale di tumore potrebbe avere ancora 1, 2, o più mesi di vita, ma non possiamo sapere con certezza se per caso non sopravvivrà invece addirittura sei mesi o un anno ancora.
 Senza contare il fatto che, se siamo cattolici, crediamo anche nella possibilità che la guarigione, contro ogni ragionevolezza scientifica, potrebbe sopraggiungere all’improvviso, per un miracolo.
 Ebbene, questa legge dà la possibilità al medico di decidere che l’ammalato, che potrebbe vivere ancora mesi, o anni, o addirittura guarire miracolosamente, ha invece una prognosi infausta a breve termine e quindi è candidato alla sospensione delle terapie anche di idratazione e nutrizione. 
Per non parlare del fatto che la medicina non è una scienza esatta e che l’errore è sempre possibile, cosicché i medici possono sbagliare diagnosi e prognosi e condannare a morte certa per fame e sete un paziente che sarebbe sopravvissuto.

Con questa legge nel nostro paese potrebbero ripetersi casi come quello del barbaro assassinio nei confronti del piccolo Charlie Gard?

In Italia si è già verificato un caso in tutto simile: Eluana Englaro è stata lasciata morire di fame e di sete, tra sofferenze inenarrabili, dopo una lunga battaglia legale, in cui è stato stabilito il precedente giudiziale di questa legge: nutrizione e idratazione sarebbero terapie e la loro somministrazione può essere considerata accanimento terapeutico. Io credo che chiunque con un minimo di buon senso possa rendersi conto che far mancare acqua e cibo ad un paziente non può considerarsi sospensione di terapia, ma rappresenta la sospensione del sostentamento vitale indispensabile ed ineludibile, che dovrebbe essere obbligatorio garantire a tutti.

La storia di Charlie, che si sta ripetendo in Gran Bretagna con frequenza allarmante, ci insegna che si è passati molto rapidamente dal rifiuto dell’accanimento terapeutico al considerare la morte il “best interest” del paziente, come è stato definito nel caso di Charlie. Ma come si fa a ritenere che il miglior interesse sia morire? Soprattutto in casi nei quali non vi è nemmeno sofferenza.
 E mi aspetto che, pietosamente, si cerchi di introdurre al più presto anche l’eutanasia attiva in Italia, se le forze politiche genitrici della legge sulle DAT avranno di nuovo la maggioranza in parlamento. E devo ammettere che appare più misericordiosa una rapida iniezione di veleno, rispetto alla possibilità di morire di sete e di fame dopo giorni di agonia durante i quali nemmeno le terapie palliative possono più funzionare.

Come contrastare questa legge e costruire una possibilità concreta per abolirla nella prossima legislatura? Servono tanti numeri e i “progressisti” sono forti.

È molto difficile dare una risposta sensata. Tantissimi, anche non cattolici, non si rendono conto di mal interpretare le leggi, queste ma anche tante altre, e di essere complici di una deriva antiumana che ha ormai preso piede in tanti ambiti sociali. 
Le finestre di Overton sui temi che coinvolgono i principi non negoziabili sono ormai diventate portoni, dopo decenni nei quali i messaggi passati da tv, giornali, media hanno abituato l’opinione pubblica a scollegare la morale comune e l’etica dalla gestione della cosa pubblica, come dall’economia e dal lavoro.

Credo che sarebbe necessario ripartire dall’educazione delle persone all’onestà ed alla vera empatia per l’altro. Oggi ci si riempie la bocca di “rispetto” per l’altro, che però, nei fatti, è solamente disinteresse e indifferenza per il prossimo. 
Credo che le prossime elezioni politiche siano l’occasione per sbattere la porta in faccia all’antiumanesimo delle forze politiche tradizionali e dare una risposta forte che renda palese la vera volontà del popolo. Come è accaduto con il referendum sarebbe necessario riuscire a convergere su chi garantisce la difesa della vita, della famiglia, dell’educazione senza se e senza ma. Però occorre coraggio, perché bisogna rischiare per trasformare in voto utile una scelta controcorrente, rifiutando di sostenere i partiti che hanno votato questa legge, ma anche quelli che ne hanno resa possibile l’approvazione con il loro liberalismo laicista negli ultimi decenni. Di sicuro l’astensione non è il modo giusto per contrastare questa deriva.

Note

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1 Avvocato riminese, membro dei Giuristi per la Vita, militante del Popolo della Famiglia

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