Chiesa e donne: Guarisca Arrigoni (altro che “vescove”!)

Guarisca aveva pensato al buon funzionamento dell’istituzione e per questo si era rivolta al duca di Milano affermando di avere «fatto costruire un Hospitale nella medesima Valle ad onore e sotto la protezione della Santa Trinità, il quale ha delle entrate per mantenere alcuni poveri che lo abitano» e chiedendogli la facoltà di inviare quale, diremmo oggi, revisore dei conti ed amministratore dell’Hospitale padre Guido da Piossasco, residente nel convento di Sant’Antonio dove anch’ella viveva. Domandava la «grazie speciale che fosse lecito e possibile nominare e costituire quale cappellano» della comunità frate Guido, in modo che «possa provvedere al servizio della cappella, alla vita e all’edificio del medesimo Hospitale e possa andare e venire, a discrezione della supplicante, per visitare il detto Hospitale, controllarne i conti e riferire alla medesima». Il Visconti le rispose il 21 luglio con decreto ducale (“Filippo Maria Anglo, Duca di Milano, Conte di Pavia e Angera, Signore di Genova. Abbiamo ricevuto la supplica della religiosa e devota Donna Guarisca Arrigoni della Valsassina”), riprodotto nel testamento di Guarisca, nel quale acconsentiva alla “pia ed onesta richiesta dell’istante” e concedeva
l’opportuna licenza per mandare, a suo piacimento, il frate Guido, o un altro frate o sacerdote a lei graditi, a visitare l’Hospitale della Santa Trinità per assumere le opportune informazioni riguardanti il suo governo, le entrate e le uscite, e per condurre a termine tutte le altre commissioni a lui affidate dalla postulante; inoltre è permesso allo stesso frate Guido, o ad un altro frate da deputarsi, andare al detto Hospitale, fermarsi, ritornare una o più volte a beneplacito della medesima richiedente.
Data in Milano il 21 luglio 1436.
Ottenuta l’autorizzazione del Visconti, Guarisca procedette alla nomina di padre Guido quale cappellano dell’Hospitale ordinando che andasse «a vivere presso la predetta Chiesa e Hospitale e a finire la sua vita presso detto Hospitale per celebrare ogni giorno la Messa nella chiesetta del medesimo». Ella assegnò a padre Guido il compito di
reggere e governare l’Hospitale, di percepire, raccogliere e tenere tutti e i singoli frutti, redditi e proventi di detto Hospitale cosicché non si consumi il loro capitale ma soltanto il loro reddito e ciò a beneficio e ad incremento del detto Hospitale soltanto, poiché di quei beni nulla spetta al detto frate Guido, in qualità di cappellano, se non l’abitazione, il vestito e il vitto.
Nominato il cappellano e rettore della sua opera, Guarisca si preoccupò della conservazione del patrimonio lasciato al Cantello ed ordinò che
frate Guido o un altro che ne faccia le veci, esegua, o faccia eseguire, ogni anno, la vigilia dell’Ascensione di Nostro Signore Gesù Cristo, l’inventario di tutti e singoli beni del predetto Ospizio e dei beni da me lasciati e donati, affinché detti miei beni non siano inavvertitamente consumati e spariscano senza che non si possa, ogni anno, avere cognizione del loro stato.
Allo scopo di sovrintendere alle operazioni di inventario e di revisione annuale dei conti condotte da padre Guido, Guarisca nominò suoi «messi, nunzi, procuratori, governanti e regolatori di tutti i miei beni predetti» suo fratello Pietro ed altri tre suoi fidati amici membri del Consiglio della Valsassina. Prevedeva poi che nel caso in cui
frate Guido non andasse e non volesse fermarsi presso detto Ospizio, loro quattro soltanto nominino un altro frate o prete quale suo successore e agiscano con lui come ho ordinato di fare col detto frate Guido. Qualora i quattro deputati sopraricordati non volessero accettare l’incarico, oppure alla loro morte, la Comunità e gli uomini della Valsassina costituiscano e deputino altre quattro persone della stessa Comunità e Consiglio della Valle medesima, che godano buona reputazione, siano di retta conoscenza, di buona opinione e fama ed abbiano convinzioni religiose.
Il suo pensiero tornava costantemente ai bisognosi:
Se sopravanzerà qualcosa alle spese necessarie la si distribuisca ai poveri, ai pellegrini, agli infermi ed agli altri miserabili che si troveranno nel detto Hospitale. Se non vi saranno o non avranno bisogno di tale elargizione, il sovrappiù si converta a beneficio di tale Hospitale al fine di poterlo ampliare.
Nel testamento Guarisca passava poi ad elencare tutte le proprietà costituenti il suo ingente patrimonio immobiliare (all’Hospitale ed alla Chiesa con i terreni su cui sorgevano si aggiungevano una decina di appezzamenti, oltre che mobilio, quadri, arredi sacri e suppellettili varie), lasciato in eredità alla «Comunità ed agli uomini della Valsassina», istituiva una serie di legati ed ordinava a frate Guido ed ai suoi successori di celebrare annualmente nella chiesa di Santa Maria al Cantello una messa in suffragio suo e dei suoi parenti defunti.
Guarisca si dimostrò munifica anche nei confronti dei poveri che non vivevano nella sua casa. Stabilì, infatti, che alla vigilia della festa di Sant’Antonio Abate ed a quella dell’Assunzione di Maria si provvedesse alla distribuzione del pane per i poveri valsassinesi:
Si facciano due staia di pane di frumento [un gesto molto generoso in un’epoca in cui il cosiddetto pane bianco era riservato alle classi nobiliari ed agiate mentre la maggioranza della popolazione si nutriva di pane di miglio e segale] da distribuire ai poveri della Comunità di Valsassina.
Guarisca poi dispose che padre Guido e sua nipote Antonia Arrigoni, che chiamava a succederle quale superiora del Consortium, rivedessero mensilmente i conti dell’amministrazione.
Il testamento si chiudeva con parole ardenti di quell’amore verso Dio che l’aveva spinta a dedicare la sua vita alla cura dei poveri e dei bisognosi:
Essi [i membri del Consortium] dovranno avere cura di regolare e governare l’Hospitale in modo tale che i poveri, i pellegrini e gli infermi vi siano sempre bene accolti e trattati, poiché è per essi, per l’amore di Dio e per venerazione al Beato Antonio che fu edificato l’ospizio e per loro si vuole perpetuato. Così voglio, stabilisco, ordino e comando per amore di Dio e per devozione al beatissimo nostro patrono Sant’Antonio, il cui nome ho sempre desiderato di far conoscere, divulgare ed amare. Se taluni attentassero anche in piccola parte a questa mia buona ed ultima volontà, io aggravo le loro coscienze e li metto sotto il giudizio e la sentenza del predetto Sant’Antonio, sotto il cui nome e protezione l’Hospitale fu fabbricato, il quale, come premierà i benefattori, così castigherà i malfattori.
Ella invitava ogni persona proba della Valsassina a favorire la sua opera «facendo del bene, porgendo mani benefiche alla Chiesa ed all’Hospitale di Concenedo per lucrare l’Indulgenza». La natura benemerita dell’opera di Guarisca fu ancora una volta riconosciuta dalla Chiesa ambrosiana, che non solo l’aveva sostenuta all’atto della fondazione dell’Hospitale ma che non le fece mancare il suo favore anche in quest’ultima fase. L’arcivescovo di Milano Francesco Piccolpasso, infatti, in apposita bolla datata 12 agosto 1436 stabilì che,
rilevata la generosità di Donna Guarisca degli Arrigoni nel fondare un Hospitale al quale convengono spesso poveri e e pellegrini, noi, intenti a tutte le opere che sanno di pietà, confidando nella misericordia di Dio Onnipotente, nelle preghiere e nei meriti dei Santi Apostoli Pietro e Paolo e di Sant’Ambrogio nostro patrono, concediamo l’indulgenza di quaranta giorni a tutti coloro che veramente pentiti e confessati daranno all’Hospitale predetto una parte dei loro beni, affinché quivi possa estendersi sempre più il beneficio dell’ospitalità. A coloro che poi visiteranno devotamente la detta chiesa dell’Hospitale nei giorni di domenica e nelle solennità di Natale, Circoncisione, Epifania, Pasqua, nelle feste dedicata a Santa Maria Vergine, a San Giovanni Battista ed a Sant’Antonio concediamo la medesima indulgenza.
Milano, 12 agosto 1436, indizione XIV.
Con quest’ultimo atto pubblico e solenne Guarisca Arrigoni avrebbe dovuto congedarsi definitivamente per dedicarsi alla vita monastica tra le mura di una piccola cella all’ombra della chiesa dedicata al santo cui era tanto legata, votandosi a Dio in stretta clausura fino alla morte.
In realtà la Arrigoni avrebbe ancora svolto un ruolo significativo, questa volta di natura prettamente politica, aiutando la sua famiglia provata da un lungo esilio.

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