L’Avvento è roba da grandi: ce lo fanno capire i bambini

Non avevo mai visto un calendario dell’avvento, io, finché non li portò per i miei figli dall’Inghilterra mio cognato inglese, di ritorno da una visita ai suoi genitori nel mese di novembre, svariati anni or sono. Qua, nella nebbia padana sperduta in mezzo alla campagna, lontano dai negozi sbarluccicanti del centro e pure dai supermercati più attrezzati e forniti, non si erano ancora visti quei vassoi di cioccolatini incartati in un bustone di cartoncino con le finestrelle numerate e tanti disegnini a tema natalizio sopra.

Ci portò questi A4 spessi un centimetro, spacciandoceli per usanze inglesi. Io li girai e li rigirai senza capire a che accidenti servissero: i numeri erano pure sparpagliati, cosa che mi procurava un sommo fastidio, non riuscendo ad associare l’idea ordinata di un calendario a quell’esplosione di colori con numerelli sparsi che si confondevano tra le figure.

«Ogni giorno tu apri una finestra», ci disse con il suo accento inglese. I bambini saltellarono entusiasti: l’attesa era premiata ogni mattina con un cioccolatino, l’avvento non era più tensione indeterminata verso l’agognato Natale, ma un tempo scandito con chiarezza e qualche dolcezza.

Da allora ogni anno ci tocca il rito dei calendari farciti, anche se, alla prova dei fatti, l’entusiasmo dura meno dell’avvento: i cioccolatini hanno tutti lo stesso sapore, ogni giorno più prevedibile, e già al 15 del mese qualcuno comincia a saltare l’appuntamento mattutino dell’apertura, per distratto disinteresse.

Poi c’è il recupero, e per riallinearsi ai fratelli, si aprono tre finestre alla volta e i cioccolatini finiscono in una scatola apposita, da cui andare ad attingere nei momenti di magra (tipo a fine settimana quando la scorta di dolciumi e merendine varie volge al termine in uno scenario da carestia apocalittica che stringe alla gola all’ora della merenda pomeridiana).

Evidentemente 24 finestrelle sono un po’ troppe per mantenere desta l’attenzione sul rito, almeno per un bambino. Oppure la consolazione del cioccolatino non regge il confronto con le aspettative del Natale.

In realtà l’idea del conto alla rovescia in famiglia era già stata sperimentata, sebbene in un’altra occasione, una specie di avvento personale.

Quando la maggiore aveva solo tre anni, mio marito dovette assentarsi da casa per lavoro per ben dieci giorni. Mia figlia era attanagliata dalla nostalgia. Allora, per dare una misura a quel tempo che scorreva così lento e sul quale lei non poteva fare nulla, disegnammo su un foglio l’impronta di due mani e ogni giorno coloravamo un dito. Quando le dita fossero diventate tutte variopinte, sarebbe tornato papà. Era un colorare uggioso, però, addolorato: le dita ancora bianche segnavano un’inequivocabile distanza dal momento agognato, non poteva nemmeno più domandare “quanti giorni mancano?” con la speranza di aver perso il conto e che fossero in realtà un po’ meno di quelli che credeva lei. Anche l’ignoranza e l’illusione sono alleate non di poco conto per sopportare un’attesa.

Al quarto dito, poi, la crisi: per via del fuso orario di separazione, papà chiamava alla mattina e un giorno, per un imprevisto, purtroppo non chiamò, tardando alcune ore all’appuntamento telefonico.

La piccola si arricciò in un mutismo piccato. Le chiesi cosa avesse e dopo non poche moine, si arrese a confidarmi la sua istintiva paura: forse papà non aveva chiamato perché era morto!

Figlia melodrammatica, non c’è che dire. Eppure o una persona amata c’è, o non c’è: questa è una piccola grande verità assiomatica così spesso confusa in un mare di poesia da baci perugina, per mitigarne la ruvida durezza. Se c’è, ti chiama. Se non ti chiama, non c’è, è come morta. Adesso, in questo momento in cui io attendo la tua voce e quella manca, tu sei ancora, mio amato bene?

I bambini non sanno aspettare, la frustrazione che provano per il procrastinare della soddisfazione di un desiderio, materiale o psicologico, è intollerabile, essi vivono un presente assolutizzato in un’eternità che si espande come la detonazione di una bomba atomica in tutte le direzioni e si mangia il passato, con le sue esperienze (papà chiama tutti i giorni) e il futuro (ma non chiamerà mai più).

Due ore dopo, ecco la voce! Ma lei, ferita mortalmente da quel ritardo, non volle parlarci. Tu hai tardato! Perché? Perché non hai provato il mio stesso dolore, il mio stesso desiderio, che conta le ore, sfoglia la margherita dei minuti che trascorrono, fino all’appuntamento che mitiga la nostra separazione forzata? Perché non mi desideri come io desidero te?

Tre anni sono pochi per essere comprensivi, e sono abbastanza per essere gelosi, anche degli imprevisti.

Da quella mattina, la mia piccola donna cocciuta si negò ostinatamente il conforto di quella voce che desiderava così ardentemente: io parlavo al telefono e lei continuava a giocherellare sul tappeto, aguzzando le orecchie con aria finto-distratta, da vera prima donna. Tra una telefonata e l’altra, continuava a sostenere che comunque forse nel frattempo papà era morto: quella paura, provata così improvvisa e violenta, non riusciva più ad abbandonarla e lei non si fidava più. Aveva deciso che non voleva più essere delusa, che l’unico modo per essere certa di non restare di nuovo trafitta dal dolore era non illudersi, prepararsi al peggio, abituarsi all’idea che il suo papà non sarebbe tornato.

Sono stati dieci giorni lunghissimi, ma sono passati. E quando si è aperta la porta di sotto, lei si è fiondata fuori sulle scale, buttandosi tra le braccia di quel padre che aveva tanto atteso, e volutamente evitato per l’eccessivo peso che la lontananza aveva posato su di lei. Mentre affondava nel suo maglione, la valigia, sfuggita di mano, rotolava giù dalle scale con leggiadri rimbalzi, come nella scena de “gli intoccabili” dove la carrozzina scende giù dalle scale a rallentatore: su ogni gradino si frantumava con un tonfo la paura di essere rimasta sola e abbandonata.

Mi piacerebbe dire che son cose da bambini, ma mi rendo conto che io faccio ancora così, esattamente come lei a tre anni: i contentini che distraggono non mitigano l’attesa dell’amore, mi sembra che funzioni di più l’illusione, l’ignoranza, la speranza indistinta, oppure, al contrario, la sepoltura coatta e forzata delle aspettative.

Quante volte ci comportiamo così con Dio! Quante volte ricopriamo di polvere e fango il dolore dell’attesa del compimento della nostra vita, gridando “Dio è morto!”, perché non sopportiamo il peso dell’amore, che ci scortica come bambini senza il papà, annerisce di pessimismo le nostre giornate, appesantisce di dolore le nostre vite. Quel desiderio cocente, bruciante e assoluto, di un senso vivido e vivo, di un volto concreto che ci dia significato e risponda ai nostri interrogativi, toglie il respiro.

Attendere: è un’arte difficile, un’attività per niente passiva, una palestra spirituale da eroi. Attendere nella speranza, attendere nella gioia, attendere nella fede. Anche perché Dio non manca gli appuntamenti, siamo noi che spesso non ci presentiamo.

E allora in questo avvento, rispolvero uno dei gospel che preferisco: “Operator”.

La preghiera è il numero, la fede è la connessione, il paradiso è la strada e Gesù è il suo nome: per favore, centralino, passami Gesù sulla linea, sto chiamando dal mio cuore.

Operator
Information
Give me Jesus on the line
Operator
Information
I’d like to speak to a friend of mine
Oh prayer is the number
Faith is the exchange
Heaven is the street
And Jesus is his name
Operator
Information
Please give me Jesus on the line

Operator
Information
Won’t you tell me why
To take it is so long
Operator
Information
Don’t try to tell me
What number to call
My mother used this number
When I was very small
And everytime she dialed it
She always got ‘t call the
Operator
Information
Please give me Jesus on the line

Operator
Information
Please hurry if you can
Oh Operator
Information
Please connect me
With the man
Don’t worry ’bout the money
You know I will pay the charge
Just give me on the line
I’m callin’ from my heart
Operator
Information
Please give me Jesus on the line
Please give me Jesus on the line.

Centralino
Informazioni
Dammi Gesù sulla linea
Centralino
Informazioni
Vorrei parlare con un mio amico
Oh, la preghiera è il numero
La fede è la connessione
Il cielo è la strada
E Gesù è il suo nome
Centralino
Informazioni
Per favore dammi Gesù sulla linea

Centralino
Informazioni
Non vuoi dirmi perché
Ci vuole così tanto
Centralino
Informazioni
Non provare a dirmi
Che numero chiamare
Mia madre usava questo numero
Quando ero molto piccolo
E ogni volta che lo componeva
Ha sempre chiamato il
Centralino
Informazioni
Per favore dammi Gesù sulla linea

Centralino
Informazioni
Per favore fai presto se puoi
Centralino
Informazioni
Per favore mettimi in contatto
Con l’uomo
Non preoccuparti del denaro
Sai che pagherò il costo
Dammi solo la linea
Sto chiamando dal mio cuore
Centralino
Informazioni
Per favore dammi Gesù sulla linea
Per favore dammi Gesù sulla linea.

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