Quando una madre deve morire

È morta una madre: tumore maligno e malvagio, al seno. Elisa, 40 anni, lascia una bambina di un anno e il marito Alessio, sposato appena il 12 agosto scorso, con un anticipo sul programma, perché il male che la divorava non le avrebbe lasciato più tempo.

E mentre la morte si avvicinava con incedere sicuro e regolare, Elisa ha potuto radunare i suoi pensieri attorno agli affetti più cari e lasciare un testamento, soprattutto per la figlioletta, troppo piccola ora per poter comprendere il suo affetto, per poter serbare a lungo un ricordo del suo abbraccio.

Così Elisa ha avuto un’idea: ha comprato 18 regali per la figlia, uno per ogni compleanno, fino alla maggiore età, in modo da poter continuare a farle sentire la sua presenza anche quando non ci sarebbe stata più.

Li custodirà Alessio, rimasto sentinella in questa vita a fare la guardia ad un amore che avrebbe voluto essere eterno e che la malattia ha troppo presto depauperato della grande consolazione della presenza fisica.

Ho guardato il profilo facebook di Alessio: trabocca di condoglianze, di messaggi carichi di commozione, di affetto di amici e sconosciuti, rimasti colpiti da questa storia che, per le strane leggi del web, ha avuto così tanta eco sui social, creando un’oda lunga di emozione collettiva.

Sì, perché la morte che separa gli affetti è da tutti avvertita come un’atrocità e vorremmo avere la ricetta in tasca per poterci difendere in simili frangenti, vorremmo sapere come si fa a strappare qualche briciola di eternità per questi amori che reclamano più tempo di quello che è loro concesso, pretendono ancora vita.

L’idea di Elisa è parsa brillante a tanti: il tempo scorrerà, la figlia crescerà, e ad ogni compleanno riscoprirà l’amore della madre, morta ma presente, sicché sembrerà che sia ancora lì con lei.

Ma è davvero così?

Mi piacerebbe, ma no, non è così. Il tempo scorre come un trattore a cingoli su un campo di morbida terra, spianando i dossi precedenti e lasciando nuovi solchi per nuove semine. La memoria trattiene istantanee sfocate, ogni giorno un po’ ricolorate, rimodellate, demolite e ricostruite, attorno agli eventi del presente, che ci assorbono e ci rapiscono. Il nostro presente è l’unico tempo che abbiamo.

Chi muore non resta. Restano alcuni ricordi, all’inizio vividi, poi sempre più tenui. Resta il vuoto che quella persona amata colmava, restano i bisogni a cui rispondeva, resta il nostro amore sospeso senza più qualcuno su cui posarsi. Non possiamo controllare tutto ciò, non ne abbiamo il potere.

Si leggono sul web bellissime poesie, traboccanti di “sarai sempre con me”, ma sono solo desideri.

Sono troppo cruda? Sono crudele e cinica nel dire ciò?

Permettetemi di spiegare, almeno un po’, come il mio realismo sia dolcissimo e rassicurante assai più di questo sentimentalismo piangente.

Anni fa lessi la biografia di San Giovanni Bosco: sua madre era una santa donna davvero, di quelle che viveva col rosario tra le mani e sul cuore. Quando il marito se ne andò in due giorni, per una polmonite fulminante, gli chiuse gli occhi con la mano e uscì dalla stanza. Il figlio ancora assai piccolo l’attendeva fuori e le chiese “posso vedere mio padre?” e lei rispose “un padre non ce l’hai più”.

Quando lessi questo passaggio, trasalii: era morto da due minuti e questa madre non si concedeva neanche un attimo di illusione, né lo concedeva al figlio. Subito la realtà sbattuta in faccia brutale, senza alcun contentino sentimentalista, senza qualche istante di abbraccio piangente alla salma ancora calda, senza suggerire al figlio di salutare il padre con una carezza. Non c’era più nessuno da salutare. Fine.

Ma per questa donna il marito non era più lì, e non era più marito e non era più padre: era un’anima di Dio. Si affidò subito al conforto caldo e abbondante della preghiera, andando a mendicare consolazione nell’unico posto dove sapeva che l’avrebbe ricevuta: Dio stesso.

C’è tanto amore nel desiderio (e nel tentativo) di trattenere qualcuno con noi, o di lasciare qualcosa di sé, come un testamento spirituale, c’è chi si sente chiamato a farlo, chi ha qualche cosa di importante da dire, da far tramandare.

Ma c’è anche tanto amore nel lasciar andare e lasciarsi andare via, senza voltarsi indietro, nella consapevolezza che niente è sotto il nostro controllo e se Dio ci toglie chi amiamo, non ci lascerà senza un nuovo cocente amore con cui tenere caldo il cuore.

Se io dovessi dipartire prematuramente e consapevolmente, non avrei niente da dire a nessuno: ciò che sono, lo sono adesso, in questo mio limitatissimo presente, che non posso indebitamente dilatare oltre l’orizzonte del mio vivere, assolutizzando un’esperienza privata, personale, individuale. So che i miei figli piangerebbero, ma so che ogni giorno farebbero un passo in più nella strada che li conduce al loro compimento ed io non posso prevedere dove andranno, non ho adesso nessuna parola da consegnare loro che valga più di un soldo di cartone nel futuro.

Viviamo un’epoca che ha divelto il trascendente dai cuori: cosa resta di me che muoio? Solo le lacrime di chi mi ama? Solo i regali comprati tutti insieme cercando di indovinare un futuro che non indovineremo mai? Solo il rimpianto di chi veglia un talamo vuoto? E se il tempo curerà le ferite e asciugherà i volti, io svanirò nell’oblìo? Quando i miei figli smetteranno di pensarmi, io non sarò più?

Che pesante fardello lasciamo sulle spalle dei nostri cari: il dovere del ricordo!

No, grazie. Potete dimenticarmi. Cari figli, pupille dei miei occhi e senso della mia vita, potete accantonarmi in un angolo del vostro inconscio senza alcun rimorso, potete trasformare a vostro piacimento ogni ricordo, fino a cambiare tutti i colori del passato, tutte le parole, tutte le emozioni. Non mi approprio del vostro futuro perché non ho il potere di darvi nulla, di dirvi nulla di mio che possiate spendere nel tempo che vi attende. Posso solo puntare il dito in alto e invitavi a guardare là.

E non venite sulla mia tomba a domandare aiuto, o a tener monologhi, come fanno nei film, dove pare che sui prati verdi dei cimiteri sorgano le più brillanti idee per risolvere i guai della vita: lì giace solo un corpo. Andate in chiesa, ammaccatevi le ginocchia su quelle panche di legno in disuso e sfogate ogni vostro bisogno davanti al padrone della vita.

Diceva San Paolo ai Filippesi:

Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa debba scegliere. Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d’altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne.

Si resta finché siamo utili al progetto di Dio. Se ci è concesso di andare, qualcuno prenderà il nostro posto nella vigna. Noi non siamo padroni né della nostra esistenza, né di coloro che amiamo. E le cose andranno sempre in un modo diverso da come avevamo previsto, prima o poi. Arrendersi a questa realtà che ci trascende è quanto di più rilassante ci possa essere, rassicurante, consolante.

Di tutta la marea di condoglianze sotto il post di Alessio nemmeno uno ha scritto “prego per voi”. Pregherò io. Fatelo anche voi, che leggete ora, perché l’amore non è un sentimento, è Dio che ci custodisce e fa memoria di noi per sempre, davvero per sempre.

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