Le cose passano, la gente muore, e lo sappiamo sempre dopo, sempre troppo tardi. Mia figlia si è trovata a fare i conti con la caducità e si domanda ora quale sia l’atteggiamento giusto da opporre al tempo ladro che ruba gli attimi e ti lascia solo i ricordi, a sbiadire in istantanee fatte distrattamente e senza messa a fuoco. Meglio l’ubriaco carpe diem di Orazio, che invita a consumare fino all’ultima briciola del desco prima che vada a male, o il deprimente tutto è vanità di Qoèlet, che ammonisce dall’attaccarsi ad ogni cosa, visto che la scena di questo mondo passerà?
Il suo spirito dolce e forte di adolescente cerca in realtà una via di mezzo, per l’amore che la muove verso il mondo e i suoi ninnoli, le sue pieghe nascoste, i suoi nascondigli foderati di piccole bellezze, per cui non vorrebbe consumare proprio un bel niente, se mai contemplare. Ma il tramonto più bello, per quanto si resti con gli occhi fissi ad accompagnarlo o anche con una telecamera a filmarne i passi, poi si eclissa sotto l’orizzonte e l’emozione che ha regalato con i suoi colori fulgidi e sfacciati resterà unica, sebbene non indelebile, ahimé non ripetibile con una semplice visione in differita di una registrazione. Il tempo non si ferma e non torna nemmeno indietro. Ciò che riusciamo a cogliere durante il suo passaggio, lo afferriamo. Poi possiamo farne un buon uso, o archiviarlo nel rapido oblìo, o persino deformarne la memoria con le alchimie della nostra mente. In ogni caso ciò che è stato non sarà mai più.
Questa consapevolezza è tanto semplice quanto atroce e ci coglie di sorpresa solo di fronte a qualche triste novità, come la famosa morte del gatto. O anche la caduta di un albero per il vento impetuoso. La rottura di una fatina di coccio per un improvvido urto maldestro.
Lo sguardo smarrito tra i riccioli ribelli della mia amata figliola richiedeva rassicuranti risposte che non ho potuto darle. Nel nostro cuore coltiviamo un profondo desiderio di trattenere a noi ogni cosa, di accumulare, di mantenere, e non per avidità e possesso, ma per amore, del creato e della vita intera.
Ma siamo una realtà finita, nel tempo e nello spazio, siamo un vaso limitato, un contenitore piccoletto e bucherellato. Tratteniamo ben poco di ciò che viviamo, dimentichiamo i luoghi, i volti, le parole e gli eventi, i paesaggi assolati, i panorami ridenti, i sentimenti condivisi e quelli provati nella solitudine. Passiamo, insieme alla scena di questo mondo, passeggiando con non curanza sul filo teso dell’eternità. Di noi e del mondo intorno resta solo ciò che archiviamo altrove, oltre noi, più in alto. E duramente dobbiamo ammettere che possiamo ancora raccogliere solo se liberiamo le nostre mani da ciò che teniamo ora, per cui lasciare andare è l’unica azione che si concilia con il futuro e che ci accompagna là.
Fatico a immaginare come si possa vivere da individui soli, pensando di avere con sé tutto il bagaglio necessario, di avere solo il proprio piccolo cuore per archiviare esperienze e solo la propria fragile schiena per portarne il peso. Io, nella mia debolezza patologica e umanissima fragilità, ho imparato a consegnare ogni ricordo all’archivio generale dell’eternità e nel mio esame di coscienza serale passo alle mani capienti di Dio anche il colore brillante delle fronde degli alberi o la morbidezza tiepida del pelo del mio gatto. Se è vero che persino i capelli del nostro capo sono contati, so che ogni nostalgia verrà colmata con un ricordo pescato dal cilindro magico delle mie sinapsi confusamente connesse con lo Spirito, quando ce ne sarà bisogno, o forse proprio quel pertugio doloroso mi permetterà di cogliere e accogliere ciò che la vita mi condurrà davanti.
Più che secchi da riempire, siamo colini che filtrano il mondo: tutto ci attraversa e ci trasforma, anche mentre lo abbandoniamo.
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