Charlie Hebdo non può parlare di religione. Epperò…

Il Parlamento europeo ha promulgato nel 2007 la Raccomandazione 1805 su «bestemmie, insulti religiosi e frasi contro persone sul campo della propria religione». Questa Raccomandazione stabilisce delle linee guida per i membri del Parlamento europeo sulla base dell’articolo 10 (libertà di espressione) e dell’articolo 9 (libertà di pensiero, coscienza e religione) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: la blasfemia non dovrebbe costituire reato.

In luogo o in aggiunta ai reati per blasfemia o bestemmie in alcuni paesi europei è presente il crimine di “insulti religiosi”. Essi sono proibiti in Andorra, Cipro, Croazia, Repubblica Ceca, Spagna, Finlandia, Germania, Grecia, Islanda, Italia, Lituania, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Federazione Russa, Slovacchia, Svizzera, Turchia e Ucraina mentre la bestemmia è atto illecito solo in Austria, Danimarca, Finlandia, Grecia, Italia, Liechtenstein, Paesi Bassi e San Marino.

Nei paesi scandinavi il reato di vilipendio alla religione non esiste da parecchio: c’era solo in Danimarca ed è stato abolito a giugno di quest’anno: aveva prodotto un’unica condanna nel 1938, contro nazisti danesi che distribuivano volantini antisemiti.

Quindi secondo l’Europa, sarebbe auspicabile che anche da noi, in Italia, allentassimo la suscettibilità e accettassimo il vilipendio alla religione come inevitabile contropartita di una libertà di espressione vasta. In effetti mi sconvolge un po’ vedere tanti musulmani che gridano allo scandalo per una vignetta che attribuisce all’Islam la responsabilità morale dell’attentato, suggerendo una critica molto profonda al suo “pacifismo”. Alla luce di tutti gli eventi tragici accaduti negli ultimi anni, mi parrebbe un’ovvietà la necessità di porre sotto la lente di ingrandimento proprio questo aspetto.

Ciò nonostante resto abbastanza affezionata all’art. 403, perché ritengo che una critica alle religioni e ai loro rapporti con la società civile possano essere poste senza per questo scadere nel vilipendio.

Dice l’avvocato Tomanelli del foro di Bologna:

Figure come Maometto, Gesù Cristo, Dio e la Madonna esistono se e nella misura in cui preesiste una fede, fenomeno soggettivo intimo per antonomasia. Sono figure che, pur rivestendo un ruolo assolutamente primario nella vita interiore del credente, non hanno alcuna possibilità di incidere sugli eventi del mondo esteriore, a differenza di chi ricopre ruoli confessionali terreni. Sono, cioè, figure prive di dimensione pubblica. Proprio perché attengono alla fede, quindi alla sfera privatissima di chi quella fede pratica, esprimono un concetto antitetico a quello di “dimensione pubblica”. Ne consegue che qui è impossibile concepire un messaggio satirico in coerenza causale con la dimensione pubblica del personaggio, proprio perché non vi è alcuna dimensione pubblica. A maggior ragione per quanto riguarda una figura come quella di Maometto, la cui raffigurazione è addirittura vietata dalla stessa religione islamica e i cui tratti somatici sono perciò inafferrabili per gli stessi musulmani.

In sostanza, nel momento in cui si offendono le divinità e/o simili, si sta facendo dell’ingiuria gratuita. È ovvio che Maometto o il Dio cristiano raffigurati con un triangolo nel sedere sono una satira che fa ridere poco e non è espressione di alcuna libertà di pensiero: quale idea veicolerebbe, a parte il vilipendio del senso religioso dei fedeli?

Ben diverso è il caso di una vignetta come questa sull’attentato: qui non ci sono simboli religiosi offesi, ma si pone una domanda seria e graffiante: l’Islam è davvero una religione di pace?

Eppure anche un politico francese, tale Stéphane Le Foll, ex ministro socialista ed ex portavoce del governo dell’ex presidente francese François Hollande, ha dichiarato che: «Gli equivoci sono molto pericolosi. Dire che l’Islam è una religione di pace lasciando intendere, di fatto, che è una religione di morte, risulta estremamente pericoloso», dando corda agli offesi di mezza Francia.

Fermo restando che l’Islam sia una religione complessa, ricca di correnti molto diverse tra loro, nei convincimenti politici e nella concezione dei rapporti tra religione e stato, per cui è senz’altro ingiusto attribuire all’Islam tutto la responsabilità degli attentati, in ogni caso si sta rivelando drammaticamente vera nel 100% dei casi la famosa frase della Fallaci: non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani. Quindi un problema c’è e se i musulmani non vogliono il dito puntato contro in modo generalista, è necessario che facciano i distinguo del caso essi stessi per primi.

È vero che i terroristi dell’Isis sono tutti Wahabiti o Salafiti? Però Hamas è sunnita. E poi un singolo musulmano sa davvero definire con certezza la propria corrente di appartenenza? In cosa si differenzia uno sciita da un sufita? Ci sono delle autorità di riferimento per ciascuna corrente?

Le mie non sono domande retoriche, le pongo sperando davvero che qualcuno risponda. Anzi, non è a me che deve rispondere, a me cattolica europea, ma ai musulmani europei che confondono l’integrazione con l’imposizione dei propri costumi a noi. Vorrei inoltre sapere a che corrente appartengono tutti quelli che sul sito di Al Jazeera hanno festeggiato a faccine sorridenti e pollici su la notizia dell’attentato a Barcellona.

In bilico tra difesa della libertà di espressione e tutela del senso religioso, mi domando come si possano affrontare con serenità simili scottanti argomenti, soprattutto sullo sfondo di una società massimamente atea e strafottentemente antireligiosa, che considera Maometto o Gesù personaggi fantastici alla stregua di Babbo Natale e per la quale l’espressione “rispetto del senso religioso” non ha significato. Certo è che nella definizione di questo equilibrio, solo chi è animato da una fede, qualunque essa sia, può portare un contributo costruttivo, mentre l’approccio libertario illuminista che tutto permette contro le religioni e poi inventa il reato d’opinione contro i sentimenti dei singoli, in tutta la loro molteplice e indefinibile varietà, finisce inevitabilmente per togliere i paletti del rispetto per il trascendente per sostituirli con una gragnuola di chiodi politically correct.

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