Alcuni santi, invece, non erano gay

Che darei, per essere stamattina alla messa mattutina di padre James Martin! Alla sua latitudine, tra poco dovrebbe suonargli la sveglia: si alzerà, si preparerà e scenderà in cappella. Lì troverà il messale e lo aprirà sul santorale al 3 giugno. Leggerà: «Santi Carlo Lwanga e compagni, martiri». E subito, in rosso: «Memoria». Accidenti, non è neanche di quelle che si possono saltare [piccolo sfogo: “memoria ad libitum” significa “da ricordare con piacere”, non “si può saltare”]. E poi questi africani, da sempre su di giri con i martiri… gente esaltata!

Ma vorrei tanto essere alla messa del gesuita americano, stamattina, per sentire la sua omelia su questi illustri sconosciuti del martirologio.

Protomartiri dell’Africa Nera

Furono i primi martiri (i primi noti, perlomeno) a testimoniare Cristo a sud del Sahara in tempi moderni: furono uccisi in Uganda fra il 15 novembre 1885 e il 27 gennaio 1887. La loro memoria è stata fissata proprio il 3 giugno perché in quel giorno, nell’anno 1886, il loro capofila – Carlo Lwanga – fu arso vivo. E chi erano costoro? E come mai furono condannati a una fine tanto atroce?

Erano paggi alla corte di re Mwanga, e Carlo, primo paggio alla suddetta corte, si negò alla concupiscenza contro natura del sovrano. Non solo: difese dalle sudicie mani del re i suoi compagni, che andavano dai 13 ai 30 anni.

“Omofobi” trucidati da un gay

Sì, la loro storia non va molto di moda, neanche tra i cristiani, eppure per più di un aspetto sarebbe tale da destare il più profondo interesse: intanto c’è la spinosa questione dell’omosessualità. Non fu certo quella la prima volta che dei cristiani arrivarono al martirio per delle ragioni morali e non meramente dottrinali: i martiri biblici dei libri dei Maccabei, come tanti altri a partire dallo stesso Giustino (ricordato due giorni fa dal martirologio romano), venivano suppliziati perlopiù per il solo fatto di essere cristiani. “solius nominis crimen est!”,

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Ritratto fotografico dei martiri ugandesi

sbottava indignato Tertulliano nell’Apologeticum: non li si accusava d’altro che di essere cristiani, ovvero di professare una dottrina.

A ben guardare, però, la dottrina non è mai una semplice opinione intellettuale, ovvero ha sempre ricadute pratiche: lo stesso prefetto che condannò Giustino volle prima ascoltarlo per qualche minuto su questa strana filosofia (la “vera dottrina”, la chiamava il filosofo!); a un certo punto però tagliò corto – «Va bene, adesso però torniamo alle cose serie: un po’ d’incenso agli Imperatori e ve ne andate a casa». Si sa come finì. Perché al mondo non darebbe certo fastidio una filosofia in più, se non informasse e se non plasmasse le vite della gente. Così Giustino, che credeva in Cristo, rifiutò di «passare dalla pietà all’empietà»; così, per lo stesso motivo, Carlo Lwanga si negò ai laidi piaceri del re, e allo stesso modo difese i suoi compagni.

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Una vetrata raffigurante san Carlo Lwanga

Non solo: poiché non si trattava di mero “pudore personale”, ma di una questione di legame con Gesù Cristo, Carlo Lwanga esortò molte volte il re perché desistesse da quella condotta perversa e abbracciasse anche lui la fede che salva – la sola. La risposta fu lo stillicidio di morte che stamattina, alla vigilia della Pentecoste, commemoriamo. E anzi dovremmo batterci il petto, di fronte a questi fratelli, per la vergogna con cui noi – che nulla rischiamo – ci vergogniamo di loro che – rischiando e perdendo tutto – non si vergognarono di Cristo.

Il Concilio Vaticano II e Paolo VI

Un altro motivo per cui è importante ricordare i santi martiri ugandesi è che la loro canonizzazione avvenne il 18 ottobre 1964, ovvero nel bel mezzo della terza sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II. Fu Paolo VI, il timoniere del Concilio, a volerla fortemente. Vibrano d’emozione le parole che dedicò a quel giorno tanto desiderato:

Questi Martiri Africani aggiungono all’albo dei vittoriosi, qual è il Martirologio, una pagina tragica e magnifica, veramente degna di aggiungersi a quelle meravigliose dell’Africa antica, che noi moderni, uomini di poca fede, pensavamo non potessero avere degno seguito mai più.

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Paolo VI, il 2 agosto 1969, in visita apostolica in Uganda

Chi poteva supporre, ad esempio, che alle commoventissime storie dei Martiri Scillitani, dei Martiri Cartaginesi, dei Martiri della “Massa candida” uticense, di cui sant’Agostino e Prudenzio ci hanno lasciato memoria, dei Martiri dell’Egitto, dei quali conserviamo l’elogio di san Giovanni Crisostomo, dei Martiri della persecuzione vandalica, si sarebbero aggiunte nuove storie non meno eroiche, non meno fulgenti, nei tempi nostri? Chi poteva prevedere che alle grandi figure storiche dei Santi Martiri e Confessori Africani, quali Cipriano, Felicita e Perpetua e il sommo Agostino, avremmo un giorno associati i cari nomi di Carlo Lwanga, e di Mattia Mulumba Kalemba, con i loro venti compagni? E non vogliamo dimenticare altresì gli altri che, appartenendo alla confessione anglicana, hanno affrontato la morte per il nome di Cristo.

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Paolo VI bacia la terra nel memoriale della passione di san Carlo Lwanga

Questi Martiri Africani aprono una nuova epoca; oh! non vogliamo pensare di persecuzioni e di contrasti religiosi, ma di rigenerazione cristiana e civile. L’Africa, bagnata dal sangue di questi Martiri, primi dell’era nuova (oh, Dio voglia che siano gli ultimi, tanto il loro olocausto è grande e prezioso!), risorge libera e redenta. La tragedia, che li ha divorati, è talmente inaudita ed espressiva, da offrire elementi rappresentativi sufficienti per la formazione morale d’un popolo nuovo, per la fondazione d’una nuova tradizione spirituale, per simboleggiare e per promuovere il trapasso da una civiltà primitiva, non priva di ottimi valori umani, ma inquinata ed inferma e quasi schiava di se stessa, ad una civiltà aperta alle espressioni superiori dello spirito e alle forme superiori della socialità.

Paolo VI, AAS 56, 1964, 905-906

E dopo di lui Giovanni Paolo II e Francesco ripeterono devotamente il viaggio sul luogo del rogo di Carlo Lwanga, il “martire omofobo”, direbbero ormai i giornali… laddove invece il santo dimostrò di non avere più paura dell’omosessualità che della morte.

E “chi sono io per giudicare?”

Che fine fa dunque l’adagio “chi sono io per giudicare?”, che resterà forse come (indegno) sottotitolo del pontificato argentino (così come “non abbiate paura” fu la scolorita didascalia del pontificato polacco)?

Nessuna fine, evidentemente, solo un’applicazione pedissequa: re Mwanga non era certo un uomo «che ha buona volontà e che cerca Dio». Era semplicemente un depravato incallito, come ce ne sono tanti anche oggi. Uno che in forza della sua posizione di potere ha assoggettato molti altri alle proprie brame – e gli è andata sempre bene, finché non ha incontrato gente liberata da Cristo. Persone che neppure l’hanno giudicato – ogni “non ti è lecito” dei cristiani è sempre un messaggio di salvezza – ma che anzi sono state da lui giudicate e condannate alle morti peggiori. Sta di fatto che, sulla pira incendiata, Carlo Lwanga disse: «Voi mi state ardendo vivo, ma è come se mi gettaste addosso secchiate d’acqua fresca». La fede…

L’ecumenismo del martirio

Un altro aspetto importantissimo della festa odierna è che – non vorrei azzardarmi ma credo per la prima volta nella storia della Chiesa divisa in Occidente – vengono celebrati insieme martiri cattolici e anglicani. Paolo VI volle esplicitarlo, precorrendo il Leitmotiv bergogliano dell’“ecumenismo del sangue”: così Papa Montini paragonava alcuni figli dello scisma di Enrico VIII ai “martiri scillitani”, ai “martiri cartaginesi”, ai “martiri di Massa Candida”, che nei primi secoli della storia cristiana hanno tempestato di rubini il martirologio della Chiesa Cattolica unita. Ora pare che la confessione anglicana non abbia meno frutti da raccogliere, dal martirio degli Ugandesi, di quanta ne abbia la Chiesa cattolica. Non resta che farlo insieme.

Resistere all’odio

Per questo avrei tanto voluto ascoltare la predica di padre Martin: perché lo vedo oltremodo facondo nello spiegare non cedere all’odio.

Sono sicuro che anche lui sia personalmente grato al martirio di Carlo Lwanga e compagni. Tra dieci giorni uscirà il suo libro sul “ponte da costruire” tra la Chiesa cattolica e la “comunità LGBT” (Guy Hocquenghem direbbe: «Non esiste alcuna “comunità LGBT”: esiste gente che si cerca e si incontra per avere rapporti omoerotici promiscui»). C’è anche la prefazione del cardinal Kevin Joseph Farrell: di sicuro la porpora romana, segno della disponibilità di chi ne è insignito a versare il sangue per la fede, confermerà il Magistero di chi il sangue, per la fede, l’ha già versato. Davvero.

Chissà che bella omelia farà, tra poco, il nuovo consultore per la Segreteria per le Comunicazioni della Santa Sede! Mi spiace tanto di dovermela perdere, per cause di forza maggiore…

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Papa Francesco a Kampala, in Uganda

E se invece l’omelia non fosse bella? Se addirittura non la facesse? Se con la scusa della messa vespertina di Pentecoste neppure celebrasse messa, stamattina? Beh, stenterei a crederlo, ma dovrei prenderne atto: un giorno racconteremo i nomi e i cognomi della “lobby gay” in Vaticano, che Papa Francesco stesso ha esplicitamente ammesso essere all’opera. E solo i disinformati o chi è in malafede potrà addossare al Santo Padre certe responsabilità: io so da fonte di prima mano che quando, periodicamente, Papa Bergoglio sfronda quest’idra d’apostasia convoca l’epurando e gli dice, seccamente:

Lei da ora non lavorerà più qui in Vaticano.
E lei sa perché.

Preghiamo per il Santo Padre, e che Carlo Lwanga e i suoi compagni gli impetrino grazia e fortezza a volontà.

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Aggiornamento dell’8 giugno

Stamattina abbiamo letto su Repubblica l’intervista di Paolo Rodari al gesuita James Martin: l’occasione è naturalmente l’attesa del suo discusso libro, di cui scrissi appunto anche io qui sopra, cinque giorni fa.

Quello che è giusto è giusto: le risposte del gesuita, nel contesto di questa sola intervista, sono intelligenti, moderate e condivisibili. Desta più perplessità il tono di alcune domande del solerte articolista del quotidiano diretto da Mauro Calabresi: davvero viene da chiedersi se Paolo Rodari si ascolti o si rilegga, quando parla de “la destra cattolica” come di quelli che non sono d’accordo con Repubblica, e quindi con lui – e che (va da sé) hanno torto. Eppure non sono lontani i tempi in cui su Il Foglio lo leggevamo perplessi menar di mazza e durlindana contro la musica da discoteca (!), che infiniti addurrebbe lutti all’integrità spirituale dei giovani.

A parte questo, all’ex seminarista della Fraternità San Carlo (dunque un ciellino d.o.c.) chiederemmo cosa voglia dire esattamente l’espressione “se Gesù fosse vivo oggi”, incipit della sua terza domanda. Di fronte a questo, anche il suggerire che possa sussistere una contraddizione tra “accogliere le persone omosessuali” e “chiedere loro di vivere castamente” diventa una sgrammaticatura di poco conto (come se la Chiesa non la chiedesse a tutti i cristiani, la castità…).

È stata gustosa la risposta all’ottava domanda, con la quale il giornalista chiedeva al gesuita di tornare sul suo (rinunciabile) post “alcuni santi erano gay”: Rodari che si fa bacchettare sulla dottrina da Martin è una scena da non perdere.

Ma tralasciando il maldestro gigioneggiamento dell’intervistatore, e tornando all’intervistato, possiamo dire che questo suo libro ora lo attendiamo con più viva curiosità di quanta ne avessimo prima: stando alle cose dette in quest’intervista, forse varrà la pena di leggerlo, e poi potremo giudicare se la sparata sui “santi gay” sarà stata un mero strillo pubblicitario (tale da far dunque inferocire gli omosessualisti massimalisti); se sarà “solo” la versione gesuitica di Accompagnare la persona di John Francis Harvey… o cos’altro.

Fino ad allora ci limiteremmo a due o tre domande rivolte a Martin:

  1. Perché parla di “gay” come se questo termine non avesse la connotazione di pride che invece ha, salvo poi supporre implicitamente che la condizione di omosessualità venga vissuta come chiede il Catechismo (ossia in ogni caso senza alcun “orgoglio”)?
  2. Perché parla di “comunità LGBT”? Quali sono le note che la definiscono come tale? Come si struttura? Da cosa è riconoscibile? Ho degli amici di Courage che sottoscriverebbero il giudizio di Hocquenghem, in merito: lei dissente? Se sì, perché? Se no, di nuovo, perché parla di “comunità LGBT”?
  3. Posto che esista una qualche forma di omofobia, negli ambienti ecclesiastici (Pasolini diceva che da nessuna parte ce n’era così poca come nella Chiesa, e anche Vendola l’ha ripetuto più volte, ma vabbe’…), non pensa che questa possa essere collegata alle cordate omosessualiste che il Santo Padre non ha esitato a chiamare con lo specifico nome di “lobbies”?
Informazioni su Giovanni Marcotullio 296 articoli
Classe 1984, studî classici (Liceo Ginnasio “d'Annunzio” in Pescara), poi filosofici (Università Cattolica del Sacro Cuore, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, PhD RAMUS) e teologici (Pontificia Università Gregoriana, Pontificio Istituto Patristico “Augustinianum”, Pontificia Università “Angelicum”, PhD UCLy). Ho lavorato come traduttore freelance dal latino e dal francese, e/o come autore, per Città Nuova, San Paolo, Sonzogno, Il Leone Verde, Berica, Ταυ. Editor per Augustinianum dal 2013 al 2014 e caporedattore di Prospettiva Persona dal 2005 al 2017. Giornalista pubblicista dal 2014. Speaker radiofonico su Radio Maria. Traduttore dal francese e articolista per Aleteia Italiano dal 2017 al 2023.

5 commenti

  1. “Lei da ora non lavorerà più qui in Vaticano.
    E lei sa perché.”

    Sosteniamo il Santo Padre.

  2. Giovanni spero che la rimozione dal lavorare in Vaticano impedisca loro di fare danni altrove …
    Permettimi una domanda: ma il martirio di San Carlo Lwanga può essere considerato in odium fidei?
    Grazie

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