Ieri sera ho avuto il piacere e l’onore di aprire, insieme con Mario Adinolfi, il primo incontro della Scuola di politica del Popolo della Famiglia di Roma. Idea meritoria di Giuseppe Brienza e di sua moglie Sara Deodati, cui si indirizza il nostro debito di gratitudine.
Chi mi conosce sa che non ho una vera e propria “formazione politica”, nel senso che non ho militato in partiti né ho fatto parte di movimenti in cui la formazione civile e politica rivestisse un qualche ruolo significativo. Vedo però di non essere un eccezione, purtroppo, e che una Scuola di politica è tanto più opportuna quanto meno è stata tra le occupazioni di chi ha forgiato la cultura cattolica negli ultimi decennî. Perlomeno in Italia, e non mi azzardo a parlare del resto. Per quanto mi sembri emblematico che i gesuiti francesi di Projet abbiano prodotto un editoriale di chiaro (quantunque gesuitico) endorsement a Emmanuel Macron in vista del secondo turno delle presidenziali, che si deciderà alle urne dopodomani. I loro confratelli italiani della redazione di Aggiornamenti sociali hanno ritenuto opportuno produrre una traduzione del testo, esprimendo con ciò stesso una netta condivisione della presa di posizione dei cugini.
Fino a domenica ringrazierò Dio di non essere francese, e dunque di non dover decidere se impiccarmi o spararmi in bocca, ma trovo che il testo dei gesuiti francesi si affanni troppo ad argomentare l’illiceità dell’astensione dal voto (pare Non expedit del Non expedit) e non si premuri invece di indagare come mai siamo arrivati a questo punto. Si legge infatti nel testo (uso la traduzione di Aggiornamenti sociali):
I risultati del primo turno delle elezioni presidenziali sono stati fonte di speranza per alcuni e di delusione per altri. A prescindere delle nostre convinzioni, bisognerà comunque recarsi al voto il 7 maggio: non si può restare, per usare l’espressione di papa Francesco, a «guardare dal balcone la vita» (1) o la storia! La scelta è ormai circoscritta, ma votando possiamo e dobbiamo esprimere la nostra libertà. L’astensione, nel nostro sistema elettorale, lascia scegliere gli altri. Per questo non può essere una soluzione (2).
Questa decisione pone più di un cattolico davanti a un dilemma: il programma di entrambi i candidati non è compatibile con l’insieme dei valori della dottrina sociale della Chiesa. Ci limitiamo a richiamare due ambiti sui quali si cristallizzano spesso le opposizioni: il liberalismo di Emmanuel Macron sulle questioni della società si accorda male con l’attenzione verso la famiglia ribadita con forza dal magistero; il progetto di Marine Le Pen di lottare contro l’immigrazione e di privilegiare i francesi si oppone in modo radicale al costante richiamo della Chiesa ad accogliere lo straniero. Altri punti destano preoccupazione in entrambi i candidati, a partire dalla loro ignoranza della conversione ecologica a cui ci invita con vigore la Laudato si’.
Le citazioni addotte a puntello del tentativo di screditare l’astensione mi paiono inconsistenti, anzi a ben vedere sia la citazione di Francesco sia il rimando a Giovanni Paolo II si riferiscono ad altro, e sono quindi incongrui. È un Leitmotiv che da un po’ di tempo in qua ricorre, nella Chiesa, quello di invitare alle urne senza porsi con vera lucidità analitica sulle cause dell’insoddisfazione che ingrossa poi le acque di movimenti torbidi quali quello grillino: la Chiesa esprime (giustamente) il ripudio dell’antipolitica, salvo di fatto risultare ininfluente sulle cause che la generano. Così facendo perde presa sull’elemento popolare e – ipso facto – sui suoi proprî interessi, che sono l’evangelizzazione di “tutte le nazioni” e il contributo al progresso della famiglia umana.
Il vero problema, insomma, non è che in Francia bisogna scegliere tra Le Pen e Macron, perché si può anche non scegliere, e la non-scelta è una scelta politica. Non a caso il candidato socialista Jean-Luc Mélenchon non farà confluire il suo elettorato su alcuno dei due candidati, trovando le loro proposte incompatibili con la propria.
Non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo
mandò a dire Pio VII a Napoleone che gli ingiungeva di rinunciare alla sovranità sugli Stati pontificî. E se giustamente Papa Chiaramonti non si sentiva obbligato da un’ingiunzione tradotta per via diplomatica, perché mai i cattolici dovrebbero sentirsi obbligati a scegliere tra due candidati incompatibili con i loro valori?
Mélenchon, in fondo, ha solo ripetuto quelle storiche parole, e a mio avviso ogni cattolico potrebbe fare lo stesso (cosa dovrebbe fare non mi azzardo a dirlo, mica sono gesuita). Vedo che La Croix appoggia Macron, e lo fa citando una bella frase di Emmanuel Mounier:
Non ci arruoliamo mai se non in battaglie discutibili combattute per cause imperfette. Eppure rifiutare di impegnarsi significa rifiutare la condizione umana.
Molto vero e, nella fattispecie, molto suggestivo. Ma resta il fatto che ci sono termini anche per l’impegno, e i termini sono dati dai fini. Mélenchon dice: ho cantato la mia canzone perché la ritenevo migliore di quelle altrui, altrimenti sarei andato a fare il vocalist per gli altri cantanti; il televoto mi ha bocciato, ora non ha senso che mi presenti alle audizioni per entrare nei cori degli altri. Noi cattolici potremmo dire: perché non siamo arrivati a questo secondo turno? E ancora più onestamente: perché non siamo arrivati neanche al primo turno? Siamo rimasti a «guardare dal balcone la vita» fino alle qualificazioni… e ora ci prende la fregola di partecipare?
No: ha ragione Mounier ma non per questo ha ragione La Croix, che in questo caso usa Mounier come stampella di un passo troppo claudicante per stare in piedi.
Ma grazie a Dio, come dicevo, non sono francese e domenica potrò andarmene sereno a fare da padrino di cresima a uno splendido ragazzo. Però la domanda sull’impegno non dobbiamo eluderla: da noi stiamo ancora facendo “le qualificazioni”, il momento di sgomitare per una proposta veramente alternativa è ora, non alla vigilia del ballottaggio, per implorare pietà (in quanto cattolici) dalle colonne di qualche editoriale di circostanza che invita al bon ton della responsabilità. La responsabilità non è “bon ton”. Se un domani (che inevitabilmente non può essere troppo remoto) ci trovassimo a scegliere tra Salvini e Gentiloni, o tra Grillo e Salvini, ripeterei la risposta di Pio VII al legato napoleonico.
Ma la ripeterei battendomi il petto, se nel frattempo non avessi cercato di dare il mio (piccolo) contributo a un’alternativa. Ebbene, dico tutto questo perché ho registrato con stupore la meraviglia che in diversi uditori, ieri sera, ha fatto il mio riferimento al diritto all’emigrazione.
– Ma veramente esiste?
– Certo che esiste.
– Ma la Meloni ha detto che non esiste, testualmente, proprio qualche tempo fa.
– La Meloni ha con ciò dimostrato di non ispirarsi alla dottrina sociale della Chiesa, nella sua proposta politica.
Sì, perché non è stata una bislacca idea di Paolo VI, quella di riconoscere il diritto di ogni uomo a emigrare, se le circostanze lo portano a sottomettersi a quella necessità (o a vagliare quell’opportunità). Leggiamo infatti nella (troppo poco nota) Octogesima adveniens:
16. La discriminazione razziale riveste in questo momento un carattere di più forte attualità, a motivo della tensione che essa solleva tanto all’interno di certi paesi quanto sul piano internazionale. Con ragione gli uomini ritengono ingiustificabile e rifiutano come inammissibile la tendenza a conservare o a introdurre una legislazione o dei comportamenti ispirati sistematicamente ai pregiudizi razziali: i membri dell’umanità hanno la stessa natura e, di conseguenza, la stessa dignità, con i medesimi diritti e doveri fondamentali, e con identico destino soprannaturale. In seno ad una patria comune, tutti devono essere uguali davanti alla legge, trovare uguale accesso alla vita economica, culturale, civica, sociale, e beneficiare di un’equa ripartizione della ricchezza nazionale.
17. Pensiamo altresì alla situazione precaria di un grande numero di lavoratori emigrati, la cui condizione di stranieri rende ancor più difficile, da parte dei medesimi, ogni rivendicazione sociale, nonostante la loro reale partecipazione allo sforzo economico del paese che li accoglie. È urgente che nei loro confronti si sappia superare un atteggiamento strettamente nazionalistico, per creare uno statuto che riconosca un diritto all’emigrazione, favorisca la loro integrazione, faciliti la loro promozione professionale e consenta a essi l’accesso a un alloggio decente, dove, occorrendo, possano essere raggiunti dalle loro famiglie.
A questa categoria si aggiungono le popolazioni che, per trovare lavoro, sottrarsi a una catastrofe o a un clima ostile, abbandonano le loro regioni e si trovano sradicate presso altre genti.
È dovere di tutti, e specialmente dei cristiani (cf. Mt 25, 35), lavorare con energia per instaurare la fraternità universale, base indispensabile di una giustizia autentica e condizione di una pace duratura: «Non possiamo invocare Dio, Padre di tutti gli uomini, se rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati a immagine di Dio. La relazione dell’uomo con Dio Padre e quella dell’uomo con gli altri uomini, suoi fratelli, sono tanto connesse che la Scrittura dice: “Chi non ama, non conosce Dio” (1 Gv 4, 8)».
Spero che nessuno prenda questa pagina come un frutto del “progressismo” di Papa Montini, perché più recentemente anche Benedetto XVI ha detto la sua sull’argomento, nella Caritas in veritate:
È fenomeno che impressiona per la quantità di persone coinvolte, per le problematiche sociali, economiche, politiche, culturali e religiose che solleva, per le sfide drammatiche che pone alle comunità nazionali e a quella internazionale. Possiamo dire che siamo di fronte a un fenomeno sociale di natura epocale, che richiede una forte e lungimirante politica di cooperazione internazionale per essere adeguatamente affrontato. Tale politica va sviluppata a partire da una stretta collaborazione tra i Paesi da cui partono i migranti e i Paesi in cui arrivano; va accompagnata da adeguate normative internazionali in grado di armonizzare i diversi assetti legislativi, nella prospettiva di salvaguardare le esigenze e i diritti delle persone e delle famiglie emigrate e, al tempo stesso, quelli delle società di approdo degli stessi emigrati. Nessun Paese da solo può ritenersi in grado di far fronte ai problemi migratori del nostro tempo. Tutti siamo testimoni del carico di sofferenza, di disagio e di aspirazioni che accompagna i flussi migratori. Il fenomeno, com’è noto, è di gestione complessa; resta tuttavia accertato che i lavoratori stranieri, nonostante le difficoltà connesse con la loro integrazione, recano un contributo significativo allo sviluppo economico del Paese ospite con il loro lavoro, oltre che a quello del Paese d’origine grazie alle rimesse finanziarie. Ovviamente, tali lavoratori non possono essere considerati come una merce o una mera forza lavoro. Non devono, quindi, essere trattati come qualsiasi altro fattore di produzione. Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione.
C’erano stati, negli anni precedenti, degli importanti aggiornamenti, in materia. Di questi aveva reso conto l’istruzione Erga migrantes caritas Christi:
A questo proposito la Convenzione internazionale per la protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie ‑ entrata in vigore il primo luglio 2003 e la cui ratifica è stata vivamente raccomandata da Giovanni Paolo II – offre un compendio di diritti che permettono al migrante di apportare detto contributo, per cui quanto tale Convenzione prevede merita adesione specialmente da parte di quegli Stati che più traggono benefici dalla migrazione stessa. A tal fine, la Chiesa incoraggia la ratifica degli strumenti internazionali legali che assicurano i diritti dei migranti, dei rifugiati e delle loro famiglie, offrendo anche nelle sue varie Istituzioni e Associazioni competenti quell’advocacy che oggi è sempre più necessaria (v. i Centri di attenzione ai Migranti, le Case per essi aperte, gli Uffici per i servizi umani, di documentazione e “assessoramento”, ecc.). In effetti i migranti sono spesso vittime del reclutamento illegale e di contratti a breve termine con povere condizioni di lavoro e di vita, dovendo soffrire per abusi fisici, verbali e finanche sessuali, impegnati per lunghe ore nel lavoro e senza accesso, frequentemente, ai benefìci delle cure mediche e alle normali forme di assicurazione.
Tale precaria situazione di tanti stranieri, che dovrebbe sollecitare la solidarietà di tutti, causa invece timori e paure in molti, che sentono gli immigrati come un peso, li vedono con sospetto e li considerano addirittura come un pericolo e una minaccia. Ciò provoca spesso manifestazioni di intolleranza, xenofobia e razzismo.
Tutto questo era già germinalmente esposto nella Gaudium et Spes, che al numero 65 recita:
Lo sviluppo economico deve rimanere sotto il controllo dell’uomo. Non deve essere abbandonato all’arbitrio di pochi uomini o gruppi che abbiano in mano un eccessivo potere economico, né della sola comunità politica, né di alcune nazioni più potenti. Conviene, al contrario, che il maggior numero possibile di uomini, a tutti i livelli e, quando si tratta dei rapporti internazionali, tutte le nazioni possano partecipare attivamente al suo orientamento. È necessario egualmente che le iniziative spontanee dei singoli e delle loro libere associazioni siano coordinate e armonizzate in modo conveniente ed organico con la molteplice azione delle pubbliche autorità.
Lo sviluppo economico non può essere abbandonato né al solo gioco quasi meccanico della attività economica dei singoli, né alla sola decisione della pubblica autorità. Per questo, bisogna denunciare gli errori tanto delle dottrine che, in nome di un falso concetto di libertà, si oppongono alle riforme necessarie, quanto delle dottrine che sacrificano i diritti fondamentali delle singole persone e dei gruppi all’organizzazione collettiva della produzione.
Si ricordino, d’altra parte, tutti i cittadini che essi hanno il diritto e il dovere – e il potere civile lo deve riconoscere loro – di contribuire secondo le loro capacità al progresso della loro propria comunità. Specialmente nelle regioni economicamente meno progredite, dove si impone d’urgenza l’impiego di tutte le risorse ivi esistenti, danneggiano gravemente il bene comune coloro che tengono inutilizzate le proprie ricchezze o coloro che – salvo il diritto personale di migrazione – privano la propria comunità dei mezzi materiali e spirituali di cui essa ha bisogno.
Sì, i gesuiti francesi hanno ragione: da cattolici, non si può votare Le Pen (né la Lega). E no, hanno torto: da cattolici, non si può votare Macron (né il Pd). Era prima che dovevano forgiare un’alternativa vera e credibile (non il M5S), i cattolici.
La cosa più saggia del mondo è gridare prima del danno. Gridare dopo che il danno è avvenuto non serve a nulla, specie se il danno è una ferita mortale.
G.K. Chesterton, Eugenetica e altri malanni
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