Bioetica e cristianesimo in Francia: intervista al presidente della Conferenza episcopale

di Marie-Lucile Kubacki e Aymeric Christensen1Traduzione di Giovanni Marcotullio

È in un clima di rientro che giovedì 29 agosto ci ha ricevuti Éric de Moulins-Beaufort, arcivescovo di Reims. Fine delle vacanze – qualche turista ronza ancora attorno alla cattedrale – ma soprattutto rientro politico, con la revisione delle leggi di bioetica che si annuncia all’Assemblée. Cosa simbolicamente molto forte: mentre varchiamo la grave porta dell’arcivescovado, alcuni rappresentanti delle principali religioni sono ricevuti in audizione dai deputati della commissione speciale dedicata al progetto di legge. Ironia del calendario, il nuovo presidente della Conferenza dei vescovi di Francia incontrava quel mattino stesso, a Parigi, il presidente della Repubblica insieme con padre Thierry Magnin, segretario generale della CEF:

È stata una visita di cortesia, su mia richiesta, senza altro scopo che presentarmi e farmi conoscere

tempera subito l’ecclesiastico, senza tuttavia dissimulare che l’incontro – durato un’ora e mezza – gli ha permesso di

esprimere [le nostre] riflessioni su un certo numero di argomenti.

Leggi: le fratture della società, l’accoglienza dei migranti o ancora la relazione tra Stato e religioni, chiaramente senza tralasciare la bioetica.

Il Presidente si è mostrato in continuità col suo discorso ai Bernardins nel 2018: molto attento e rispettoso di quanto avevamo da apportare.

Disteso e disponibile, mons. de Moulins-Beaufort ha evidentemente voglia di sviluppare questo tema. Cosa che non gli avrebbe impedito di evocare più largamente, con noi, la Chiesa cattolica in Francia, dopo un anno segnato dalla crisi degli abusi sessuali e spirituali. La necessità di chiudere con questo flagello ha non soltanto dato vita a una commissione indipendente, presieduta da Jean-Marc Sauvé e incaricata di stilare un consuntivo completo, ma neppure è estranea alla scelta dell’ex vescovo ausiliare di Parigi da parte dei suoi confratelli. Il compito che lo attende, insieme coi suoi due vice-presidenti – Dominique Blanchet, vescovo di Belfort-Montbéliard e Olivier Leborgne, vescovo di Amiens – è importante, ma la nuova “voce” dell’episcopato ha delle idee e dell’ambizione.

Abbiamo la fortuna di essere un trio che lavora bene insieme. È pure una sfida, perché se non riuscissimo negli intenti non potremmo dare la colpa a una cattiva intesa fra noi.

Monsignore scherza, ma forse non del tutto. Attendendo i grandi cantieri che lo aspettano, ad intra come ad extra, è in giardino – approfittando di un ultimo barlume vacanziero – che riparte.

Alcuni ritengono che oggi la Chiesa cattolica si trovi “in un vicolo cieco”, che la sua parola abbia perduto ogni credibilità a causa degli abusi, a fortiori quando vuole parlare a nome del bene del bambino…

La rivelazione degli abusi sessuali commessi nella Chiesa ha ferito i nostri concittadini. Alcuni sono confortati nella loro diffidenza verso la Chiesa; molti sono colpiti nella fiducia che potevano avere nella nostra parola. Questo fa parte dei danni collaterali di questi casi, e si comprende benissimo. Però non avverto del disprezzo, nondimeno, nei miei rapporti con i poteri pubblici – non ne ho sentito durante il mio incontro col presidente della Repubblica. Perché la Chiesa non ha sbagliato in tutti i suoi membri, anche se ha sbagliati in troppi dei suoi membri.

Restando sul territorio, quando mons. Bruno Feillet, vescovo ausiliare di Reims e presidente del nostro consiglio famille et société, mons. François Touvet, vescovo di Châlons-en-Champagne, e io stesso abbiamo incontrato i parlamentari della Marne e delle Ardennes e abbiamo discusso delle leggi di bioetica, abbiamo avuto dei buoni confronti, a prescindere da quanto poi recepiscano di ciò che abbiamo detto. Penso che abbiamo sempre degli sforzi da fare per addurre la nostra parola in maniera utile, credibile e udibile. Su un certo numero di argomenti, del resto, la parola della Chiesa non è stata portata unicamente dall’episcopato. Bisogna che essa lo sia anche da cattolici – uomini e donne – in quanto cittadini.

Lei ha l’impressione che i poteri pubblici ascoltino realmente la parola della Chiesa?

In ordine generale, e sul territorio, la collaborazione è eccellente – ne faccio esperienza a Reims e nelle Ardennes. Certo, ci sono delle note stonate: su scala nazionale, troviamo che le cappellanie non siano accolte benissimo nelle università, e vorremmo parlarne con la ministra. Globalmente, però, il ruolo dei cattolici attraverso le associazioni e movimenti per la pace sociale o il servizio ai più poveri mi sembra piuttosto ben riconosciuto. Per quanto riguarda la gestione degli edifici e della sicurezza, anche lì lavoriamo in un clima di rispetto e di ascolto. Tuttavia, sulle grandi questioni fondamentali, non è la Chiesa che dirige gli animi: è lì che bisogna farsi sentire e discutere.

Come fare per arrivare ai nostri contemporanei, quando una crescente parte di loro non ha mai messo piede in una chiesa?

Bisogna che usciamo noi, che ci mostriamo noi di più. La Francia è ricca di un considerevole patrimonio… E poi bisogna mostrare che dentro vi succede qualcosa! Tanti vedono le chiese come dei musei. Dobbiamo far sentire le nostre voci sulle scelte della società, ma il nostro scrupolo dev’essere meno quello di lamentarci dell’attuale stato dei costumi che di vivere pienamente la bellezza di quel che ci è dato. Bisogna che le persone incontrino questo e che le convinciamo che tutto ciò non è riservato a un club. Tra i nostri contemporanei c’è una forma di disperazione. Poiché non si osa più sperare la grande Speranza, ci si accontenta di sperare in piccole realizzazioni, piccole felicità. Bisogna credere che siamo fatti per la gioia vera, non per una felicità circoscritta.

Manchiamo di ambizione spirituale?

Sì. Tutta una parte della società consumistica è fatta per stornarcene, per occupare il nostro spirito agitando continuamente cose da comprare e da possedere, persuadendoci che esse meritino la nostra attenzione. E se – dove va bene – qualcuno ci incoraggia a meditare, è perché siamo più performanti per l’impresa. Noi, cristiani, dobbiamo assumere il fatto che conduciamo una vita differente. Forse occorre che questo si traduca in scelte di vita più esplicite, scelte alle quali le impellenti necessità ecologiche potrebbero portarci. I cristiani, se prendono sul serio la Laudato si’, potrebbero ad esempio assumere stili di vita e impegni più visibilmente in rottura, ma che sarebbero attrattivi, come nei primi secoli del cristianesimo.

In piena revisione delle leggi di bioetica, in che maniera la Chiesa intende far sentire la propria voce?

Tante cose sono state già fatte, bisognerebbe essere sordi per non averle sentite! In sede di Stati generali, numerosi credenti hanno preso parola come cittadini; noi, vescovi, abbiamo fatto documenti, libri che abbiamo inviato ai parlamentari. Una vera riflessione, piuttosto vasta, s’è sviluppata su questi argomenti, come sul fine-vita, in particolare grazie all’esperienza di cattolici impegnati nei servizi di cure palliative come personale medico/paramedico e come volontari. E poi non siamo i soli ad avanzare delle riserve: anche dei non cattolici hanno espresso molto razionalmente i pericoli per la società e per il sociale dell’estensione della PMA e della tentazione dell’eutanasia. La figura più emblematica è Sylviane Agacinski, ma ce ne sono altre.

Eppure questo non ha inciso granché sul parere emesso dal Comitato consultivo nazionale di etica (CCNE), né sul progetto di legge…

È stato lo stesso in occasione della precedente revisione delle leggi di bioetica, e sarà lo stesso alla prossima! Non sarà questo però a impedirci di dire quel che dobbiamo dire.

Fino a manifestare?

Perché no?, se delle persone ritengono di poter e dover fare questa scelta da cittadini. A oggi il dibattito è parlamentare. Chi può convincere i parlamentari a prestare attenzione agli argomenti dati? Il Presidente e la maggioranza auspicano un “dibattito disteso”, ma a queste condizioni il rischio è che il dibattito finisca per non esistere più. Ora, questi argomenti meritano invece di essere trattati in tutta la loro complessità. Dobbiamo ascoltare le ragioni che spingono alcuni a voler andare verso quello che noi giudichiamo pericoloso per la società, ma dobbiamo anche poter esporre i nostri argomenti, che non sono meno razionali, e presentare quel che ci pare la cosa migliore per tutti.

Lei è pessimista quanto all’esito?

Vengono dissociati padre e genitore. Ora, già oggi degli adulti concepiti mediante PMA reclamano di conoscere il donatore di spermatozoi che ha permesso loro di nascere, pur avendo un reale affetto per i loro genitori. Le dichiarazioni ufficiali rispondono che si permetterà ai figli concepiti per PMA di sapere se il loro genitore era portatore di malattie, ma non è questo che cercano! I geni non sono mattoncini di Lego, portano una storia attinta alla storia dell’umanità, quella della discendenza da cui ciascuno viene. Certamente esistono figli cresciuti da un padre e da una madre che non sono loro genitori, pensiamo al caso dei bambini adottati. Ma bisogna moltiplicare queste situazioni? La cosa più semplice e più bella è comunque sempre che il genitore sia il padre, e che sia stato disponibile a questo, che suo figlio o sua figlia lo deluda o lo meravigli. Si crea una complicazione che bisognerà gestire.

Quale complicazione?

Si iscriverà il padre biologico sotto una nuova denominazione, si faranno giochi di prestigio giuridici dei quali ci assicurano che renderanno tutti felici. Non è escluso che qualcuno ne risulti felice, ma socialmente stiamo perdendo di vista e ci sta sfuggendo di mano quel che può accadere, e che dovrebbe viversi nell’incontro tra l’uomo e la donna. Alle volte si ha l’impressione che, per alcuni, il punto di ricaduta ideale sia che tutti siano come asessuati. La procreazione, che è la sorgente dell’umanità, viene dall’incontro tra un uomo e una donna, il cui corpo è differente. La capacità del corpo della donna di portare la vita è probabilmente la sola differenza descrivibile tra il maschile e il femminile nell’umanità, bisogna meravigliarsi di questo mistero invece che non vedervi altro che un ingombro. Se si prosegue nella logica tecnicistica, bisogna temere che si cerchi di esternalizzare la procreazione negli uteri artificiali. Niente più congedo di maternità, e così si risparmieranno tanto tempo ed energie economiche, e delle autorità culturali ci spiegheranno quanto la vita sarà più gradevole…

Di fatto, la filosofia del nuovo progetto di legge è che il genitore è colui che ha l’intenzione di esserlo: che problema le fa questo?

S’instilla l’idea che il figlio sia portato dal progetto, dal desiderio e dall’intenzione dei suoi genitori. Per quanto mi riguarda, io voglio sì essere oggetto di un disegno di Dio, ma non necessariamente di un progetto dei miei genitori, per quanto possa essere benintenzionato. I cristiani sanno che un essere umano non si riassume all’incontro dei genitori, ma che è portatore di una vocazione, di una chiamata di Dio. Rimpiazzare tutto ciò col progetto parentale… faccio fatica (una fatica dolorosa) a vederci una promozione dell’umanità. Più precisamente, il progetto dei genitori dev’essere oltrepassato dalla vocazione di ciascuno. Quando saremo tutti misurati dalle intenzioni di quanti ci hanno generati, sarà l’ora di una grande violenza perché a quelle intenzioni non risponderemo totalmente o perché saremo delusi del ritrovarci prigionieri di intenzioni che non corrispondono a quel che vogliamo essere.

Un collettivo di associazioni, tra cui la Manif pour tous, invita a manifestare contro la legge il 6 ottobre. Numerose parrocchie si erano impegnate, nel 2012/2013, nella mobilitazione contro il mariage pour tous, e questo ha lasciato delle tracce. Prova rimorso per come sono andate le cose?

Nell’insieme, queste sono state delle belle manifestazioni, meno “contro” qualcosa che “per” dire un impegno, quello di uomini e di donne a far vivere la propria famiglia in un certo rispetto, con i loro limiti e le loro debolezze. Un certo numero di parrocchie – e di vescovi – li hanno incoraggiati, e un certo numero di fedeli si sono sentiti a disagio, ridotti al silenzio. Personalmente, penso che la struttura parrocchiale non abbia a fornire truppe per una manifestazione. Manifestare è un atto politico, non una processione. Che dei parrocchiani convinti distribuiscano volantini dopo le messe per cercare di coscientizzare i loro vicini, questo fa parte della vita civile, ma che ci si serva di omelie e di annunci parrocchiali per questo non mi pare giusto. Si chiude la porta in faccia a fedeli che cercano di vivere di Cristo ma che per differenti ragioni non comprendono la prevenzione degli altri su questo o quell’argomento, senza che ciò rimetta in causa la loro fede in Cristo. Come aveva detto il cardinale Vingt-Trois all’epoca: bisogna “manifestarsi”, a ciascuno spetta discernere i mezzi. Scrivere ai propri rappresentanti, deputati o senatori, può essere tanto efficace quanto marciare in strada.

Laddove ci sono coppie cattoliche che ricorrono alla PMA, come può la Chiesa restare credibile affermando che non c’è alcuna omofobia nell’opposizione alla sua apertura alle coppie di lesbiche?

Fin dal 1987, con Donum Vitæ, la Santa Sede aveva pronunciato delle riserve sulla fecondazione in vitro, anche fatta tra padre e madre… Gli uomini e le donne, cattolici o no, fanno delle scelte, e io non sono sicuro che spetti ai loro vicini giudicarli, spetta a Dio. Ma come cristiani possiamo collettivamente intenderci sul fatto che riceviamo il nostro corpo come un dono, e dunque che il figlio è un dono e non il prodotto dei nostri desideri: ecco su cosa dobbiamo allertare i nostri contemporanei. Ci assicurano che non c’è rischio di eugenetica, ma dal momento in cui si produrrà il figlio fuori dal corpo della madre ci saranno sempre persone a reclamare che il bambino corrisponda sempre più ai loro desideri. Ci sono già dei casi negli Stati Uniti. Poiché tutto è collettivizzato – giacché la PMA richiede una considerevole mobilitazione di mezzi medici – e che non si tratta di individui isolati che vi fanno ricorso a casa loro, è la società che porterà la responsabilità di queste storie, per il fatto di averle rese possibili.

In questo contesto, i cattolici debbono reinvestire le carriere mediche?

Sì, e sarà difficile perché sono settori presi in carico dal servizio pubblico. Cosa che ha comportato la scomparsa delle religiose dagli ospedali, un’espressa volontà di secolarizzazione. Oggi il cammino non è molto semplice, per i giovani cattolici che cominciano gli studî di medicina: in un certo numero di percorsi, fanno fatica a evitare di partecipare a un aborto. Giovani infermieri e medici si ritrovano osteggiati e messi da parte per aver rifiutato di praticare certi atti. Eppure ci sono numerosi luoghi di frattura sociale in cui la società e lo Stato non sono presenti e dove i cristiani giocano un ruolo oppure hanno un ruolo da giocare. Nell’insegnamento, in certi settori della sanità, al fianco della quarta età e di quanti soffrono di malattie degenerative, nell’accompagnamento a domicilio delle persone che escono dall’ospedale, poiché i pazienti resteranno sempre meno tempo in ospedale. Personalmente per me sarebbe già un sogno se un parrocchiano, quando si ammala, potesse essere sostenuto da quanti partecipano alla messa nello stesso posto dove va lui. Bisogna senza dubbio che usciamo dal rispetto (molto francese) della vita privata di ciascuno e cominciamo a preoccuparci degli altri. Bisogna essere creativi!

Quest’estate lei ha assunto le sue funzioni di presidente della Conferenza dei vescovi di Francia. Come conta di incoraggiare questa creatività?

Cercando di corrispondere alla funzione, che non è quella di capo dei vescovi o della Chiesa di Francia! Noi pensiamo, insieme con i membri del consiglio permanente, che dobbiamo vivere un po’ diversamente le nostre assemblee plenarie [tutti i vescovi di Francia si riuniscono a Lourdes due volte l’anno, N.d.R.]. A novembre, a Lourdes, faremo un’esperienza concreta: proporremo un modo di fare un po’ differente, introducendo degli elementi di sinodali perché i vescovi non stiano soltanto “fra di loro”.

In che modo?

Vedrete! La forma non è ancora completamente stabilita. La mia idea personale è che la figura stessa dell’emiciclo, in cui si raccolgono i vescovi, induca un’analogia con funzionamento parlamentare. Non sono certo che ciò corrisponda al meglio al nostro ruolo. Anzi – del resto il papa ce lo domanda – dobbiamo ascoltare le aspettative del popolo di Dio nel suo insieme, sapendo che non possiamo raccogliere 67 milioni di francesi sulle rive del Gave de Pau. La voce del popolo di Dio non si riassume neppure nei responsabili dei movimenti, in quanti sono impegnati e si assumono delle missioni: bisogna ascoltare anche le persone a margine della Chiesa, essere più attenti agli uomini e alle donne che ci circondano – cattolici o no.

E dunque dare uno spazio più grande alla voce e all’esperienza delle donne cattoliche, in àmbiti particolari come la bioetica?

Bisogna crescere, in questo. Esistono donne dottori in teologia, in teologia morale, ma c’è del lavoro da fare per incoraggiare questa parola e permetterle di esprimersi, creare modalità per poterla sentire. Dobbiamo progredire, in questo campo, è chiaro.

Lei che sta sul territorio: qual è la sua percezione della situazione della Chiesa in Francia?

L’anima francese, se questo vuol dire qualcosa, è molto impregnata dal cristianesimo, anche nel suo rifiuto del cristianesimo, ma questo non basta a farne un paese fervente, anche se ci sono persone ferventi… Concretamente, nella mia diocesi ci sono 79 preti incardinati, una decina di venuti dall’estero, e fra loro 27 che hanno meno di 70 anni e 7 che hanno meno di 50 anni. Ci resta un seminarista. Lamentarsi della “mancanza” di preti non serve a granché. Meglio realizzare che questi 89 preti sono il dono che Dio ci fa oggi. Di questo dono bisogna meravigliarsi e occorre utilizzarlo al meglio. Dunque fisseremo dei luoghi in cui la messa sarà celebrata la domenica in funzione delle forze reali di cui disponiamo, e tenteremo anche un ministero più itinerante, sul modello delle missioni di una volta: ad esempio con un’équipe che passa due settimane in un posto e propone delle attività adatte al luogo, andando a visitare le persone malate o isolate, le famiglie che lo vorranno. Le persone non vengono più spontaneamente verso di noi. Eppure la crisi dei gilet gialli ha mostrato che c’è un reale bisogno di prossimità nella nostra società. Bisogna dunque andare più vicino alla gente, anche nei paesini nei quali rischiamo di non andare più se poniamo sede in un centro. Il prete itinerante non circolerà più a piedi o a dorso di mulo, lo vedo con un camioncino! E i laici hanno la loro parte in queste missioni. Restano ancora tante cose da inventare…

Note

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1 Traduzione di Giovanni Marcotullio

1 commento

  1. Oggi serve che il clero va verso la gente, le va a trovare un po alla volta, c’è un grande bisogno, di fargli conoscere la storia della salvezza.
    Che Dio è Amore, che ci Ama.
    Grazie. Buon proseguimento.

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