Stefano, o dell’Amore del Terzo giorno

Contemplando il Bambino quest’anno, i miei sguardi degli anni precedenti, nel ricordo, mi sono apparsi talmente inconsistenti da non depositarsi neanche come pulviscolo sulla mangiatoia. Nel giorno di Natale – complice la lettura della vita di San Francesco, che di Presepi ne sapeva qualcosa, – ho fissato lo sguardo su Lui. Mentre il mio parroco, padre Massiliamo, con voce ferma ed emozionata al contempo, leggeva il Prologo di Giovanni, il Verbo si è fatto carne davanti a me. Le parole lette infinite volte hanno preso vita ed era la vita piccola e rosea, sgambettante e gioiosa, di un Bambino deposto su una mangiatoia. Se ripenso ai miei occhi che non riescono a staccarsi dalle fattezze morbide di quella carne che sembrava viva, mi vengono in mente le parole evangeliche: «E fissatolo lo amò» (Mc 10,21), che traducono l’incontro di occhi e di cuore tra Gesù e il giovane ricco. L’amore sembra una questione di contemplazione.

Sì, ma quale amore?

Il mio parroco, commentando il Prologo, ha affermato perentorio che l’amore vero non c’entra affatto con il sentimento stucchevole di cui siamo abituati a parlare. Quasi a fare da pendant alla sua affermazione, poche ore dopo mi sono imbattuta in questa breve meditazione natalizia di San Josemaría Escrivá:

Spingiti fino a Betlemme, avvicinati al Bambino, cullalo, digli tante cose ardenti, stringitelo al cuore… — Non parlo di bambinate: parlo di amore! E l’amore si manifesta con i fatti: nell’intimità della tua anima, lo puoi ben abbracciare!

(Forgia 345)

Poi, quasi a chiudere il cerchio, ho letto qualche pagina dell’ultimo libro di Alessandro D’Avenia, Ogni storia è una storia d’amore, ricevuto in regalo. Una delle storie di cui tratta è il legame tra il poeta inglese John Keats e la sua Fanny.

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John Keats, in un dipinto di William Hilton

La loro storia – complice il film Bright Star di Jane Campion – mi era sembrata struggente e dolcissima. Tanto più perché ebbero poco tempo per vivere la loro relazione, interrotta dalla morte prematura di lui, malato da tempo di tisi. D’Avenia, però, leggendo il carteggio, suggerisce un’altra chiave di lettura, molto più realistica. L’amore di Keats per la sua bella non era fatto per durare: non avrebbe superato la prova della continuità di un amore che “comprende” tutta una vita: «Vorrei quasi che fossimo farfalle – scrive Keats – e vivessimo solo tre giorni d’estate». È incredibilmente poetico, ma D’Avenia, servendosi della voce di un’altra figura che rilegge la storia, scrive, richiamandosi a Narciso, che non amava nessuno, fuorché se stesso:

Accettava solo un amore della durata di tre giorni, leggero come le ali di farfalle, mobile come l’acqua in cui specchiare il proprio volto… (p.29)

L’“amore dei tre giorni” è incantevole come una vecchia fotografia che ci sorprende da un cassetto, riportandoci ad un’età in cui l’attraente ci sembra l’unico termine di paragone, ma non conosce la vera bellezza solida e certe volte ruvida di un legame che allunga la sua ombra su giorni e giorni, poi mesi, poi anni, fino ad oltrepassare il tempo. L’“amore dei tre giorni” è disimpegno, gioco effimero, fuoco che divampa rapido, lasciando ceneri attorno.

L’Amore, quello autentico, è una questione di contemplazione, non è stucchevole, non ha a che fare con le bambinate, si manifesta con i fatti. Certe volte non è nemmeno poetico, ma la sua narrazione, alla fine della storia, è musica sublime per le orecchie. Soprattutto non dura lo spazio ristretto di “tre giorni d’estate”. È, semmai, l’amore del Terzo giorno, quello che schiude sempre alla Vita vera.

Stefano, il primo martire, di cui la Chiesa ci chiede di fare memoria subito dopo il Natale, nella sua storia paradigmatica racchiude tutti questi elementi dell’amore. Contempla la Gloria di Dio, agisce da uomo (non fa bambinate e non è stucchevole), talmente pieno com’è di Spirito che gli avversari non possono resistergli, si lascia condurre alla lapidazione senza protestare.

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Stefano capisce, soprattutto, che la sequela non è una questione di farfalle svolazzanti che durano poco tempo: è stare con Cristo, saldi e costanti, fino all’effusione del sangue, se questa è la volontà di Dio. L’Amore è conformarsi a Cristo: la preghiera pronunciata da Stefano prima di morire richiama quella di Gesù sulla croce perché è ormai Cristo che vive in lui. Benedetto XVI scrive:

Egli, come il suo Maestro, muore perdonando i propri persecutori e ci fa comprendere come l’ingresso del Figlio di Dio nel mondo dia origine ad una nuova civiltà, la civiltà dell’amore, che non si arrende di fronte al male e alla violenza e abbatte le barriere tra gli uomini, rendendoli fratelli nella grande famiglia dei figli di Dio.

(Angelus 26 Dicembre 2009)

L’amore di Stefano è l’amore che chiede per sé il Bambino, venuto per noi. Quel Bambino è l’Amore che fonda la civiltà dell’amore, di cui gli autentici amori terreni sono la manifestazione più bella. Anche delle ali multicolore di una farfalla.

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