Ora seppelliamo per bene Totò Riina. E rivivano le sue vittime

Il boss di Cosa Nostra Salvatore Riina alla sua prima udienza del processo sulla strage di Capaci, nell' aula-bunker dell'Ucciardone, Palermo, 28 febbraio 1993. ANSA

Totò Riina ha avuto, per sua scelta, la vita segnata dal sangue di molti miei conterranei. Era pluriergastolano per gli omicidi di Emanuele Basile, Ninni Cassarà, Boris Giuliano, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino. Tra gli altri. Ma non ho festeggiato la sua morte perché ho in mente un altro siciliano, che, di fronte al cadavere di un criminale, si fermava in raccoglimento.È Rosario Livatino, che negli stessi anni in cui il boss più noto faceva scorrere il sangue di tanti giusti, compiva silenziosamente e caparbiamente il proprio dovere, fino a cadere anche lui, come tanti, morto ammazzato nella Sicilia dei miei anni giovanili, ad opera di altre mani mafiose. Livatino, con il suo esempio, mi ha insegnato che la morte non cancella il nostro passato (è meno livella di quello che pensiamo), ma è un evento che i vivi non devono oltraggiare con parole sguaiate. Chiunque sia il morto.

Per me, la cronaca del periodo in cui Riina e gli altri come lui hanno agito, insieme o per conto proprio, è singolare. Da una parte c’era la mia vita da liceale prima, da universitaria dopo, normalissima; dall’altra parte, improvvise come i temporali d’agosto, c’erano quelle zone d’ombra: l’omicidio di due – due! – giudici concittadini; quello di un prete – un prete! – a Palermo; quelli di magistrati e uomini delle forze dell’ordine e professionisti che facevano solo il loro lavoro, che saltavano in aria o cadevano a terra crivellati di colpi.

Giovanni-Falcone-e-Paolo-Borsellino

C’erano anche gli omicidi di molti di loro perché la mafia è una belva che dilania anche i suoi.

I siciliani che hanno vissuto quegli anni possono capire fino in fondo quella sensazione indescrivibile di camminare metaforicamente per una strada, dove ogni tanto, di punto in bianco, si aprivano delle spaventose voragini. Gettando un’occhiata dentro, eri colpito dall’esistenza di un mondo che, quasi accanto al tuo, aveva altre leggi. Era (è) un male concreto, fatto di estorsioni, di intromissioni losche in affari puliti, di affari sporchi che parevano (paiono) limpidi, di segreti taciuti o rivelati. Un male che – minacciato o minatorio – si accaniva poi su altri uomini, colpevoli o innocenti che fossero. Quasi un pianeta parallelo che non c’entrava alcunché con la vita quotidiana di molti di noi. Perché tutti abbiamo peccato – direbbe San Paolo, riconducendo immediatamente il nostro orgoglio ai nostri limiti creaturali e a scelte comuni di male – ma alcuni perseguono, certe volte fino in fondo, la strada che porta alla morte dell’anima.

L’occhiata a quelle voragini, però, inaspettatamente ti permetteva di comprendere che quel mondo oscuro, di cui non ti sentivi parte, era combattuto strenuamente da persone più simili a te, molto più coraggiose di te, legate al tuo stesso patrimonio di bene, che in famiglia ti passavano insieme alle caramelle di carruba del nonno. Persone che avevano creduto ai tuoi stessi ideali di bene e di giustizia fino al punto di dare la vita. Così mentre la mafia ammazzava, implacabile ed efferata, dentro molti di noi, abitanti di questa terra sofferente e straordinaria, ha continuato a crescere un seme di bene, grazie al sacrificio di quei giusti che, magari ignoti fino al giorno prima, dopo la loro morte diventavano come familiari.

Questo scritto avrebbe dovuto parlare di Riina. Ma cosa dire di un uomo che ha ridotto uomini a pezzi, macchine in ammassi di lamiere, strade in cumuli di detriti? Non l’unico – mai dobbiamo raccontarci tra noi la fiaba che la mafia finisce con la morte dei nomi “eccellenti” – ma a lui si deve buona parte delle storie di dolore che abbiamo visto e poi letto per anni. Cosa dire dunque di quest’uomo? San Gregorio di Nissa ci potrebbe suggerire:

Se […] l’impronta divina stessa è impressa nell’esistenza virtuosa, è chiaro che la vita viziosa diviene forma e volto dell’avversario

(Omelie, orazione sesta)

Ma, riconoscendo la nostra limitatezza, è meglio lasciare a Dio il giudizio su quegli 87 anni che, apparentemente, non hanno mai conosciuto pentimento, e far nostre le parole di Rosario Livatino:

Per giudicare occorre la luce e nessun uomo è luce assoluta

Possiamo solo immaginare che Totò u curtu, di fronte ad occhi penetranti più dei suoi, avrà perso ogni difesa inautentica, avrà deposto ogni alibi pretestuoso. Non è più il “capo dei capi”: solo uno che sarà stato giudicato, come saremo tutti. Ma, come in quell’età giovanile, dove più la mafia uccideva, più germogliava in me la coscienza della necessità di un mondo pulito e umano, senza pianeti paralleli, anche ora non è lui il protagonista dei miei pensieri. Ci sono Paolo, Giovanni, Rocco, Boris, Ninni, Antonino, e tutti gli altri giusti, più vicini a Dio di me, beati perché “affamati e assetati di giustizia”. Se guardo alle loro vite, spente prematuramente ma significative, come più di mille vite insieme, e poi medito su quella vita lunga prima trascorsa tra arresti e latitanza e costellata da fatti di sangue, infine sepolta dentro ad un carcere fino alla morte, non ho alcun dubbio: loro hanno scelto “la parte migliore”.

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