Avvolto in una luce sfavillante, un portico conduce il pellegrino in quel magnifico edificio che è il IV Vangelo. Non si tratta solo di un accesso da valicare, ma di un incantevole luogo in cui soffermarsi: nello spazio di pochi versetti sono liricamente anticipate tutte le suggestioni presenti nel testo giovanneo.
È il prologo, maestoso inno cristologico, in cui i misteri della nostra fede, dalla creazione all’incarnazione, dalla morte in croce all’ascensione, sono compendiati, in una bellezza che è ancor più affascinante proprio perché oggi appare celata a molti. Un testo, come direbbe il Manzoni, più famoso che noto: merita di essere riletto per la sua struggente densità poetica: la luce vera entra nel mondo per illuminare ogni uomo, ma gli uomini scelgono le tenebre, il buio la notte. E con le tenebre scelgono la paralisi, l’assolutizzazione di qualcosa o di qualcuno, a scapito di quell’opzione preferenziale che sola, profuma a un tempo di luce e di libertà.
È la scelta del Verbo sostanza del nostro ragionare, parola creatrice e ricreatrice. Ed è per questo che quella parola prima e ultima a quanti la accolgono dona il centuplo in questo mondo e la gioia senza fine. Un mondo in cui quella parola si fa tenda, capanna precaria in cui dimorare, con il soffitto aperto di quel tanto che basta per scorgere le stelle. Loro sono la nostra luce, ed è seguendo una di loro, la cometa, che i Magi adoreranno il verbo fatto carne, scandalo supremo di un Dio che è tanto grande da poter vagire, e tanto piccolo da donarsi oggi in una particola consacrata.
Vorrei che l’uomo contemporaneo, prono su schermi artificiali ed artificiosi, spesso capaci di distogliere più che di illuminare il reale, tornasse a respirare questa luce: allora sì che conoscerebbe la sazietà, gusterebbe la manna caduta dal cielo, allora sì che le carrube dei porci di cui avrebbe voluto cibarsi il figliol prodigo, gli apparirebbero per ciò che sono – antenati del cibo spazzatura.
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