Quella “pace disarmata e disarmante” che Leone XVI non si stanca di implorare andrebbe certo costruita nelle relazioni diplomatiche, ma ci riguarda intimamente anche da altri punti di vista. Abitiamo società sempre più conflittuali: la strada, i campi di calcio, le scuole, le corsie degli ospedali, divengono luoghi in cui si combattono battaglie tanto feroci quanto insensate. No si tratta di affastellare fenomeni diversi, ma di comprendere che questo atteggiamento si spiega anche con una radicale mancanza di ascolto.
Ci piace parlare, ridurre il mondo ad una curva in cui tutti la pensano come noi, amiamo amplificare le nostre opinioni scrivendole, magari in maiuscolo e con un profluvio di punti esclamativi sui social; ma fatichiamo ad ascoltare i pareri altrui, cioè quella parte di “verità” che non diciamo perché non ci aggrada. Eppure da sempre, nella nostra obliata radice semitica, l’ascolto è aurora della comunicazione. Per questo dobbiamo affermare che, se vogliamo costruire nei nostri cuori e poi auspicabilmente diffondere nella società quella “pace disarmata e disarmante” di cui parla il Santo Padre, dobbiamo favorire una cultura dell’ascolto.
In positivo, vanno creati spazi di autentica apertura all’altro, al lontano, al diverso, non per compiacerci nel nostro presumerci buoni, ma perché ci aiuti a vedere le cose anche da un altro punto di vista, forse complementare a quello da noi prediletto.
Ma dobbiamo anche bandire quei momenti polarizzati e polarizzanti che si alimentano della perniciosa cultura del nemico. Li abbiamo già vissuti: sono quei frangenti in cui l’altro smarrisce la sua stessa umanità, divenendo il nostro bersaglio. Occorre, ammonisce ancora Leone, “disarmare le parole” per comprendere, non necessariamente per comporre, le cause dei conflitti.
Abbiamo provato a vivere in un mondo interamente fatto da noi, ci siamo illusi che un’orizzontalità refrattaria ad ogni trascendenza avrebbe costruito, con la sua stessa esistenza, un universo più umano: non è accaduto. Non solo: accade anche che, persone teoricamente ispirate a quella trascendenza, mostrino la stessa incapacità di ascoltare ed accogliere che rimproverano agli altri.
Si tratta di un fenomeno profondo che coinvolge la più inconsapevole delle idolatrie quella del proprio io cui, con questi atteggiamenti, si crede di rendere culto. In realtà lo si sminuisce: perché è il tu, il mio prossimo, a rendermi autenticamente un io aperto e relazionale. In questo orizzonte l’altro, ogni altro, cessa di essere un pubblico plaudente, per divenire il protagonista di quella narrazione dimenticata che rappresenta, ancora oggi, la più mirabile potenza dell’umano.
In questo orizzonte si impone una sfida: proviamo ad accogliere nuovamente il dono della pace da colui che ci ha detto: «Vi lascio la pace vi do la mia pace non come la dà il mondo». Ed ecco un altro punto chiave: non sono gli applausi, i successi, la popolarità a buon mercato il criterio ultimo su cui saremo giudicati.
È l’amore, versato non su un “oggetto” degno e bello, ma sul fratello più piccolo e dimenticato, su quello studente apparentemente disinteressato che sonnecchia all’ultimo banco. Non lasciarlo indietro, veramente, non significa mandarlo avanti, ma aiutarlo a capire ed a capirsi, ad ascoltare ed ad ascoltarsi. Ecco un altro modo di costruire in e con se stessi quella “pace disarmata e disarmante” di cui si avverte un prepotente bisogno.
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