
L’intelletto conosce, la volontà sceglie: ed è alla luce di questa seconda categoria che Agostino, interamente formato nella cultura latina, legge il messaggio biblico. Una lettura che, nonostante non sia l’unica possibile e, per certi rispetti, neppure la più profonda, ha influito come poche altre sulla cultura dell’Occidente. Un influsso geograficamente proveniente dall’Africa romana, eppure capace di dischiudere orizzonti nuovi alla stessa latinità.
Sorvolando lo sterminato e variegatissimo paesaggio dell’opera del Vescovo di Ippona, molti sarebbero i luoghi filosofici, teologici, esegetici, da cui poter attingere questo influsso. Tra tali luoghi ho però scelto un passo celeberrimo, narrato nel II libro delle Confessioni. Ormai adulto, Agostino rammenta un fatto della sua infanzia, forse ingigantendolo retoricamente, ma essendo comunque capace di trarne una lezione che, mutate le circostanze resta ancora valida. Si tratta, come qualcuno avrà già intuito, del furto delle pere: il male si palesa qui in tutta la sua forza, inutile ma, proprio per questo, seducente. Agostino ruba dei frutti, pur possedendone in casa di migliori, e non lo fa per fame, tanto che li regala ai maiali, ma per il fascino del proibito.
Per certo la tua legge punisce il furto, o Signore, e la legge scritta nel cuore degli uomini, che neppure la stessa iniquità può cancellare.
Si palesa qui una doppia legge: quella di Dio scritta nelle dieci parole di vita, ma anche quella naturalmente inscritta dall’Altissimo nel cuore di ciascun uomo: e le due leggi concordano, rubare è un male. Una concordanza che Agostino, retore raffinato, inferisce da questo: neppure un ladro accetta di essere derubato, in nessun caso, anche se egli è ricco e chi lo deruba è povero.
Ma il passo del Vescovo di Ipona non si arresta a pur lodevoli considerazioni di ordine generale: come sempre è la vita a prorompere, a farsi filosofia:
E io ho voluto compere il furto, e lo ho commesso senza essere spinto da alcuna indigenza, se non dalla mancanza e dal disprezzo del senso di giustizia e dalla grandezza della mia iniquità. Infatti io rubai proprio ciò che avevo in abbondanza, e di qualità molto migliore: e non volevo quindi godere di quella cosa che desideravo attraverso il furto, ma del furto stesso.
Il male ha un fascino perverso: ad Agostino le pere non servono: egli non ha e non cerca attenuanti, eppure, ecco la parola di speranza che ci raggiunge in questo anno giubilare, anche a questo giovinastro ribelle Dio a usato misericordia.
Ecco il mio cuore, Dio, ecco il mio cuore, di cui hai avuto pietà nel profondo abisso… non amai ciò per cui venivo meno, ma il mio stesso venir meno.
Insomma con il furto delle pere Agostino “non aspira a qualche cosa per vergogna, ma alla vergogna stessa”. Eppure, lo ripetiamo, Dio gli ha usato misericordia, gli è corso in contro, lo ha afferrato, attirandolo a sé. Gli ha fatto scoprire una Legge oltre la legge.
Ma in tutto questo Agostino un merito, non piccolo lo ha: non si basta, non crede di salvarsi da solo, polemizza contro Pelagio e contro i pelagiani di ogni tempo. Esagera? Forse, ma quanto ci sono necessarie anche le sue esagerazioni, soprattutto in un tempo in cui ci ripetiamo di poter contare solo su noi stessi.
Grazie prof, un articolo necessario quanto mai oggi, nell’era dell’orgoglio.