
Vi è stato un tempo in cui l’intero arco della vita umana era compreso a partire da narrazioni globali, capaci di involvere ogni evento in un senso dato, o di vivere come dotato di significato il cammino che si stava intraprendendo. Lo slogan secondo cui “Il viaggio è la meta” offre una icastica descrizione di questo secondo punto di vista. Oggi esistiamo nell’atomo, o, secondo un filosofo moderno, in una monade priva di porte e finestre.
Ci ripetiamo certo che “Nessun uomo è un’isola”, ma fatichiamo a collaborare, a condividere conoscenze, a metterle in rete, soprattutto se questa non è orizzontale. Abbiamo un atavico terrore nei confronti di tutto ciò che è sovraordinato rispetto a noi, un terrore certo derivante da eccessi dispotici di un capriccioso autoritarismo, ma non meno pericoloso di quegli effetti.
Contrasta con questa paura la pura gioia del dono: inaspettatamente riceviamo una parola, un gesto, e questo ci riempie di gratitudine e di gioia tanto crescenti quanto più tutto ciò ci appare come immeritato. Se il mondo ideologico pretendeva di descrivere l’intera realtà, il tempo del frammento si contenta minimalisticamente di alcuni miti che sopravvivono per la loro acritica ripetizione. Tali narrazioni fondanti appaiono però refrattarie alla discussione critica perché la loro forza non è argomentativa ma propriamente emotiva.
Prima di accennare questa discussione vorrei affermare con forza che l’uomo ha bisogno di miti: i popoli, le religioni, persino le squadre di calcio hanno le loro narrazioni che rappresentano la nostalgia di un senso globale trasposta nell’asteroide del frammento. Un primo mito è quello del basso. Tutto ciò che viene dal basso, cioè dalla organizzazione, più o meno spontanea degli individui, è acriticamente giudicato in modo positivo. Ma proprio questo ci impedisce di apprezzare quanto proviene dall’alto, da una Chiesa, da una istituzione, proprio perché non parrebbe fatto da noi e per noi. Invece di ripetere questo mantra, proviamo a riflettere: quanti aspetti della nostra vita, proprio perché non fatti da noi, ci condizionano, ci limitano o ci favoriscono in modo assolutamente indipendente dalla nostra volontà? Nessuno di noi ha scelto la condizione fisica, il tempo, la nazione e la famiglia in cui nascere: eppure queste circostanze ci condizionano, certo non in modo deterministico.
E arriviamo così al secondo mito: quello di colui che lotta per autorealizzarsi, che si fa da sé, contro un mondo dispotico e crudele. Per l’etica aristotelica infelice era l’uomo solo, soprattutto se ricco: le relazioni che intessiamo, la stima che costruiamo attorno a noi, rappresentano un capitale immateriale capace di donare serenità anche in assenza di un successo tangibile. Ed allora ci chiediamo quale differenza vi sia tra le relazioni e questo mito del basso? La relazione esige frontalità, prevede l’assolutezza del tu che mi costituisce in quanto io.
Il mito del basso è molto meno esigente: gli basta che istituzioni, chiese, giornali, riconoscano come fondamentale quanto creato da quella realtà. Allora e solo allora essi sono: aperti, progressisti, democratici, con un atteggiamento che, a ben guardare, non è meno autoreferenziale.
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