
Mentre un anno scolastico volge al termine, mi chiedo cosa io abbia imparato insegnando storia e filosofia. Ho imparato che no si finisce mai di apprendere: i vorticosi cambiamenti in cui ci troviamo involti rischiano di travolgerci se non ci sforziamo di rimodellare il nostro sapere affinché continui, se non ad affascinare, almeno ad interessare quell’uditorio non pagante che sono i nostri studenti.
L’involucro può certo mutare e la veicolazione dei contenuti è importante perché se il metodo è inadeguato l’apprendimento ne risente pesantemente. Alcuni stili di trasmissione possono risultare addirittura controproducenti, se non ottundenti: ma la passione di un docente che traspare in un rigore metodologico e contenutistico, rappresenta uno stimolo insuperato ed insuperabile.
Alcuni interrogativi di fondo, infatti, se maieuticamente sollecitati resistono ed avvincono riguardando non i come ma i perché. Ho poi anche appreso che le discipline che ho la fortuna di insegnare rappresentano altrettante bussole per orientarsi in uno spazio irto di insidie. Bussola cronologica è la storia che ci situa incastonando i fatti, i pensieri, gli stessi sentimenti nel volubile orizzonte del tempo, non già mero sfondo ma attore indispensabile del divenire.
Il mutare delle priorità assiologiche, dei paradigmi culturali, delle stesse scelte degli uomini e dei popoli, è una bussola, il cui Nord non è rappresentato dall’insulso desiderio di paragonare ogni tempo al nostro, ma da quello di apprezzare, conoscendole, le caratteristiche di quanto apprendiamo. Bussola etica la filosofia, perché chiamata non certo a imporre una “morale di Stato”, ma a far inoltrare lo studente nei sentieri interrotti, nelle aporie, nella oscura selva dei diversi punti di vista alla luce dei quali uno stesso fatto può essere letto. Ed è stato bello sorprendersi, per l’ennesima volta senza mai esserne pago, di quanto eminenti personalità filosofiche vissute secoli or sono continuino ad affascinare gli allievi.
È stato bello perché, oltre la routine delle attività, ha confermato questa mia convinzione: anche se un solo studente si valesse criticamente della forza del pensiero, l’orizzonte della domanda non sarebbe stato interamente abolito. Sì perché anche, se non soprattutto, nel mondo dell’intelligenza artificiale, la vera questione non è quella di fornire risposte, ma di imparare a porsi ed a porre domande. Perché lo spirito questionante che alimenta la filosofia testimonia, con la sua sola esistenza, il rifiuto di quel “levigato sentiero dei modi di dire” in cui, ignari, i più si aggirano.
Solo così il perdersi nella domanda sarà, in realtà, un ritrovarsi: l’acquisizione di una consapevolezza nuova, realmente filosofica. Una consapevolezza secondo cui da un lato la ricerca non avrà mai fine, e dall’altro «una vita senza ricerca non merita di essere vissuta».
Socrate e Popper, lontani tra loro non solo cronologicamente, sono forse i più lucidi testimoni di questa consapevolezza: ieri come oggi il pigro destriero ateniese ha bisogno di un tafano che lo pungoli, ieri come oggi questo tafano si chiama filosofia.
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