
Se l’amore deriva solo dal dono e non dall’eccellenza dell’oggetto, se dipende da un volontario abbassamento di Dio e non da uno sforzo ascensionale dell’uomo, se è disposto a sopportare ogni cosa senza vantarsi dei suoi successi; allora si determina una rivoluzione radicale.
Un mutamento che pur inserendosi per alcuni rispetti nei quadri dell’antropologia ellenica, li sconvolge totalmente, svelando all’uomo l’orizzonte dell’umiltà e della purezza: il Cristianesimo compie questa rivoluzione, definendo beati i miti e i poveri in spirito, la nuova religione indica come modello non l’uomo che si sforza di raggiungere volontaristicamente il divino, ma l’apparente inutilità del bambino.
Un bimbo, infatti, non ha nulla da offrire in una società agro-pastorale perché consuma risorse senza produrne: indicandolo come modello Gesù ci parla dell’umiltà, di un’indigenza programmatica dell’uomo a salvarsi da solo. Nel suo etimo latino “umiltà” allude alla terra: non è un caso che, secondo la narrazione dell’Antico Testamento, dalla terra l’uomo è stato plasmato, ed al suolo ritornerà prima di risorgere nell’ultimo giorno con il suo corpo mortale; un corpo che non è più tomba ed accidentale involucro, ma tempio dello Spirito Santo per cui il problema fondamentale non è più quello dell’immortalità della Psiche.
Alla misteriosa colpa originaria che aveva fatto decadere l’anima platonica dalla sua sede primigenia si sostituisce il peccato, la disobbedienza ad un ordine di Dio stesso tanto grande da non poter essere riscattata da nessun atto volontaristicamente ascensivo.
Ed allora se l’uomo non può salire fino alle eteree regioni della divina imperturbabilità, tanto distanti dal mondo sublunare da essere costituite – così ritiene Aristotele – di una diversa materia; è Dio stesso che vuole scendere. Egli si fa vagito, riscatto, redenzione, salvezza: accetta di bere l’aceto e, nell’ora suprema, di essere aiutato dal Cireneo a portare la Croce. Ma affinché tutto questo scandalosamente sia, l’amore acquisitivo proprio dell’eros che, ridestato dalla bellezza, cerca nell’altro ciò di cui è privo non basta più. Occorre l’agape, un amore donativo che è carità, tanto scandaloso da estendersi oblativamente anche a ciò che amabile non sarebbe, al brutto, al nemico.
Apparentemente non vi è una parola di filosofia in tutto questo: eppure, come ha sottolineato l’idealista Benedetto Croce, senza tutto questo la cultura occidentale risulta incomprensibile, perché non è cultura ma paccottiglia ideologica la presunta marcia trionfale della ragione che nata in Grecia proseguirebbe con il Rinascimento e l’Illuminismo. Presunta, sia perché, anche a voler adottare questo paradigma non sarebbe una marcia lineare; sia, soprattutto, perché questo paradigma è storicamente e teoreticamente monco. Gli manca infatti quello che Pascal definisce “l’ultimo passo della ragione”: ammettere che molte realtà la superano, riconoscere che la realtà è più grande di lei.
Grazie Alessio e Giovanni. Le vostre riflessioni sono sempre un’occasione di approfondimento e crescita.