Attorno al primo mite ruggito di Leone XIV

di Giovanni Marcotullio

Neanche un giorno dopo aver visto il volto e conosciuto il nome dell’ultimo successore di Pietro, primo dei Dodici, lo abbiamo visto raccogliere attorno a sé il Sacro Collegio in quella medesima Cappella Sistina dalla quale, entrato elettore, egli era uscito Pescatore.

Normalmente è nella messa di avvio pontificato (programmata per il 18 maggio) che ci si aspetta l’“omelia programmatica” di un Papa – qualunque cosa quest’espressione impropria possa significare –, ma nella prima celebrazione di un uomo da “pescatore di uomini” è lecito scorgere, insieme con i suoi sentimenti a caldo, anche qualcosa della sua linea di pensiero.

Mentre è già stato dichiarato che il nome del Santo Padre è ispirato alla figura e al magistero di Papa Pecci – e Leone XIV ha riportato la pionieristica apertura della Dottrina Sociale della Chiesa alla frontiera dell’Intelligenza Artificiale –, desta doloroso sconcerto lo spaesamento di certi cattolici americani, la cui sclerotizzata polarizzazione li ha resi perfino incapaci di gioire per l’elezione del connazionale.

Seguono a ruota costoro quanti, purtroppo anche nel panorama italiano, giustappongono al (debito) entusiasmo per Leone XIV la loro trista litania contro Francesco: «Non avendo voluto essere discepoli della verità – verrebbe da dire riecheggiando le parole del primo Leone, il Grande, a Flaviano –, sono diventati maestri nell’errore».

Riportiamo di seguito il testo della prima omelia di Papa Prevost, insieme con il video. A seguire un breve commento dell’amico Alessio Conti.


di Leone XIV

«Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). Con queste parole Pietro, interrogato dal Maestro, assieme agli altri discepoli, circa la sua fede in Lui, esprime in sintesi il patrimonio che da duemila anni la Chiesa, attraverso la successione apostolica, custodisce, approfondisce e trasmette.

Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente, cioè l’unico Salvatore e il rivelatore del volto del Padre.

In Lui Dio, per rendersi vicino e accessibile agli uomini, si è rivelato a noi negli occhi fiduciosi di un bambino, nella mente vivace di un giovane, nei lineamenti maturi di un uomo (cfr CONC. VAT. II, Cost. Past. Gaudium et spes, 22), fino ad apparire ai suoi, dopo la risurrezione, con il suo corpo glorioso. Ci ha mostrato così un modello di umanità santa che tutti possiamo imitare, insieme alla promessa di un destino eterno che invece supera ogni nostro limite e capacità.

Pietro, nella sua risposta, coglie tutte e due queste cose: il dono di Dio e il cammino da percorrere per lasciarsene trasformare, dimensioni inscindibili della salvezza, affidate alla Chiesa perché le annunci per il bene del genere umano. Affidate a noi, da Lui scelti prima che ci formassimo nel grembo materno (cfr Ger 1,5), rigenerati nell’acqua del Battesimo e, al di là dei nostri limiti e senza nostro merito, condotti qui e di qui inviati, perché il Vangelo sia annunciato ad ogni creatura (cfr Mc 16,15).

In particolare poi Dio, chiamandomi attraverso il vostro voto a succedere al Primo degli Apostoli, questo tesoro lo affida a me perché, col suo aiuto, ne sia fedele amministratore (cfr 1Cor 4,2) a favore di tutto il Corpo mistico della Chiesa; così che Essa sia sempre più città posta sul monte (cfr Ap 21,10), arca di salvezza che naviga attraverso i flutti della storia, faro che illumina le notti del mondo. E ciò non tanto grazie alla magnificenza delle sue strutture o per la grandiosità delle sue costruzioni – come i monumenti in cui ci troviamo –, quanto attraverso la santità dei suoi membri, di quel «popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (1Pt 2,9). 

Tuttavia, a monte della conversazione in cui Pietro fa la sua professione di fede, c’è anche un’altra domanda: «La gente –chiede Gesù –, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16,13). Non è una questione banale, anzi riguarda un aspetto importante del nostro ministero: la realtà in cui viviamo, con i suoi limiti e le sue potenzialità, le sue domande e le sue convinzioni.

«La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16,13). Pensando alla scena su cui stiamo riflettendo, potremmo trovare a questa domanda due possibili risposte, che delineano altrettanti atteggiamenti.

C’è prima di tutto la risposta del mondo. Matteo sottolinea che la conversazione fra Gesù e i suoi circa la sua identità avviene nella bellissima cittadina di Cesarea di Filippo, ricca di palazzi lussuosi, incastonata in uno scenario naturale incantevole, alle falde dell’Hermon, ma anche sede di circoli di potere crudeli e teatro di tradimenti e di infedeltà. Questa immagine ci parla di un mondo che considera Gesù una persona totalmente priva d’importanza, al massimo un personaggio curioso, che può suscitare meraviglia con il suo modo insolito di parlare e di agire. E così, quando la sua presenza diventerà fastidiosa per le istanze di onestà e le esigenze morali che richiama, questo “mondo” non esiterà a respingerlo e a eliminarlo.

C’è poi l’altra possibile risposta alla domanda di Gesù: quella della gente comune. Per loro il Nazareno non è un “ciarlatano”: è un uomo retto, uno che ha coraggio, che parla bene e che dice cose giuste, come altri grandi profeti della storia di Israele. Per questo lo seguono, almeno finché possono farlo senza troppi rischi e inconvenienti. Però lo considerano solo un uomo, e perciò, nel momento del pericolo, durante la Passione, anch’essi lo abbandonano e se ne vanno, delusi.

Colpisce, di questi due atteggiamenti, la loro attualità. Essi incarnano infatti idee che potremmo ritrovare facilmente – magari espresse con un linguaggio diverso, ma identiche nella sostanza – sulla bocca di molti uomini e donne del nostro tempo.

Anche oggi non sono pochi i contesti in cui la fede cristiana è ritenuta una cosa assurda, per persone deboli e poco intelligenti; contesti in cui ad essa si preferiscono altre sicurezze, come la tecnologia, il denaro, il successo, il potere, il piacere. 

Si tratta di ambienti in cui non è facile testimoniare e annunciare il Vangelo e dove chi crede è deriso, osteggiato, disprezzato, o al massimo sopportato e compatito. Eppure, proprio per questo, sono luoghi in cui urge la missione, perché la mancanza di fede porta spesso con sé drammi quali la perdita del senso della vita, l’oblio della misericordia, la violazione della dignità della persona nelle sue forme più drammatiche, la crisi della famiglia e tante altre ferite di cui la nostra società soffre e non poco.

Anche oggi non mancano poi i contesti in cui Gesù, pur apprezzato come uomo, è ridotto solamente a una specie di leader carismatico o di superuomo, e ciò non solo tra i non credenti, ma anche tra molti battezzati, che finiscono così col vivere, a questo livello, in un ateismo di fatto.

Questo è il mondo che ci è affidato, nel quale, come tante volte ci ha insegnato Papa Francesco, siamo chiamati a testimoniare la fede gioiosa in Gesù Salvatore. Perciò, anche per noi, è essenziale ripetere: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16).

È essenziale farlo prima di tutto nel nostro rapporto personale con Lui, nell’impegno di un quotidiano cammino di conversione. Ma poi anche, come Chiesa, vivendo insieme la nostra appartenenza al Signore e portandone a tutti la Buona Notizia (cfr CONC. VAT. II, Cost. Dogm. Lumen gentium, 1). 

Dico questo prima di tutto per me, come Successore di Pietro, mentre inizio la mia missione di Vescovo della Chiesa che è in Roma, chiamata a presiedere nella carità la Chiesa universale, secondo la celebre espressione di Sant’Ignazio di Antiochia (cfr Lettera ai Romani, Saluto). Egli, condotto in catene verso questa città, luogo del suo imminente sacrificio, scriveva ai cristiani che vi si trovavano: «Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo» (Lettera ai Romani, IV, 1). Si riferiva all’essere divorato dalle belve nel circo – e così avvenne –, ma le sue parole richiamano in senso più generale un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità: sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato (cfr Gv 3,30), spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo.

Dio mi dia questa grazia, oggi e sempre, con l’aiuto della tenerissima intercessione di Maria Madre della Chiesa.


di Alessio Conti

Con quell’accento anglosassone venato di spagnolo, la voce dolce di Leone XIV abbraccia il mondo dalla città posta sul monte, chiamata da duemila anni, mediante la successione apostolica, a: custodire, approfondire, trasmettere, il patrimonio ricevuto da Cristo.

Le altre due definizioni della Chiesa identificata come faro e come arca vengono dopo: un’ulteriorità non solo cronologica, ma ecclesiologica. La chiesa può essere faro ed arca perché essa è “città posta sul monte”, luogo teologico in cui da sempre Dio si rivela all’uomo. Una Chiesa indicata anche come “corpo mistico”, che, giova dirlo subito, non si contrappone al suo essere Popolo di Dio, perché intanto la Chiesa può camminare con gli uomini, in quanto essa è custode di un annuncio che trascende l’umano.

Notazioni di straordinaria profondità, forse, per certi rispetti, inattese ed inattuali, ma rilevanti sia per la sede in cui sono state pronunciate – la Cappella Sistina – sia soprattutto per l’idea di Chiesa cui alludono nella prima Messa che il Santo Padre ha celebrato con i Cardinali elettori. Non è quindi un caso che il Leone XIV individui alla domanda su chi sia Gesù alcune risposte riduttive, unilaterali, fuorvianti che ne travisano non solo il messaggio, ma anche la stessa persona. Atteggiamenti, prosegue Leone, sorprendentemente attuali.

Vi è la risposta del mondo che considera Gesù “una persona priva di importanza”. Un mondo che abbandonerà presto il Cristo. Gli preferirà il suo sfavillio, la sua magnificenza; ma anche i suoi intrighi piccoli e grandi, icasticamente rappresentati da Cesarea di Filippo, la cittadina in cui l’Evangelista ambienta la scena commentata dal Papa. Solo apparentemente meno fuorviante è il secondo atteggiamento proprio di quella gente comune che aveva deciso di seguire Gesù unicamente come un grande uomo.

Persone probe, oneste, capaci di compiere molte lodevoli opere, ma non di accettare lo scandalo del Dio che muore in croce. E, proprio in virtù di un simile riduzionismo antropologico, anche questa categoria di persone si dileguerà nell’ora della Passione. Atteggiamenti questi che Leone non scorge solo nella pagina del Vangelo di Matteo che la liturgia del 9 Maggio propone, ma anche nella società attuale non esclusa la stessa Chiesa. Molti uomini e donne del nostro tempo preferiscono alla fede cristiana, altre sicurezze: il denaro, il successo, il piacere. In questi contesti, connotati da un ateismo di fatto, chi crede è deriso, ma, continua Leone, è proprio in questi ambienti che urge l’evangelizzazione.

Un annuncio che ribalti i criteri mondani: così chiunque abbia un ministero di autorità nella chiesa, conclude il papa, deve sparire, perché rimanga cristo.

Il figlio di Agostino, divenuto per opera dello Spirito santo nostro padre nella fede, abbraccia l’umiltà, ignota al pensiero ellenico, ma nata dal mirabile incontro tra un retore berbero – Agostino – e un vescovo meneghino – Ambrogio: Leone ce lo ha rammentato, Dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno.

1 commento

  1. Grazie Giovanni e grazie Alessio! E grazie al Papa per averci ricordato (anche lui) che cosa significa essere cristiani e popolo in cammino.

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