
Se (come certo ecologismo inconsapevolmente panteistico oggi vorrebbe) la natura fosse Dio, ne risulterebbe paradossalmente attenuata proprio la responsabilità umana nel “coltivare” e nel ”custodire” il creato.
Il monoteismo che compendia il dono della rivelazione biblica, proprio mentre afferma la totale alterità del Dio uno e unico rispetto alla natura, affida a ciascuno di noi la responsabilità del creato. Responsabilità significa, non solo dal punto di vista etimologico, essere chiamati a rispondere, soprattutto nei confronti delle generazioni future, dell’uso delle risorse naturali.
Contro quello che definiva il “prometeo scatenato” il filosofo Hans Jonas propone il suo ”principio responsabilità” che invita gli uomini ad agire in modo tale che il loro operato sia compatibile con la sopravvivenza della specie umana sul Pianeta Terra. Per “prometeo scatenato” intendeva uno sviluppo privo di limiti, auto alimentato da quel “principio speranza” che, in nome del miraggio di un mondo migliore, misconosceva l’umana fragilità.
La mortalità, la finitudine, la stessa limitatezza delle risorse naturali, dovevano condurre piuttosto a una prudenza, a una cautela per disinnescare l’incombente pericolo nucleare e la minaccia ambientale che si profilava già nel secondo dopoguerra. Non la speranza di un indefinito progresso (che Jonas vedeva operante nell’agire afinalistico della tecnica), ma “l’eristica della paura”, avrebbe dovuto guidare le azioni umane. Il filosofo scorgeva infatti nei disparati timori che costellavano già la sua epoca e che oggi, se possibile risultano oltremodo amplificati, il palesarsi di un esiziale rischio, quello della fine della possibilità stessa della vita umana. Per questo, anche dal punto di vista biblico, siamo noi, con il nostro lavoro irto di insidie e fatica, a far sì che la terra produca germogli, che le piante diano frutto, «ciascuna secondo la propria specie».
Non è quindi un caso che Jonas, prima di ricalibrare in senso ecologico l’imperativo categorico kantiano, abbia studiato approfonditamente le Sacre Scritture, soprattutto nell’ermeneutica che ne dettero gli gnostici. Prima di accantonare frettolosamente l’antropologia dei capitoli iniziali del libro della genesi, accusandola di quell’atteggiamento prometeico cui essa in realtà si oppone, dovremmo fare lo sforzo di conoscerla. E possiamo farlo proprio perché la natura, non essendo essa stessa Dio, tuttavia ci parla di lui.
Non sono solo i cieli a narrarne la gloria, ma, come ha notato Tommaso Campanella, anche un filo d’erba, il rossore di un tramonto, l’infrangersi di un’onda sulla battigia possono farlo. Proprio perché la natura non è Dio può essere affidata alla nostra custodia: è Dio stesso, per i Cristiani dalla paradossale cattedra della Croce, ad assicurarci che il nulla, la morte, il male non rappresenteranno l’amen del mondo.
Ma per questo l’Altissimo ha scelto di avvalersi della nostra collaborazione: ci chiede di allontanare quella notte del nulla che minaccia tanto la sua stessa creazione, quanto noi che ne siamo i custodi.
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