Perlustrare gli “interminati spazi” del sapere indagando sui «confini dell’anima che tu non potrai mai trovare, per quanto percorra le sue vie, tanto profondo è il suo Logos».
Fu questo il compito di Eraclito, attivo ad Efeso tra il VI e il V secolo a.C.
Il suo stile volutamente oscuro, a tratti oracolare, intendeva salvaguardare la profondità di questo Logos, intelligenza che è ordine e ragione, da chi, leggendo affermazioni solo apparentemente semplici, avrebbe potuto, ingannandosi, credere di comprenderle.
Apparentemente semplice è non la filosofia del pensatore di Efeso, ma il suo abbrivio: quell’incessante divenire in virtù del quale, come si legge in un celeberrimo frammento, noi non possiamo discendere per due volte nello stesso fiume che si compone di gocce d’acqua sempre cangianti, pur rimanendo, come rio, il medesimo.
“Tutto scorre”, ogni cosa muta: l’individuo sano si ammala, quello malato guarisce o muore, ma anche dalla sua morte rinasce vita nuova.
Il fuoco che si alimenta della distruzione del combustibile, donando a sua volta l’esistenza agli uomini e al cosmo, è segno di questa armonia dei contrari, da cercare oltre il mero divenire, attestato dai sensi la cui testimonianza può essere ingannevole.
Ma per una simile indagine è necessaria la filosofia, che l’idea del semplice mutamento renderebbe invece superflua, perché chiunque, anche solo osservando la sua esistenza, può percepirlo.
Ed è appunto questa superiore concordia degli opposti – attinta non dai più ma da quei pochi uomini che il filosofo definisce desti, in contrapposizione ai dormienti, perché capaci di servirsi della loro ragione – questa apparente contrapposizione, dicevo, domina il pensiero eracliteo, in cui il divino è ” fame e sazietà, fatica e riposo, salute e malattia”. Aspetti del reale questi che, a ben guardare, si implicano anche dal punto di vista umano: perché è la fatica a rendere più dolce il riposo, la fame a far apprezzare la sazietà, la malattia a rallegrarci per la ritrovata salute.
Ma questo sono solo i desti a comprenderlo, mentre i dormienti si arrestano abbagliati dall’ingannevole sfolgorare delle singole opposizioni.
Leggere in un’ottica “religiosa” il filosofo di Efeso significa sfuggire, pur senza negarne l’indubbia portata, alla politicistica contrapposizione tra la fazione aristocratica, cui egli per mentalità appartenne, e quella democratica, contrapposizione tanto più perniciosa se si onerano queste parole del loro significato schiettamente moderno, travisando i parametri etici della città-stato greca.
Come non è solo il pensatore del divenire, così Eraclito non rappresenta unicamente il portavoce di un’aristocrazia conservatrice: insieme con Anassagora, benché in una forma diversa, egli ha piuttosto intuito l’esistenza di quell’intelligenza ordinatrice che regge il mondo, ”fuoco eternamente vivente” di cui ogni cosa, e ciascun uomo, rappresentano una favilla.
Ma accanto al fuoco ecco profilarsi nel polisemico sistema del nostro filosofo un altro simbolo: la guerra, “madre e regina di tutte le cose” perché, facendole scontrare, le anima dall’interno, pur senza permettere però a ciascuna realtà di travalicare quella misura che è, a un tempo, ordine e principio di intelligibilità del mondo stesso.
Inquadrato in questa prospettiva, Eraclito cessa di essere il pensatore che rielabora, forse complicandolo, il senso comune (tutto cambia e noi stessi facciamo parte di un simile mutamento). Proprio con la valorizzazione del logos Eraclito favorirà una seminagione che i filosofi successivi, a partire da Platone, faranno insuperabilmente sbocciare.
L’Orfismo, un complesso e misterioso movimento religioso da cui la cultura ellenica attingerà l’idea che la vita terrena non si conclude con la morte, rappresenta il terreno di questa seminagione, i cui lineamenti però in gran parte ci sfuggono.
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