Un cucchiaio di mimosa / nell’imbuto di un polsino slacciato*

È tanto tempo che non scrivo più per Breviarium, per Giovanni e i suoi amici, ma ho una spina nel fianco che mi tormenta con tenacia così non monto in superbia, e le operazioni verità con cui sono costretta a spazzare il cuore hanno rivelato come le mie presunzioni di edificare con la scrittura fossero solo modi per migliorare l’intonaco della mia autostima vacillante. 

È una questione delicata, in equilibrio su un filo sottile, questa dell’orgoglio, della superbia e del desiderio di comunicare qualcosa di buono, come anche non è più facile districarsi tra vittimismo, autoflagellazione e compiacimento ad esporre le proprie povertà.

Per questo mi sono ritirata a lungo nel silenzio, che ho riempito comunque di parole, per pesarne il contenuto e saggiarne la consistenza, e le ho scartate tutte.

Sono ormai priva di una sintesi, ho solo la sabbia di mille eventi tra le mani, che si rifiutano di comporsi in una forma qualsiasi che io possa descrivere e definire.

Quindi in questo modo, pancia a terra, sguardo concentrato sul niente, vi racconto pillole sparse di cose che mi piovono in testa, così come sono.

Premessa 

Mio marito è malato. Ormai lo sanno tutti, l’ho detto al mondo intero, ma c’è sempre qualcuno che non sta attento, che è fuori dal giro o a cui, lecitamente, non frega niente. Ha un adenocarcinoma polmonare pluri metastatico al quarto stadio (per il consenso al trattamento dei dati personali ha firmato, giuro). Si sta curando, è già sopravvissuto 13 mesi, non ha dolore, andiamo avanti. Ma quando si conta il tempo a mesi, come coi neonati, vuol dire che psicologicamente si è vicini all’inizio o alla fine della storia. Psicologicamente. È sempre la mente che ti frega.

Le patatine

In famiglia stiamo provando un regime alimentare nuovo, senza carboidrati, perché diversi dietologi hanno detto che i carboidrati sono il cibo principale dei tumori e non potevamo lasciare solo il capo famiglia a biascicare bistecca con le erbette mentre noi trangugiavamo tranci di pizza.

Così sono spariti dalla dispensa tutti (ma proprio tutti) gli alimenti confezionati e conservo in segreto un sacchetto di zucchero, perché a me il caffè amaro proprio non va giù. Ieri pomeriggio, durante un webinar particolarmente pesante, mi è venuta una voglia sfrenata di luride patatine da sacchetto, quelle della San Carlo grandi e ondulate, che cerchi di infilare in bocca intere per non sbriciolare e sembri la rana dalla bocca larga. Sono spuntata fuori dallo studio gridando al lampadario: «Voglio delle patatine!», così, a fondo perduto. Dopo mezz’ora mio marito mi ha portato le patatine. 

La foratura

Mi si è forata la bici al lavoro e sono tornata a casa a piedi. Non è stato un gran problema, lavoro a meno di un chilometro. Passando di fronte al bar, ho sentito un anziano avventore all’aperto che diceva “Avete presente la congiura dei Pazzi? E il tumulto dei Ciompi?” e ho pensato che le famose “chiacchiere da bar” non sono tutte uguali. Mentre camminavo, pensavo che io non so riparare una camera d’aria e non so a chi potrei portarla e non so come caricare una bici in macchina e non so questo e non so quello e non so campare da sola eccetera. E il tumulto dei Ciompi m’è venuto nel cuore. Arrivata a casa, ho detto: «Ma se mi si fora la bici e non ci sei tu a ripararmela, io che faccio? La butto?». Mio marito, paziente come san Giuseppe e resistente come Golia, invece di darmi un pugno nei denti, ha detto “intanto questa te la riparo io” e poi si è portato dietro il figlio decenne per insegnargli ad aggiustare le camere d’aria. Il fanciullo è tornato di sopra gongolante: «Mamma, la prossima volta la riparo io, da solo, che sono capace!».

Gli psicologi

Io odio gli psicologi, gli psichiatri, gli psicoterapeuti e tutti gli psico di questo mondo, da tempo immemore, per motivi che non sto a dire (che poi vuol dire che non li so, ma fa più figo). Ma l’anno scorso il figlio ha avuto la bella pensata di farsi venire un mal di testa psicosomatico e noi eravamo talmente realisti e positivisti da immaginare i peggiori mali di questo mondo, piuttosto che ammettere che lo shock di scoprire che il padre ha un tumore potesse influire sulla mente di un bambino. E così ho trovato una psicoterapeuta che avesse la faccia giusta per smontare i miei pregiudizi. Un po’ alla volta, ci ho spedito tutta la famiglia, a sfogare con grandi pianti le paure represse. Quando è toccato a me, la signora ha iniziato a fregarsi le mani, perché una con così tante costruzioni mentali in bilico sulla ferrea volontà di non sbagliare niente non l’aveva mai vista. Stanotte ho sognato che durante una seduta era lei che mi raccontava dei fatti suoi, e mi chiedeva se lo ritenessi opportuno (ed io facevo un po’ di beh, mah, insomma), poi irrompeva nello studio un padre con due belle bambine che saltellavano felici attorno ad una poltrona coperta da un grande telo azzurro che era un regalo per loro e la signora mi liquidava bisbigliando che, essendo l’ultima seduta, voleva la parcella doppia. Vuol dire che mi sento in colpa perché la psicoterapeuta è una risorsa che mentalmente ho assegnato alla mia famiglia, e non a me e che raccontare i fatti propri ad un estraneo è sempre disdicevole, ed ha un prezzo che si paga, in qualche modo, si paga sempre. In perfetta contraddizione con quanto vuole dirmi il mio inconscio, sono qui a scrivere i fatti miei: io all’inconscio non ho mai dato retta.

Pollyanna

Un anno fa mio marito si è comprato una bici da corsa usata-nuova fiammante (non vi dico quanto è costata), se l’è fatta registrare su misura da un professionista, ha sostituito qualche pezzo chiave con roba più figa ed ha decretato l’inizio di una inarrestabile stagione in sella alla bici, immaginandosi a sverniciare ciclisti peggio equipaggiati e meno allenati su per le salite della Campigna, compresi quei mollaccioni con la bici elettrica.

Poi però i medici gli hanno fatto notare che gli sforzi fisici prolungati ed estremi non se li può più permettere.

Allora ha messo su il cardiofrequenzimetro, l’ha puntato a 140 e ha decretato che avrebbe pedalato verso l’infinito ed oltre senza superare mai la soglia, chi se ne frega se qualcuno lo sorpassava in salita. Si sarebbe goduto meglio i panorami.

Poi però ha notato che dopo certi giri lunghi tornava a casa spompato. Allora ha noleggiato (per provare eh, solo per provare) una bici elettrica da corsa, perché “cavoli, sono malato, ho diritto alla bici elettrica, non sono mica un pensionato panzone che fa il ganzo col motorino in aiuto”. Ed ha trovato che è fantastico girare senza faticare, soprattutto in salita. Sarebbe fantastico dare via la bici da corsa nuova-usata e comprare una elettrica (dal costo doppio).

Poi però la bici nuova-usata la riprende uno che ha un modello di elettrica solo mountain-bike, mentre quello che ha l’elettrica da strada non riprende la bici vecchia.

Allora il marito ha decretato che faticare dal vivo è un’ottima misura per autovalutare lo stato di salute, e la bici elettrica avrebbe falsato il test. E tanto col covid è vietato andare in giro con altri, se pedala da solo va all’andatura che vuole.

Ogni volta che esce in bici mi viene un po’ da piangere, chissà perché.


*[N.d.R.]: Esito a prendere la parola dopo questo scritto, ma forse (mi è stato fatto notare) il titolo potrebbe risultare troppo criptico per qualcuno: anzitutto mi scuserà, immagino, l’evidente difficoltà di titolare adeguatamente i pensieri di Lucia in questo snodo importante della sua vita famigliare. Tutto quel che pensavo mi pareva concentrarsi su questo o quel punto del testo mentre, scorrendo e riscorrendo le righe, sempre piú nitidamente mi affiorava allo spirito questo enigmatico verso di Giugno ’73 di Fabrizio De André. La canzone è molto bella, ma non l’ho inserita nel testo e non la inserisco perché il suo contenuto è molto distante da quel che racconta Lucia e dalla vita della sua bella famiglia (bella perché vera, vera perché onesta e tosta): quel distico però mi restituiva l’immagine di una donna che accoglie la vita con gesti di inspiegata dolcezza… e allora l’ho scelto.

È andato bene anche a Lucia, che l’ha trovato perspicuo proprio perché «frase incomprensibile di una canzone incomprensibile di un disco che non ha compreso nemmeno l’autore». E rimandava con ciò alla dichiarazione di De André:

Questo nuovo LP sarà per me un mistero, lo conosco poco, è come se non mi appartenesse. Questo accade perché io sono un po’ misterioso con me stesso, forse sono giunto ad una svolta senza quasi accorgemene.

Hot Dog, Intervista a Fabrizio De André, Nuovo Sound, 17/2/1975

Mi sento poi di dire che Lucia sottoscriverebbe questa dichiarazione. Del resto quale uomo che si sforzi di una qualche autenticità non si ritiene un mistero a sé stesso? E chi può presumere di sapere dove stia andando? E tornano finalmente dei versi forse meno alti di quelli del Faber ma sicuramente piú perspicui:

…Mentre mi chiedi del futuro,
e io ti rispondo solo quel che sai;
cioè: «Non si sa mai».

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