Bastié: «Perché quella del “privilegio bianco” è una teoria deleteria»

A man attending a vigil wears a mask with the words "I can't breathe" and the name of Manuel Ellis a 33-year-old black man who died in Tacoma Police custody on March 3 and was recently ruled a homicide, according to the Pierce County Medical Examiners Office, in Tacoma, Washington on June 3, 2020. - US protesters welcomed new charges brought Wednesday against Minneapolis officers in the killing of African American man George Floyd -- but thousands still marched in cities across the country for a ninth straight night, chanting against racism and police brutality. (Photo by Jason Redmond / AFP)
di Eugénie Bastié1Traduzione dal francese a cura di Mattia Lusetti

Le immagini, atroci, dell’omicidio di George Floyd da parte di un poliziotto americano hanno riportato in primo piano la frattura identitaria, per poco coperta sotto il moggio dalla posticcia conciliazione provocata dal coronavirus. Sotto i nostri occhi si compie la traduzione violenta di un capovolgimento ideologico terribile: il ritorno della “razza” nel dibattito pubblico. Negli Stati Uniti si possono vedere dei Bianchi inginocchiarsi davanti ai Neri per chiedere perdono per i secoli di razzismo inflitti dalla loro comunità. Sulle reti sociali, giovani progressisti pubblicano manuali sulla presa di coscienza del loro “privilegio bianco”, nella speranza che questo pubblico atto di auto-flagellazione faccia diminuire la violenza collettiva.

L’idea di “privilegio” arriva molto oltre la semplice denuncia delle discriminazioni che subiscono le persone provenienti dalle minoranze. Questa idea afferma che il fatto di essere Bianco è in sé, ovunque e in ogni tempo, un “vantaggio”, indipendentemente dalla propria condizione materiale, dalla legge sotto la quale si vive e dalle proprie difficoltà personali. Più ancora: sottintende che il fatto di non essere discriminati non è una situazione normale, alla quale tutti dovremmo aspirare, ma una costruzione sociale a vantaggio dei Bianchi. Nel nostro immaginario, la parola privilegio rimanda all’Ancien Régime e alla distinzione degli stati sociali. Fa eco al discorso di Sieyés:

Se si togliessero gli stati sociali privilegiati, la nazione non sarebbe qualche cosa di meno, ma qualcosa di più.

Se i Bianchi non sono discriminati, è perché sono i Neri ad esserlo. Perché questi ultimi non lo siano più, bisogna che lo divengano i primi. La guerra delle razze è un gioco a somma zero. Essa instaura la concorrenza vittimaria nel cuore stesso della miseria, perché un povero bianco sarà, secondo questo paradigma, un “privilegiato” in confronto al suo fratello di colore.

In Francia, queste teorie impregnano sempre più la vulgata militante. Rompono con l’antirazzismo universalista. Dapprima postulando una separazione tra alleati e “dominati”: gli “alleati” possono difendere i “dominati”, ma non saprebbero esprimersi in vece loro e devono rinunciare ad ogni spirito critico. La razza continua ad essere negata come realtà biologica, ma è reintrodotta come costruzione sociale. L’essenzialismo (tutti i Neri sono…) era un flagello, ora è diventato un dovere (tutti i Bianchi sono…). Il fine giustifica i mezzi perché, come scriveva Sartre

questo razzismo antirazzista è il solo cammino che possa condurre all’abolizione delle differenze di razza.

dalla Prefazione a L’anthologie de la nouvelle poésie nègre et malgache de langue française, di Léopolde Sédar Senghor2La citazione di Sartre è rintracciabile, oltre che nella prefazione al volume come nella citazione della Bastié, anche qui (in parte): J.P. Sartre, Orphée noir, in «Présence Africaine», n. 6 (1949), p. 11 (pp. 9-14 l’estratto per intero); qui online. [NdT]..

Capovolgimento spaventoso: nella vecchia logica antirazzista, dire che i Bianchi erano superiori era razzista; nella nuova, lo è negarlo.

Il razzismo non è più una colpa morale da combattere per mezzo dell’educazione (la moderna lotta dei Lumi contro il pregiudizio), ma un sistema di dominio al quale è impossibile sfuggire, nonostante tutta la buona volontà. Diffuso, strutturale, istituzionale, questo razzismo deve essere decostruito metodicamente. La “bianchità” è una costruzione sociale al servizio dei dominatori, di cui questi non hanno coscienza. Bisogna estrargli con le pinze la vergogna di essere Bianchi. Queste teorie hanno la particolarità di essere presentata dai loro difensori come «scientifiche» perché tratte dal paradigma delle scienze sociali. Chiunque le contesti si espone alla mercé del doppio processo per interesse e incompetenza. Se neghi di essere un privilegiato, è perché non hai letto abbastanza le opere della Critica Race Theory, o perché ricavi qualche vantaggio da questa negazione. Ci troviamo nel quadro di ciò che il filosofo Karl Popper chiamava «la non-falsificabilità di una teoria». Una teoria non falsificabile, vale a dire non scientifica, è una teoria che resiste alla dimostrazione del suo contrario, e include la sua stessa confutazione come facente parte della teoria. Esempio: se critichi il marxismo, è perché sei un borghese. Se critichi la psicoanalisi, sei un nevrotico. Se critichi il privilegio bianco, è perché ricavi un guadagno da esso.

Se sono i Francesi ad aver inventato “La Decostruzione” (ribattezzata “French Theory” nelle università americane), questa teoria ora ritorna a noi sotto la forma di una guerra razziale importata. Perché, come paragonare un paese che, appena cinquant’anni fa, vietava i matrimoni misti (l’arresto Loving è del 1967), separava le comunità e esibisce uno sbalorditivo tasso di omicidi commessi da poliziotti, con la nostra nazione, che ha la propria storia e le proprie fratture?

A quelli che sferzano il “ritardo” del nostro paese nel assumere la prospettiva del “razzismo sistemico”, bisogna mostrare le immagini dell’America messa a ferro e fuoco: è veramente questo il modello che vogliamo?

Note

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1 Traduzione dal francese a cura di Mattia Lusetti
2 La citazione di Sartre è rintracciabile, oltre che nella prefazione al volume come nella citazione della Bastié, anche qui (in parte): J.P. Sartre, Orphée noir, in «Présence Africaine», n. 6 (1949), p. 11 (pp. 9-14 l’estratto per intero); qui online. [NdT].

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