Buon #Dantedí a tutti: la data è sbagliata (ma va bene uguale)

25 marzo: non inizio ma compimento del viaggio dantesco

Il 25 marzo può andar bene per il “Dantedì” anche perché il viaggio di Dante, iniziato all’alba del 5 aprile, termina il 10 aprile domenica di Pasqua 1300, ma si conclude con la visione del mistero dell’Incarnazione del Figlio, chesecondo la millenaria tradizione della Chiesa avvenne un 25 marzo. Nell’ultima visione, nel secondo dei tre cerchi, simbolo della Trinità, compare la “nostra effige”, cioè un volto umano, il volto di Cristo:

Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;

e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ‘l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.

Quella circulazion, che sì concetta
pareva in te come lume reflesso
da li occhi miei alquanto circunspetta,

dentro da sé, del suo colore stesso, 
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ‘l mio viso in lei tutto era messo. 

Par. XXXIII 115-120;127-132

Che l’approdo del viaggio di Dante sia la visione del mistero dell’Incarnazione è di decisiva importanza per la comprensione dell’intera Commedia, perché ogni viaggio si giustifica ed è determinato dalla meta che si propone.

Quella visione costituisce la soluzione che Dante dà al problema che tutto il “poema sacro” sottende e che urge sull’umanità da sempre: come realizzare quella felicità, quella pienezza di vita, che l’uomo per sua natura desidera e la cui esigenza è all’origine della grande letteratura di ogni tempo.

“Se la felicità non esiste – scrive Leopardi in una lettera – cos’è dunque la vita?”. E Cesare Pavese annota acutamente sul suo diario: “Com’è grande il pensiero che veramente nulla a noi è dovuto. Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?”.

Da duemila anni il mistero dell’Incarnazione si offre come risposta a questa”attesa del cuore”: “un Avvenimento (ad-venio: vengo a) che, sebbene non previsto, imprevedibile, inimmaginabile dall’uomo, si rivela supremamente conveniente, corrispondente cioè alle esigenze più proprie della sua natura”; un Fatto che ha sempre la forma di un incontro ( pensiamo a Beatrice per Dante!) “con una realtà fisica, corporale, di tempo e di spazio, visibile, tangibile, udibile, in cui è presente Dio fatto uomo, Cristo, di cui tale realtà tangibile è segno” (L.Giussani).

La catena ininterrotta di questi “incontri” (a cominciare da quello di Gesù con i primi due discepoli, Giovanni e Andrea) ha creato nei secoli un popolo, un’identità, quella dell’Europa cristiana, i cui frutti, in termini di umanità, bellezza, cultura, arte, di “civiltà” insomma, sono ancora sotto gli occhi di tutti.

All’interno di questo mondo però, a partire dall’”autunno del Medioevo”, si è riaffacciata una pretesa di autosufficienza umana nei confronti di quell’Avvenimento, attraverso l’idea di un “uomo-solo”, al centro dell’universo, creatore e signore del suo mondo, tutto rivolto a esaltare la sua libertà, volontà, attività. Il motto di alcuni (non tutti) rinascimentali era “Quisque faber fortunae suae”: Ciascuno è costruttore (da solo! con le sue sole forze!) del suo destino, della sua felicità!

Ma se la natura dell’uomo è rapporto con l’infinito, se la sua vocazione strutturale è l’accettazione dell’infinito come significato di sé, una simile autolatria umana è contraddittoria e fallimentare.

“Il mondo senza Dio sarebbe una favola raccontata da un idiota in un accesso di furore” fa dire Shakespeare a un personaggio del Macbeth: “uno strano sogno, senza nessi, a segmenti spezzati,senza un ordine vero, dove l’unica metodologia del rapporto è violenza”, commenta Luigi Giussani. Basterebbe a provarlo l’insorgere di uno stato d’animo che si è andato sempre più affermando nell’umanità degli ultimi due secoli: l’angoscia.

Questa “angoscia” (centrale nella riflessione degli esistenzialisti del ‘900) nasce dal fatto che ideologie e movimenti politico-culturali, strappato via Dio dal cuore degli uomini, pongono il proprio assoluto in questo o quell’ideale contingente, cioè in un idolo (dal greco: “che sembra”…Dio,ma non lo è).

Quando poi tale idolo cade, quelli che lo avevano adorato “disperano della vita, o almeno sono sbigottiti da un gelido senso di sconfitta: e alla gioia di vivere si sostituisce la noia di vivere”, che non è un non aver niente da fare, ma avvertire dentro di sé un vuoto che niente (niente di finito, di umano, di terreno!) riesce a colmare.

“Così l’angoscia moderna è al termine del fallimento delle speranze dell’illuminismo settecentesco, poi del nazionalismo, poi del positivismo scientista con il suo mito del progresso”, poi, nel ‘900, è al termine delle illusioni di tanti che la propaganda dei totalitarismi aveva indotto a sperare nel trionfo dello Stato, della Razza o del Sol dell’Avvenire.

Questa angoscia attraversa come un’onda cupa gli ultimi due secoli. Leopardi la chiama tedio, noia; i romantici sehnsucht, streben (struggimento); Baudelaire la chiama spleenLa Noia s’intitola un romanzo di MoraviaLa Nausea quello di Sartre.

È l’angoscia dei personaggi dei romanzi di PirandelloSvevoKafka, che, senza identità, stanno impotenti di fronte al montaliano “muro d’orto”, che li divide dalla felicità e che essi sentono “con triste meraviglia” di non poter scavalcare perché “ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”. 

Dante Poeta/Profeta

Anche Dante conobbe questa presunzione di autosufficienza, “seguitando quella scuola” – gli rimprovera Beatrice – che lo portò nella “selva oscura” del dualismo tra ragione e fede, ai tempi del Convivio, quando

«…volse i passi suoi per via non vera,
imagini di ben seguendo false,
che nulla promission rendono intera»

Purg. XXX 130-132

Liberato, per grazia, da “lo passo / che non lasciò già mai persona viva”, Dante si sente investito dall’alto di una missione profetica “in pro del mondo che mal vive”: come la sua “selva oscura” è profezia del dramma angoscioso e fallimentare dell’uomo-solo, così la sua Commedia sarà per gli uomini di tutti i tempi (e soprattutto degli ultimi) il segno profetico dell’iter di liberazione da tale dramma, indicando la via dell’uomo-con-Dio, nella quale “ogni effimera esistenza e ogni atto umano acquistano valore eterno, perché la storia, nella sua fragile corporeità, è stata definitivamente assunta da Dio” (V.Capelli).

A Dante l’investitura di poeta-profeta la conferiscono vari personaggi di spicco:

1. Virgilio, che così apostrofa Minosse, il giudice infernale:

Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare;

Inf. V 22-24

e così zittisce il demonio Pluto:

Taci, maladetto lupo:
consuma dentro te con la tua rabbia.
Non è sanza cagion l’andare al cupo:

vuolsi nell’alto, là, dove Michele
fe’ la vendetta del superbo strupo.

Inf. VII 8-12

Il viaggio di Dante è fatale, non è sanza cagion: è voluto da Dio, in Paradiso!

2. San Michele Arcangelo, il Messo celeste inviato da Dio, che apre la porta della Città di Dite, il basso inferno, sbarrata dai diavoli dinanzi a Dante e Virgilio, e redarguisce duramente i diavoli stessi:

Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fe’ segno
ch’i stessi queto ed inchinassi ad esso.

Ahi, quanto mi parea pien di disdegno!
venne alla porta, e con una verghetta
l’aperse, ché non v’ebbe alcun ritegno.

«O cacciati dal ciel, gente dispetta»,
cominciò elli in su l’orribil soglia,
«ond’esta tracotanza in voi s’alletta?

Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v’ha cresciuta doglia?

Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e ‘l gozzo».

Inf. IX 85-99

Il viaggio di Dante è dovuto alla voglia, alla volontà di Dio, dipende da le fata, dal suo volere provvidenziale!

3. Beatrice, che così si rivolge a Dante, prima della profetica rappresentazione delle vicende del Carro della Chiesa, guidato da Cristo-Grifone, all’interno di una processione mistico-simbolica nel Paradiso Terrestre:

in pro del mondo che mal vive,
al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,
ritornato di là, fa che tu scrive; 

Purg. XXXII 100-105

e dopo la profezia del misterioso “Cinquecento diece e cinque, messo di Dio”:

Tu nota; e sì come da me son porte
così queste parole segna ai vivi
del vivere ch’è un correre alla morte.

E aggi a mente, quando tu le scrivi,
di non celar qual hai vista la pianta
ch’è or due volte dirubata quivi.

Purg. XXXIII 52-57

4. Cacciaguida, il trisavolo, che di fronte ai timori e alle incertezze di Dante, così sprona il nipote:

Coscïenza fusca
o della propria o dell’altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.

Ma nondimen, rimossa ogni menzogna,
tutta tua vision fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’è la rogna!

ché, se la tua voce sarà molesta
nel primo gusto, vital nutrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.

Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fia d’onor poco argomento.

Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e nella valle dolorosa,
pur l’anime che son di fama note;

chè l’animo di quel ch’ode, non posa,
né ferma fede per essemplo ch’aia
la sua radice incognita e nascosa,

né per altro argomento che non paia.

Par. XVII 124-142

5. San Pietro, che dopo la sua invettiva, così invita Dante:

tu, figliuol, che per lo mortal pondo
ancor giù tornerai, apri la bocca
e non asconder quel ch’io non ascondo.

Par. XXVII 64-66

L’ultima visione

Dante, la cui ispirazione è profondamente escatologica, riteneva di vivere all’inizio delle crisi che porteranno agli ultimi tempi. Beatrice lo invita a contemplare l’intero Paradiso, la candida Rosa, e gli fa notare che ormai il numero dei beati è quasi completo:

Mira
quanto è ‘l convento de le bianche stole!
Vedi nostra città quant’ella gira;

vedi li nostri scanni sì ripieni,
che poca gente più ci si disira. 

Par. XXX 128-132

La Commedia è dunque un testo profetico, un dono provvidenziale per gli uomini di tutti i tempi e, ripetiamo, soprattutto degli ultimi: sentirsi onnipotenti, autosufficienti nei confronti di Dio, è la tentazione perenne dell’uomo. È quella del peccato originale di Adamo ed Eva: non a caso , come abbiamo visto, Beatrice raccomanda a Dante, quando racconterà le scene profetiche a cui ella lo ha fatto assistere,

di non celar qual hai vista la pianta
ch’è or due volte dirubata quivi.
Qualunque ruba quella o quella schianta,

con bestemmia di fatto offende a Dio. 

Purg. XXXIII 56-59

La pretesa di autosufficienza dell’uomo-solo riemerge continuamente dopo il ciclico fallimento dell’idolo di turno. E oggi, crollate tutte le ideologie e strappate o ammainate tutte le bandiere, si ripresenta in modo più sottile e suadente come religione umanitaria, come umanesimo mondiali- stico-buonista, comunque sempre senza e contro Dio e con la presunzione di mettersi al posto di Dio.

Con l’ultima visione della Commedia Dante, da una parte denuncia tale presunzione di autosufficienza come una falsificazione insensata, e dall’altra indica “la” risposta alle esigenze fondamentali del cuore dell’uomo. Ciascuno di noi ha una domanda, almeno implicita, sul significato ultimo dell’esistenza e, insieme, un naturale desiderio di felicità, ma contemporaneamente ciascuno di noi deve riconoscere la propria incapacità a rispondere a tale domanda e a realizzare tale felicità con le sue sole forze: qual è la soluzione che Dante dà a questo problema? 16

Al termine del suo viaggio Dante è di fronte al “vivo lume” di Dio, all’interno del quale gli appare la Trinità, simboleggiata da tre cerchi:

Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;

e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ‘l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.

Par. XXXIII 115-120

I tre colori e l’identica ampiezza dei cerchi alludono alle tre Persone divine uguali e distinte. “Uno” di essi è riflesso dall’”altro”, come un secondo arcobaleno si genera dal primo: è il Figlio generato dal Padre in tutto uguale a sé. Il terzo “spirato” come una fiamma di amore dai primi due è lo Spirito Santo, “che procede dal Padre e dal Figlio”.

Dante si concentra significativamente sul secondo di questi cerchi (il Figlio), che ha dipinta al suo interno, col suo stesso colore, la nostra sembianza umana:

Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,

dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.

Par. XXXIII 127-132

L’ultima visione di Dante riguarda il mistero dell’Incarnazione del Figlio, simboleggiato nella”effige” umana dentro il cerchio, del medesimo colore del cerchio: l’umanità di Cristo appare dentro la divinità dello stesso colore perché la Persona di Cristo è la seconda Persona della Trinità: una Persona, un colore.

La visione conclusiva rivela a Dante in Gesù Cristo l’esemplare supremo dell’uomo vero, che è l’uomo fatto partecipe della natura divina: l’uomo al centro del mondo sì, ma con Dio, abbracciato da Cristo (come nella visione di santa Ildegarda di Bingen) e non da solo, come l’umanesimo autolatrico di ogni tempo vorrebbe.

La soluzione a cui Dante arriva al termine del suo viaggio è l’assimilazione a Cristo, come gli ultimi versi della Commedia mettono in chiara evidenza.

Di fronte al cerchio che ha dentro di sé dipinta l’”effige” umana, cioè di fronte al mistero dell’Incarnazione, Dante si paragona allo studioso di geometria che cerca l’esatta misura del fattore per cui bisogna moltiplicare il diametro di un cerchio per avere la circonferenza: il “pi greco”, anche oggi numero indefinito, la cui conoscenza permetterebbe la famosa “quadratura del cerchio”, cioè di costruire un quadrato di superficie identica a quella del cerchio dato:

Qual è il geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,

tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;

ma non eran da ciò le proprie penne.

Par. XXXIII 133-139

Voler precisare con un numero razionale il rapporto fra la circonferenza e il diametro di un cerchio è impossibile, costituisce un mistero matematico. Tale rapporto è espresso con il “pi greco”, un simbolo, proprio perché non è rappresentabile con numeri razionali.

Allo stesso modo voler vedere come l’immagine dell’uomo poteva adattarsi, “assimilarsi” al cerchio, cioè alla Persona divina del Figlio, e trovarvi posto, era impossibile. Anche questo rapporto era un mistero, perché “quella vista” era “nova”: altra, incommensurabile con le cose di questo mondo, “nova” in assoluto, una novità sconvolgente.

La convenienza della similitudine è perfetta: come il cerchio, senza inizio e senza fine, è da sempre considerato il simbolo di Dio, così il quadrato lo è dell’umano e del terreno ( i 4 elementi -acqua, terra, aria, fuoco-; i 4 punti cardinali; le 4 dimensioni etc.).

Le ali della mia mente – dice Dante – non erano capaci di volare fino all’altezza di quel mistero…

se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.

Pa. XXXIII 140-142

Senonché un’improvvisa folgorazione divina gli dà l’intuizione, per un attimo, del mistero dell’Incarnazione, cioè di come è stato possibile Gesù Cristo, il mistero dell’uomo-Dio, quel mistero per cui “tutti i fallimenti umani vengono riscattati, tutti i valori riconquistati, e nulla più è perduto di quanto l’uomo abbia amato e saputo creare”, in cui trova risposta la domanda di senso e di felicità del cuore dell’uomo, sempre uguale a se stesso in ogni tempo e in ogni cultura.

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