Peccatori sempre accolti, peccati mai sdoganati

James Martin, il gesuita consultore della Segreteria per la Comunicazione noto per le sue simpatie aperte per la comunità LGBT, è stato ricevuto in udienza privata da Papa Francesco ed ecco che è esplosa la retorica del vittimismo, con un fiorire di esclamazioni del tenore “finalmente accolti!”.

https://twitter.com/JamesMartinSJ/status/1178663907084455936

Mi domando quale omosessuale possa raccontare di essere stato cacciato da una chiesa.

Lo chiedo senza retorica, ma con sincero stupore, perché conosco persone che sono state rifiutate come madrine o padrini di battesimi o cresime in virtù del loro stato civile non proprio specchiato (tipicamente divorziati), ma non certo cacciati dalla chiesa. Conosco ragazze conviventi col fidanzato che fanno addirittura le educatrici parrocchiali e persone rigorose che si sono dimesse dal consiglio parrocchiale perché si sono trovate in disaccordo con stili di gestione delle attività troppo progressista, per dire che a volte sono più discriminati i cattolici cosiddetti tradizionalisti.

Fortunatamente, non conosco nessun santo: niente più di un santo rovina maggiormente il clima di un ambiente. Basta già l’onestà personale a tenerci debitamente all’ultimo banco, tutti quanti, senza bisogno pure dell’impietoso confronto con quelli che straripano virtù.

https://twitter.com/antoniospadaro/status/1177937186844549120

Ammetto di non capire in che senso, in che modo la Chiesa starebbe discriminando o emarginando gli omosessuali: ricordo che il catechismo è “cattivissimo” con tutti per quanto riguarda la morale sessuale.

Ragazzi, voi che traboccate vita e amore, tenete giù le mani: lo sapete, vero, che son peccato mortale sia i rapporti sessuali prematrimoniali che gli atti di autoerotismo?

Giovani e meno giovani coppie di sposi, allietate e indaffarate dalla ricchezza dei figli, ricordate che non si possono usare contraccettivi: l’amore si fa solo quando si può, compatibilmente con i mille impegni e il ciclo di ovulazione della donna. C’è sempre la menopausa all’orizzonte a levare di torno vincoli e peccati.

Uomini non troppo miopi, mi raccomando lo sguardo basso: desiderare la donna d’altri è già colpa grave, per non parlare delle visite occasionali ai siti porno o le uscite al cinema vietato ai minori.

E voi divorziati risposati, se non ci sono gli estremi per l’annullamento del precedente matrimonio, hai voglia a rovistare nell’Amoris Lætitia! Credo proprio che vi tocchi l’astinenza perpetua o la raccolta di un congruo fascicolo di ottime motivazioni da presentare al direttore spirituale (che comunque non comparirà come avvocato difensore davanti al tribunale divino con voi).

Sinceramente credo che nella fascia di età 15-60 ben poche persone possano ritenersi a posto con la coscienza davanti al catechismo. La Chiesa, però, non caccia fuori nessuno di noi, anche perché non abbiamo scritto in fronte i nostri peccati sessuali. Il guaio è che ce li abbiamo stampati nel cuore e allora non ci sentiamo a posto mai. Non è la Chiesa che discrimina, siamo noi che ci rodiamo per la distanza che non sappiamo colmare tra le aspettative e la realtà.

https://twitter.com/G_Marcotullio/status/1179278359328677896

Questa cosa del senso di colpa sui peccati sessuali è tema diffuso e superficialmente liquidato negli ambienti atei al capitolo retaggi culturali e religiosi: ci sarebbe sempre un soggetto esterno a noi che nella nostra educazione ci ha inculcato che questo e quello sono male e quindi noi ci sentiamo in colpa istintivamente quando trasgrediamo. La Chiesa rappresenta il nemico numero uno, coi suoi moniti costanti.

In realtà la Chiesa sta zitta assai, tanto che basterebbe un rapido sondaggio tra persone che vanno a messa per scoprire che il catechismo è così tante volte ignorato perché prima di tutto è sconosciuto, segno che tutto questo martellamento accusatore non c’è nemmeno negli ambienti dove sarebbe ovvio che ci fosse.

In secondo luogo, non è vero che il senso di colpa sia conseguenza di insegnamenti religiosi arcaici sedimentati nell’inconscio. Infatti non sono rare le testimonianze di persone lontanissime da ambienti moralmente rigorosi che però si trovano ad inciampare in questo scomodo e fastidioso sentimento interiore (per chi è interessato, rimando a un articolo del 2015 in cui già avevo affrontato questo tema).

https://www.facebook.com/giovanni.marcotullio/posts/10157490907539137

La sessualità è una cosa seria, perché ci coinvolge in modo profondo, scatena una pletora di conseguenze psicologiche non sempre facilmente controllabili anche sul piano relazionale e sociale (visto che tanto spesso si parla di femminicidi, magari una indagine su come questi assassini vivevano la loro sessualità potrebbe riservare sorprese).

In definitiva, Martin vorrebbe ottenere dalla Chiesa una specie di permesso per gli omosessuali di ignorare le regole che valgono per tutti gli altri e benedire i rapporti omosessuali, come se questo bastasse a fugare in loro ogni disagio. Se fosse sufficiente eliminare una norma per eliminare un peccato, la Chiesa non sarebbe la sposa di Cristo in terra ma una istituzione malefica che lega ai piedi dei suoi adepti catene e pesi insostenibili. Non nego che a volte lo penso, soprattutto quando la distanza tra il reale e l’ideale si fa ampia e allora piacerebbe tanto far rallentare la Chiesa invece che velocizzare il mio passo per starle dietro.

Però, anche fosse, vorrei ricordare a Martin che prima degli LGBT, starebbero aspettando un allentamento dei lacci tutti i destinatari di Humanæ Vitæ, che sono parecchi di più. Se proprio non vuole arrendersi al Catechismo, che almeno si metta in coda.

10 commenti

  1. “vorrei ricordare a Martin che prima degli LGBT, starebbero aspettando un allentamento dei lacci tutti i destinatari di Humanæ Vitæ”.

    Questo mi pare decisamente erroneo. I destinatari di HV, se sono fedeli cattolici ragionevoli, non attendono alcun “allentamento dei lacci”, ma semplicemente desidereranno vivere la propria dimensione sessuale secondo la natura umana, per come è stata disposta del Creatore. Tutto qui.

    Casomai, se attendono qualcosa, credo che possa essere una efficace educazione all'”essere”, da parte della Chiesa cattolica, in modo che la sessualità sia vissuta come parte integrante dell’essere. Credo che, in tempi recenti, su vasta scala, e seguendo un metodo, una cosa così l’abbia tentata solo il Giussani. Senza calcolo, come gli è nata dalle mani.

    Per quanto riguarda 

    “E voi divorziati risposati, se non ci sono gli estremi per l’annullamento del precedente matrimonio, hai voglia a rovistare nell’Amoris Lætitia! Credo proprio che vi tocchi l’astinenza perpetua o la raccolta di un congruo fascicolo di ottime motivazioni da presentare al direttore spirituale (che comunque non si comparirà come avvocato difensore davanti al tribunale divino con voi)”

    anche questo mi risulta erroneo, circa quanto affermato in AL, vedi, esempio qui Robert Spaemann http://www.iltimone.org/news-timone/amoris-laetitia-spaemann-il-caos-eretto-a-principi/

    “…D. – Il papa vuole che non ci si concentri su delle singole frasi della sua esortazione, ma che si tenga conto di tutta l’opera nel suo insieme.

    R. – Dal mio punto di vista, concentrarsi sui passi citati è del tutto giustificato.  Davanti a un testo del magistero papale non ci si può attendere che la gente si rallegri per un bel testo e faccia finta di niente davanti a frasi decisive, che cambiano in maniera sostanziale l’insegnamento della Chiesa. In questo caso c’è solo una chiara decisione tra il sì e il no. Dare o non dare la comunione: non c’è una via media.

    D. – Papa Francesco nel suo scritto ripete che nessuno può essere condannato per sempre.

    R. – Mi risulta difficile capire che cosa intenda. Che alla Chiesa non sia lecito condannare personalmente nessuno, men che meno eternamente – cosa che, grazie a Dio, nemmeno può fare – è qualcosa di chiaro. Ma, se si tratta di relazioni sessuali che contraddicono oggettivamente l’ordinamento di vita cristiano, allora vorrei davvero sapere dal papa dopo quanto tempo e in quali circostanze una condotta oggettivamente peccaminosa si muta in una condotta gradita a Dio.

    D. – Qui, dunque, si tratta davvero di una rottura con la tradizione dell’insegnamento della Chiesa?

    R. – Che si tratti di una rottura è qualcosa che risulta evidente a qualunque persona capace di pensare che legga i testi in questione”.

    • Secondo lei avremmo mai pubblicato un testo che inneggi alla dissoluzione della morale cattolica? Oppure le risulta che non abbiamo scritto altri post per illustrare la ragionevolezza e l’oggettività della stessa?
      Vale per noi quel che vale per il Papa e per chiunque: se non si coglie lo spirito di una macrosezione giova a poco fissarsi su qualche frase: l’autrice ha enfatizzato iperbolicamente il paradosso della morale cristiana, che sempre e per tutti richiederà un impegno, in qualche caso anche dei sacrificî.
      Su Spaemann, fatto salvo il rispetto per il personaggio, dissento: la questione non è cosa dica questo o quel passaggio, e neppure cosa dica l’insieme, ma come il contenuto di un documento venga recepito. Se fossimo meno insensati, lavoreremmo a una ricezione omogenea invece di saettare ridicoli strali contro la Prima Sede.
      Lascio qui, a proposito di “cristianesimo facile” e a mo’ di disambiguazione (visto che non siamo stati capiti) una splendida e storica omelia di Paolo VI, che anche il Giuliano Ferrara dei bei tempi (quello in cui molti cattolici volevano vedere il paladino che non sarebbe potuto essere) molto opportunamente commentò.

      In queste brevi conversazioni delle Udienze generali Ci sembra ancora doveroso ripensare al Concilio. E per ora lo facciamo senza risalire ai suoi vari e specifici insegnamenti, ma con alcune osservazioni d’indole molto sommaria. Questa, ad esempio, che tutti possono fare da sé: il Concilio ha prodotto nel popolo cristiano una mentalità, una sua mentalità. È chiaro che al fondo di questa mentalità si trova una convinzione molto buona, un postulato, un’idea di base che alcuni ammettono come già acquisita, altri, più avveduti, come da acquisire, da realizzare. E questa convinzione ci dice che il Concilio vuole una professione cristiana più seria, più autentica, più vera. Un approfondimento nella sincerità. E questa idea, dicevamo, è molto buona, Possiamo e dobbiamo farla nostra, perché da essa è partito il Concilio, come, del resto, da questa aspirazione ad una perfetta interpretazione della vita cristiana, sia nel pensiero che nella condotta, parte continuamente l’azione didattica, santificatrice e pastorale della Chiesa. Ma, dopo il Concilio, come si esprime questa rinnovata mentalità? Dove si dirige la sua ricerca d’un cristianesimo autentico, vivo e adatto per i nostri tempi? Si esprime in vari modi. Uno di questi modi è quello di ritenere ormai facile l’adesione al cristianesimo; e quindi di tendere a renderlo facile.

      L’ESSENZA DEL MESSAGGIO EVANGELICO

      Un cristianesimo facile: questa Ci sembra una delle aspirazioni più ovvie e più diffuse, dopo il Concilio. Facilità: la parola è seducente; ed è anche, in un certo senso, accettabile, ma può essere ambigua. Può costituire una bellissima apologia della vita cristiana, a intenderla come si deve; e potrebbe essere un travisamento, una concezione di comodo, un «minimismo» fatale. Bisogna fare attenzione.

      Che il messaggio cristiano si presenti nella sua origine, nella sua essenza, nella intenzione salvatrice, nel disegno misericordioso che tutto lo pervade, come facile, felice, accettevole e comportabile, è fuori dubbio. È una delle più sicure e confortanti certezze della nostra religione; sì, ben compreso, il cristianesimo è facile. Bisogna pensarlo così, presentarlo così, viverlo così. Lo ha detto Gesù stesso: «Il mio giogo è soave ed il mio peso è leggero» (Matth. 11, 30). Lo ha ripetuto, rimproverando ai Farisei, meticolosi e intransigenti, del suo tempo: «Compongono pesanti e insopportabili fardelli e li impongono sulle spalle degli uomini» (Matth. 23, 4; cfr. Matth. 15, 2, ss.). E una delle idee maestre di San Paolo non è stata quella di esonerare i nuovi cristiani dalla difficile, complicata e ormai superflua osservanza delle prescrizioni legali del Testamento anteriore a Cristo?

      IL SOMMO PRECETTO DELL’AMOR DI DIO

      Si vorrebbe qualche cosa di simile anche per il nostro tempo, che è orientato verso concezioni spirituali semplici e fondamentali. Sintetiche e a tutti accessibili: non ha il Signore condensato nel sommo precetto dell’amor di Dio e in quello, che lo segue e ne deriva, dell’amore del prossimo, «tutta la legge ed i profeti» (Matth. 22, 40)? Lo esige la spiritualità dell’uomo moderno, quella dei giovani specialmente; lo reclama un’esigenza pratica d’apostolato e di penetrazione missionaria. Semplificare e spiritualizzare, cioè rendere facile l’adesione al cristianesimo; questa è la mentalità che sembra scaturire dal Concilio: niente giuridismo, niente dogmatismo, niente ascetismo, niente autoritarismo, si dice con troppa disinvoltura: bisogna aprire le porte ad un cristianesimo facile. Si tende così ad emancipare la vita cristiana dalle così dette «strutture»; si tende a dare alle verità misteriose della fede una dimensione contenibile nel linguaggio corrente e comprensibile dalla forma mentale moderna, svincolandole dalle formulazioni scolastiche tradizionali e sancite dal magistero autorevole della Chiesa; si tende ad assimilare la nostra dottrina cattolica a quella delle altre concezioni religiose; si tende a sciogliere i vincoli della morale cristiana, qualificati volgarmente come «tabu», e delle sue pratiche esigenze di formazione pedagogica e di osservanza disciplinare, per concedere al cristiano, fosse pur egli un ministro dei «misteri di Dio» (1 Cor. 4, 1; 2 Cor. 6, 4) o un seguace della perfezione evangelica (cfr. Matth. 19, 21; Luc. 14, 33), una così detta integrazione con il modo di vivere della gente comune. Si vuole, ripetiamo, un cristianesimo facile, nella fede e nel costume.

      Ma non si va oltre il confine di quell’autenticità, a cui tutti aspiriamo? Quel Gesù, che ci ha portato il suo vangelo di bontà, di gaudio e di pace, non ci ha forse anche esortati ad entrare «per la porta stretta» (Matth. 7, 13)? E non ha forse preteso una fede nella sua parola, che va oltre la capacità della nostra intelligenza? (cfr. Io. 6, 62-67). E non ha Egli detto che «chi è fedele nel poco, è fedele ,anche nel molto» (Luc. 16, 10)? Non ha fatto Egli consistere l’opera della sua redenzione nel mistero della Croce, stoltezza e scandalo (1 Cor. 1, 23) per questo mondo, mentre è condizione della nostra salvezza il parteciparvi?

      PIENEZZA DI RISPETTO PER LA LEGGE DIVINA

      Qui la lezione si fa lunga e difficile. Sorge la domanda: ma allora il cristianesimo non è facile? Allora non è accettabile da noi moderni, e non è più presentabile al mondo contemporaneo? Rinunciamo in questo momento a risolvere debitamente questa grave, ma non profonda difficoltà. Ricordiamo soltanto che il costo delle cose facili, se belle, se perfette, se rese tali superando ostacoli formidabili, è sempre alto. Pensiamo, per esempio, a questa legge, che presiede a tutto lo sforzo della coltura e del progresso, quando abbiamo occasione di viaggiare in aeroplano: volare, com’è facile! ma quanti studi, quante fatiche, quanti rischi, quanti sacrifici esso è costato!

      E poi, per stare al nostro tema, ci domandiamo: il cristianesimo sarebbe fatto per i temperamenti deboli di forza umana e per i fiacchi di coscienza morale? Per gli uomini imbelli, tiepidi, conformisti, e non curanti delle austere esigenze del Regno di Dio? Ci domandiamo alle volte se non sia da cercare fra le cause della diminuzione delle vocazioni alla sequela generosa di Cristo, senza riserve e senza ritorni, quella della presentazione superficiale d’un cristianesimo edulcorato, senza eroismo e senza sacrificio, senza la Croce, privo perciò della grandezza morale d’un amore totale. E Ci chiediamo anche se fra i motivi delle obbiezioni, sollevate nei confronti dell’Enciclica «Humanae vitae», non vi sia anche quello d’un segreto pensiero: abolire una legge difficile per rendere la vita più facile. (Ma se è legge, che ha in Dio il suo fondamento, come si fa?).

      Noi ripeteremo: sì, il cristianesimo è facile; ed è saggio, è doveroso appianare ogni sentiero che ad esso conduce, con ogni possibile agevolazione. Ed è ciò che la Chiesa, dopo il Concilio, cerca in ogni modo di fare, ma senza tradire la realtà del cristianesimo. Il quale è davvero facile a qualche condizione: per gli umili, che ricorrono all’aiuto della grazia, con la preghiera, con i sacramenti, con la fiducia in Dio, «che non permetterà, dice S. Paolo, che siate tentati sopra le vostre forze, ma con la tentazione vi offrirà modo . . . di superarla» (1 Cor. 10, 13); e per i coraggiosi, che sanno volere ed amare, amare soprattutto. Diciamo con S. Agostino: il giogo di Cristo è soave, per chi ama; duro per chi non ama: «amanti, suave est; non amanti, durum est» (Serm. 30; PL 38, 192).

      • 2.

        In questo paragrafo è chiaramente indicato che coloro che si trovano nella situazione suddetta (e che non hanno ottenuto riconoscimento di nullità del precedente matrimonio), per conformarsi al bene devono essere «sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio». E cioè, dice ancora il testo di Giovanni Paolo II, che «assumano l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi». Questa è anche la via, indicata dal testo di Papa Wojtyla, di accesso alla riconciliazione nel sacramento della penitenza e, quindi, la possibilità di comunicarsi.
        Ma la nota 329 di “Amoris laetitia” finisce in qualche modo per oltrepassare questo insegnamento: «In queste situazioni, molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere “come fratello e sorella” che la Chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, «non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 51)»
        Da questa nota sembra addirittura che coloro che sono divorziati risposati civilmente, è bene che vivano a tutti gli effetti come coniugi, perché «se mancano alcune espressioni di intimità» si mette in pericolo «la fedeltà» (?) e «il bene dei figli».
        Sono diversi gli elementi che vengono discussi di questa nota 329 e che possono dare luogo a interpretazioni errate rispetto alla natura indissolubile del primo matrimonio (se valido) e all’insegnamento morale della Chiesa:
        – la citazione della costituzione conciliare Gaudium et spes 51 risulta disancorata dal contesto originario. In Gaudium et spes, infatti, queste parole sono chiaramente riferite ai coniugi e non ai divorziati risposati;
        – utilizzando questa citazione sembra che si possa valutare – come in materia morale fanno i proporzionalisti – l’azione morale sulla base delle conseguenze positive e negative dell’azione, finendo così per obliterare ipso facto l’esistenza di assoluti morali o comportamenti intrinsecamente cattivi. In effetti la nota 329 può dare adito a delle interpretazioni che potrebbero negare l’adulterio come azione in sé cattiva. L’unione coniugale tra due persone che coniugi non sono, può quindi essere, in certi casi, un bene?
        – In questo caso, come valutare quanto riportato al n°52 dell’enciclica Veritatis Splendor di Giovanni Paolo II laddove insegna che vi sono atti (tra cui l’adulterio) che, appunto, si definiscono «intrinsecamente cattivi», «sempre e per sé, ossia per il loro stesso oggetto, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze?».

        NOTE 336 E 351: ACCESSO AI SACRAMENTI PER DIVORZIATI RISPOSATI
        Il contesto in cui vengono inserite le due note è simile, cioè quello di un differente grado di responsabilità del penitente in funzione di condizionamenti e/o fattori attenuanti. In questi casi, dice la nota 336, le conseguenze o gli effetti di una norma non devono essere necessariamente sempre gli stessi.
        «Nemmeno per quanto riguarda la disciplina sacramentale», si legge nella nota, «dal momento che il discernimento può riconoscere che in una situazione particolare non c’è colpa grave. Qui si applica quanto ho affermato in un altro documento: cfr Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 44.47
        In questo caso, pur restando il dubbio in merito a quale disciplina sacramentale faccia riferimento il testo, appare chiaro che ci sia un’apertura pratica, in certi casi, all’accesso ai sacramenti: finché si tratta (per esempio) della confessione e dell’unzione degli infermi, non c’è contrasto tra (da un lato) quanto dice questa nota e (dall’altro) la natura di questi sacramenti e l’insegnamento della Chiesa; ma, se si trattasse dell’eucaristia, invece sì.
        La nota 351, invece, ancor più complessa e problematica, si inserisce nel § 305 del testo, laddove si parla del fatto che a causa di «condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio (…) ricevendo a tal scopo l’aiuto della Chiesa». E qui si innesta la nota 351:
        «In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, «ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore» (Esort. ap. Evangelii gaudium [24 novembre 2013], 44:AAS 105 [2013], 1038). Ugualmente segnalo che l’Eucaristia «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» (ibid., 47: 1039)».
        Pertanto, in certi casi, sembra aperta la via dei sacramenti a divorziati risposati civilmente attraverso una non-imputabilità soggettiva riconosciuta, nonostante la presenza di una condizione oggettiva di peccato”.

        • Blogghi e riblogghi tutto quello che vuole: il punto di ricaduta sarà determinato in un futuro che non vedremo oggi pomeriggio da una serie di esperienze e pronunciamenti ecclesiali che abbiamo appena cominciato a registrare.
          Noi abbiamo già scritto, e molto chiaramente, che o sussistono i termini della nullità oppure si deve puntare alla convivenza fraterna, e anzi il senso di questo post è proprio che davanti al tribunale divino gioverà a poco l’aver convinto uno, dieci o cento preti.
          Non ci si riesce oggi, domani e dopodomani, non fa niente: la Chiesa ha sempre avuto grandissima pazienza con chi non riesca ad ottemperare ai suoi precetti, ma non per questo li ha abrogati. Tuttavia sarebbe sempre il caso di ricordare che essi servono alla salvezza degli uomini e non al loro tormento. Tante volte a leggere la foga con cui vi accanite non sembra che la distinzione sia chiara.

          Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone; ma starà in piedi, perché il Signore ha il potere di farcelo stare.
          Rom 14,4

      • 3.

        Questa, Signori, è la questione – serissima! – di fronte alla quale ciascuno di noi, se le parole hanno ancora un senso, è chiamato a porsi. E’ per questo che il cardinale Burke e Monsignor Schneider sono costretti a scrivere, vedi qui http://lanuovabq.it/it/la-fedelta-al-papa-ci-impone-chiarezza-sulla-fede, intervento del quale suggerisco a chi ci legge la lettura integrale,

        “…In tempi recenti, si è creata un’atmosfera di quasi totale infallibilità delle dichiarazioni del Romano Pontefice, vale a dire di ogni parola del Papa, di ogni suo pronunciamento e dei documenti meramente pastorali della Santa Sede. In pratica, non si osserva più quella regola tradizionale che distingue i diversi livelli delle dichiarazioni del Papa e dei suoi uffici con le loro note teologiche e con il corrispondente obbligo di aderenza da parte dei fedeli.

        Nonostante il dialogo e i dibattiti teologici siano stati incoraggiati e promossi nella vita della Chiesa negli ultimi decenni dopo il Concilio Vaticano II, ai nostri giorni non sembra esserci più alcuna possibilità di un sincero dibattito intellettuale e teologico o la possibilità di esprimere dei dubbi su affermazioni e pratiche che offuscano e danneggiano gravemente l’integrità del Deposito della Fede e della Tradizione Apostolica. Tale situazione porta al disprezzo della ragione e, quindi, della verità.

        Coloro che criticano le nostre espressioni di preoccupazione usano sostanzialmente solo argomenti sentimentali o di potere. Apparentemente non vogliono impegnarsi in una seria discussione teologica sull’argomento. A questo proposito, sembra che spesso la ragione sia semplicemente ignorata e il ragionamento soppresso”.

        Sono esattamente questi i livelli ai quali siamo  purtroppo giunti nell’ambito della nostra Chiesa Cattolica.

        E ancora, visto che noi gravitiamo, a vario titolo, nell’area dell’apprezzamento alla Famiglia e della sua valorizzazione, e anche per questo abbiamo a cuore la questione dell’integrità del matrimonio, che ritengo opportuno citare il filosofo Stanislaw Grygiel, amico personale di papa Wojtyła e tra i docenti licenziati dell’Istituto che lui stesso aveva contribuito a fondare, vedi da questo articolo http://lanuovabq.it/it/il-gpii-attaccato-da-teologi-privi-di-fede-e-speranza

        “Non ci sono stati cambiamenti all’Istituto Giovanni Paolo II per gli studi sul Matrimonio e la Famiglia. L’Istituto è stato semplicemente sciolto da Papa Francesco esattamente due anni fa. Nello stesso motu proprio (Summa Familiae Cura, 8 settembre 2017) il Papa ha sciolto l’opera di San Giovanni Paolo II con una frase e in quella successiva ha creato un suo proprio Istituto, che conserva ancora il nome del suo santo predecessore. Il nuovo Istituto si chiama Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia. Una parola nuova nel nome dice tutto: scienze. Quali scienze? Non c’è nessuna scienza del matrimonio e della famiglia. Perciò che cosa significa questo nome? Solo il fatto che la sociologia, la psicologia e le scienze affini decideranno come e cosa uno dovrebbe pensare del matrimonio e della famiglia nel neonato Istituto. A un certo punto ho chiesto di togliere il nome di San Giovanni Paolo II dal nome dell’Istituto, perché, come ho detto, non dovrebbe essere usato come una foglia di fico… La teologia morale e anche l’adeguata antropologia di Wojtyła sono state abbandonate dall’Istituto: significa allora che l’etica delle persone sposate sarà determinata dai sondaggi d’opinione? Il fatto che molte persone rubino, commettano adulterio, mentano, eccetera, ci autorizza a sciogliere i Dieci Comandamenti? […] Cristo non predicava le opinioni sociologiche ma la Parola del Dio vivente.

        (…)

        L’abolizione dell’Istituto Giovanni Paolo II è divenuto un segno che ha svelato i pensieri di molti cuori. Alcuni docenti sono stati allontanati dall’Istituto, alcuni docenti che leggono Amoris Laetitia alla luce della fede della Chiesa radicata nel Vangelo e nella Tradizione […].Quando Cristo dice che chiunque lascia sua moglie e vive con un’altra donna commette adulterio, nessuna interpretazione, anche da parte del più intelligente teologo o ministro, può cambiare il significato della parola “chiunque”. Se diciamo che in questo o quel caso qualcuno non commette adulterio, perché giustificato da questo o quello, significa che allo stesso tempo diciamo che Cristo non sapeva quello che diceva, perché non sapeva cosa c’è in un essere umano […]”.

        E’ per questo che, nell’articolo in questione, su “Breviarium”, il problema stava già nel titolo, in quel “peccati mai sdoganati”, mentre qui si sta giustappunto ragionando se piuttosto non ci si trovi davanti allo sdoganamento del peccato di adulterio.

        Quindi, chi ci legge può constatare che la questione è semplice e lineare, e valutare di persona chi, in questo dibattito, sia effettivamente “insensato”.  Per quanto riguarda la citazione del “cristianesimo facile”, da Paolo VI, i nostri lettori potranno anche valutare quale sia, effettivamente, in tutta questa materia, la parte che intende “facilitare” la natura più profonda dell’uomo, per come è stata plasmata dal Creatore, cedendo a un ambiguo e compromissorio scadimento al ribasso, piuttosto che conservare il deposito della Verità sull’uomo medesimo.  Per questo, tornando al punto di partenza, dove dite che “l’autrice ha enfatizzato iperbolicamente il paradosso della morale cristiana, che sempre e per tutti richiederà un impegno, in qualche caso anche dei sacrificî”, osservo che l’espressione dell'”allentamento dei lacci” resta infelice e inappropriata, come ciascuno può ben vedere, poiché quello è un approccio erroneo, e il punto sta, invece del consueto approccio al ribasso, in una bella educazione all'”essere”.

        Infine, la questione, come osservava Spaemann, fino a quando non sarà risolta da un prossimo Pontefice, in un momento futuro che non è dato sapere,  certamente sarà però chiarita nel Giorno del Giudizio, in vista del quale è bene che ciascuno di noi soppesi attentamente le responsabilità dei propri atti e delle proprie scelte.

        • Burke e Schneider stanno servendo molto male la causa che perorano, e si vede dal clima che contribuiscono ad agitare.
          Al secondo lo stesso Benedetto XVI s’è permesso di ricordarlo per iscritto.
          Difendo senza esitazioni la scelta stilistica dell’autrice, che lei ha certo diritto di leggere e apprezzare o di non leggere e ignorare, ma che non può dimostrare essere in contraddizione con la dottrina della Chiesa. Non le sfuggirà che “relaxatio legis” è la definizione classica della dispensa e dell’indulto, e spero che non vorrà tacciare il Legislatore di un “approccio erroneo”. Si rilegga la pagina di Paolo VI che le ho indicato e forse capirà il punto. Mi permetta inoltre di aggiungere che in tutto il suo incontenibile criticare, privo della minima docilità e di una buona disposizione nei confronti del Magistero (ma perfino di un testo più modesto come quello del nostro blog), non ho affatto intravisto qualcosa che lasci presagire «una bella educazione all’“essere”».

          • Come dicevo, i nostri rispettivi punti di vista non paiono conciliabili.
            Mi guardo bene dall’esprimermi sui suoi tratti caratteriali, docilità, disposizioni, eccetera, che non sono a tema in questo dibattito. Sul resto mediterà chi ci legge… e attendiamo quello ci vorrà proporre la Provvidenza!…

  2. 1.

    i nostri rispettivi punti di vista non paiono conciliabili. Voi dite: “…se non si coglie lo spirito di una macrosezione giova a poco fissarsi su qualche frase”. Spaemann, col quale concordo pienamente, dice: “Davanti a un testo del magistero papale non ci si può attendere che la gente si rallegri per un bel testo e faccia finta di niente davanti a frasi decisive, che cambiano in maniera sostanziale l’insegnamento della Chiesa”.

    Concordo pienamente con Spaemann, anche perché l’intenzione sottesa ad AL, con i due precedenti Sinodi sulla Famiglia, fino a prova contraria parrebbe essere quella, seppur espressa in modo non chiaro – per questo sono stati posti i Dubia, rimasti senza risposta – espressa da Mons. Bruno Forte, collaboratore del Pontefice Regnante, senza che egli sia mai stato smentito, qui: http://www.iltimone.org/news-timone/questi-non-sai-che-casino-ci-combinano-il-retrosce/, da dove cito:

    “«Se parliamo esplicitamente di comunione ai divorziati risposati – ha riportato Mons. Forte riferendo una battuta di Papa Francesco – questi non sai che casino che ci combinano. Allora non ne parliamo in modo diretto, fa in modo che ci siano le premesse, poi le conclusioni le trarrò io». 

    Di fronte a questi passaggi,  la questione cruciale non è quella di “lavorare a una ricezione omogenea” di una intenzione magisteriale non univoca, su un punto vitale della Dottrina, che poi a cascata ne coinvolge altri, quanto quella di restare affezionati alla verità sull’uomo, per il suo vero bene.  Non è quindi nemmeno questione di “saettare ridicoli strali contro la Prima Sede”, sia perché 1. non si sta lanciando nessuno strale, ma si porgono domande legittime, secondo Diritto canonico; 2. tant’è che anche Paolo mosse una legittima e giusta critica a Pietro, e questi, lungi dall’aversene a male, ammise semplicemente che aveva torto. Mentre oggi, qui si vuole essere più realisti del re, e si travisano sistematicamente le intenzioni di chi, ripeto, legittimamente, interpella la Prima Sede; 3. I suddetti interpelli, oltre che legittimi, non sono nemmeno ridicoli, anzi sono serissimi.

    Ma, a questo punto, anche a pro di chi eventualmente ci leggesse, conviene mettere nero su bianco le parole di cui si sta ragionando, in modo che ciascuno possa prendere direttamente visione delle parti interessate. Lo facciamo da qui http://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=4180, da dove sia pur parzialmente cito:

    “NOTA 329: VIVERE COME FRATELLO E SORELLA?
    La nota riguarda il § 298 di Amoris Laetitia, quello in cui è scritto che le situazioni «molto diverse» in cui si trovano a vivere i «divorziati che vivono una nuova unione (…) non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio ad adeguato discernimento personale e pastorale». Tra queste situazioni la Chiesa riconosce anche quella in cui «l’uomo e la donna, per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione». Questa ultima frase è riportata nel testo dall’esortazione Familiaris Consortio di S. Giovanni Paolo II al n°84.
    In questo paragrafo è chiaramente indicato che coloro che si trovano nella situazione suddetta (e che non hanno ottenuto riconoscimento di nullità del precedente matrimonio), per conformarsi al bene devono essere «sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio». E cioè, dice ancora il testo di Giovanni Paolo II, che «assumano l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi». Questa è anche la via, indicata dal testo di Papa Wojtyla, di accesso alla riconciliazione nel sacramento della penitenza e, quindi, la possibilità di comunicarsi.
    Ma la nota 329 di “Amoris laetitia” finisce in qualche modo per oltrepassare questo insegnamento: «In queste situazioni, molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere “come fratello e sorella” che la Chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, «non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 51)»
    Da questa nota sembra addirittura che coloro che sono divorziati risposati civilmente, è bene che vivano a tutti gli effetti come coniugi, perché «se mancano alcune espressioni di intimità» si mette in pericolo «la fedeltà» (?) e «il bene dei figli».
    Sono diversi gli elementi che vengono discussi di questa nota 329 e che possono dare luogo a interpretazioni errate rispetto alla natura indissolubile del primo matrimonio (se valido) e all’insegnamento morale della Chiesa:
    – la citazione della costituzione conciliare Gaudium et spes 51 risulta disancorata dal contesto originario. In Gaudium et spes, infatti, queste parole sono chiaramente riferite ai coniugi e non ai divorziati risposati;
    – utilizzando questa citazione sembra che si possa valutare – come in materia morale fanno i proporzionalisti – l’azione morale sulla base delle conseguenze positive e negative dell’azione, finendo così per obliterare ipso facto l’esistenza di assoluti morali o comportamenti intrinsecamente cattivi. In effetti la nota 329 può dare adito a delle interpretazioni che potrebbero negare l’adulterio come azione in sé cattiva. L’unione coniugale tra due persone che coniugi non sono, può quindi essere, in certi casi, un bene?
    – In questo caso, come valutare quanto riportato al n°52 dell’enciclica Veritatis Splendor di Giovanni Paolo II laddove insegna che vi sono atti (tra cui l’adulterio) che, appunto, si definiscono «intrinsecamente cattivi», «sempre e per sé, ossia per il loro stesso oggetto, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze?».

    NOTE 336 E 351: ACCESSO AI SACRAMENTI PER DIVORZIATI RISPOSATI
    Il contesto in cui vengono inserite le due note è simile, cioè quello di un differente grado di responsabilità del penitente in funzione di condizionamenti e/o fattori attenuanti. In questi casi, dice la nota 336, le conseguenze o gli effetti di una norma non devono essere necessariamente sempre gli stessi.
    «Nemmeno per quanto riguarda la disciplina sacramentale», si legge nella nota, «dal momento che il discernimento può riconoscere che in una situazione particolare non c’è colpa grave. Qui si applica quanto ho affermato in un altro documento: cfr Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 44.47
    In questo caso, pur restando il dubbio in merito a quale disciplina sacramentale faccia riferimento il testo, appare chiaro che ci sia un’apertura pratica, in certi casi, all’accesso ai sacramenti: finché si tratta (per esempio) della confessione e dell’unzione degli infermi, non c’è contrasto tra (da un lato) quanto dice questa nota e (dall’altro) la natura di questi sacramenti e l’insegnamento della Chiesa; ma, se si trattasse dell’eucaristia, invece sì.
    La nota 351, invece, ancor più complessa e problematica, si inserisce nel § 305 del testo, laddove si parla del fatto che a causa di «condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio (…) ricevendo a tal scopo l’aiuto della Chiesa». E qui si innesta la nota 351:
    «In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, «ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore» (Esort. ap. Evangelii gaudium [24 novembre 2013], 44:AAS 105 [2013], 1038). Ugualmente segnalo che l’Eucaristia «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» (ibid., 47: 1039)».
    Pertanto, in certi casi, sembra aperta la via dei sacramenti a divorziati risposati civilmente attraverso una non-imputabilità soggettiva riconosciuta, nonostante la presenza di una condizione oggettiva di peccato”.

    • Va bene, lei concorda con Spaemann e io con Müller, il quale ha autorevolmente ricordato che Amoris lætitia può essere letta in continuità con la tradizione e quindi deve esserlo. Io mi permetto anche di rovesciare la considerazione e di elevarla ad assioma: può perché deve.
      L’alternativa è dipanare sciocchezze come che AL non è un atto di magistero? Affidarsi a chiacchiere di corridoio su quel che il Papa avrebbe privatamente detto a questo e quel prelato? A proposito, quanti concistori sono passati da allora? Quante volte è stato nominato cardinale, Forte?
      Attenetevi ai fatti e alle necessità, non alle chiacchiere che leggete in giro per farvi girare un po’ d’adrenalina che vi faccia sentire vivi. La partita è lunga, la storia della Chiesa è piena di partite lunghe, non è roba da aspiranti centometristi e soprattutto non è cosa da spiriti ansiosi.

Di’ cosa ne pensi