Pubblicità, popolo, pelo… e un po’ di pesce (chissà quanto fresco)

Conviene qui distinguere nell’ordine pubblicitario il claim, la réclame e il marketing. Ordinalfabetix pratica il claim. Esso interpella il target in una prossimità sensibile e lascia che si compenetrino l’esposizione del prodotto e l’esposizione di sé: il pescivendolo è presente alla presentazione dei suoi pesci, è per questo che può esserci un dibattito, una disputa e un pesce che gli torni addosso in guisa di schiaffo. Il mercato è allora un vero mercato, perché vi si mercanteggia personalmente.

Con la réclame, che corrisponde alla società borghese, il mercante espone il proprio prodotto ma non si espone più (l’ontologia borghese, secondo Robert Spaemann, si fonda principalmente sull’autoconservazione dell’essere mediante l’accumulo dell’avere). Egli sceglie la via dell’affissione, che non permette più la discussione (ma che provoca alla rivolta a mezzo di strappi e scarabocchi). Il cartellone e il depliant vantano ancora le qualità del prodotto, ma il produttore non è più un vicino, la sua qualità – nel frattempo – si fa lontana. La moltiplicazione dei cartelloni interverrà dunque a colmare la distanza sempre più grande tra il produttore e il cliente. Bisogna far conoscere la propria marca, smarcarla dalle altre, farle acquistare fiducia, perché la prossimità e la conseguente esposizione di sé, scomparendo, debbono essere rimpiazzate da una comunicazione ipnotica che raggiunga il cliente nel suo spazio privato.

Il marketing capovolge il problema. Non s’ingegna più a raggiungere lo spazio privato del cliente, si sforza di far entrare il consumatore nel meraviglioso mondo della merce. La pubblica piazza cade tutta intera nel pannello pubblicitario. Le qualità del prodotto non devono più essere vantate, perché il prodotto non appare più in un mondo che lo precede. Esso sbarca col suo proprio mondo, in particolare grazie alla pellicola; come un’opera d’arte, essa ci avvolge nella propria atmosfera. La confusione dell’arte e della pubblicità, in un senso come nell’altro – Jeff Koons faceva la propria autoproduzione come di una marca, o David Lynch realizzando una clip per Playstation 2 – è tipica dell’era del marketing, non perché questo sarebbe più esteta o più raffinato della réclame, ma perché intende svestire l’opera del suo potere di essere un mondo a sé, a tuttotondo, e tanto più accattivante. Il mondo di una pubblicità ha comunque il dovere di non essere né tragico né problematico. Esso riflette la visione ideale di una umanità sicura di sé, distesa, autentica – che vive nel benessere grazie a Toyota, in armonia con la natura grazie al chewing gum Hollywood, pratica la stregoneria grazie a Dior, è radicata in un territorio ed è felice in famiglia grazie a Justin Bridoux e Bonne Maman.

Lo sviluppo di Internet opera l’ultimo stadio del super-privato, con l’inestricabile intreccio del social network gratuito e del marketing digitale. Zuckerberg ha letto Habermas? La funzione critica politica sembra tornare in auge nella funzione incitava commerciale. L’interattività programmata, i siti comparativi, le stelle e i like a portata di dito, i forum in cui si dibatte tra “consumm’attori” non restaurano la pubblica piazza? In verità, fanno molto più che frammentarla in piazzole private o concentrarla attorno ad articoli in vendita: la pixellizzano, nel senso di “a ciascuno il proprio muro da pubblicazioni”.

La questione non è l’invasione dei banner expand, dei flash trasparenti, dei pop-up o pop-under, di tutta la pubblicità detta “interstiziale” o “personalizzata” dalla divulgazione dei nostri dati internautici, ma la riduzione del mondo in formato pubblicitario, anche quando uno avesse bloccato tutti gli annunci pubblicitari. Günther Anders aveva già descritto questo fenomeno attraverso le news in televisione:

Supponiamo che appaia sullo schermo, al fine di presentarsi agli elettori, un candidato di nome Smith. È evidente che Smith si mostrerà dal suo profilo migliore, come una pleasing personality dal profilo pieno di fascino […]. Farà passare il suo charme in primo piano come se fosse la sua qualità esclusiva, al fine di farci dimenticare che ha altre qualità meno positive […]. Egli è dunque “un soggetto che si svuota nel suo predicato”.

Questo svuotamento del soggetto nel suo predicato è il principio stesso della pubblicità, in cui il prodotto si riconduce alla sua qualità (non al suo oscuro modo di produzione) e ancora di più all’immaginario della marca. L’uomo che appare sullo schermo prende simultaneamente la forma di un fantasma e di una réclame. Essere mercanti di sé stessi, diventare in sé una merce, multiplicare le proprie pubblicazioni, cambiare il proprio λόγος in logo e il proprio volto in profilo, mettere un hashtag davanti al suo nome come un ultimo titolo nobiliare (o una particolare nobiltà), cosa che ormai è diventata accessibile a tutti, mediante i social network. Il monologo di Amleto non s’interroga più: «To be or not to be?». Esso afferma chiaramente: «To be is B to B», poiché “business is business” è la forma generale della relazione tra i consumm’attori. Ordinalfabetix e Automatix non si battono più sulla piazza del villaggio: comunicano tramite teaser interposti.

Le agenzie pubblicitarie sono ben lungi dall’essere onnipotenti. Spesso le si crede capaci di “creare nuovi bisogni” in poveri diavoli che ne sarebbero preda passiva e non consenziente. Il marketing è allora rappresentato come uno “stupro delle masse” in cui il consumatore innocente, incapace di elevarsi al di sopra della sommaria psicologia del riflesso condizionato, è un cane di Pavlov aizzato dal battage mediatico (ma perché diavolo questa marionetta è capace di indossare un gilet giallo?).

Siffatte critiche della pubblicità sono i suoi migliori elogi. Esse prolungano il mito della sua infallibile efficacia, e gli inserzionisti corrono anche più rapidamente verso le agenzie per portare a segno il proprio obiettivo. Quando ero giovane, ho subito delle pubblicità Dim a ripetizione, anche visionandole con piacere: la famosa melodia mi è rimasta in testa, così come numerose paia di belle cosce, eppure non ho mai comprato calze di nylon. Una pubblicità Schweppes non mi ha fatto bere più indian tonic, però mi ha permesso di scoprire Chico Buarque e di ammirare presto la sua Ópera do Malandro.

Le pubblicità cercano di piacerci. Questo torna a nostro vantaggio. Esse s’ingegnano a indagare le nostre tendenze, a sondare le nostre opinioni – quell’opinione di cui Socrate ci ha insegnato che, quando la si interroga un poco per bene, chi la teneva vi rinuncia ben presto. Un po’ di riflessione basta a convincerci che non abbiamo veramente bisogno di quei nuovi prodotti e, tuttavia, li compriamo comunque, perché ecco che cosa ci tocca: quei prodotti hanno bisogno di noi. Come ancora una volta ha ben visto Anders, la pubblicità è la prima delle merci. Non diciamo più “Dacci il nostro pane quotidiano”; sono quelle a supplicarci: «Dateci il nostro consumatore quotidiano». E noi siamo troppo felici di esaudirle, dal momento che siamo al contempo i loro dèi e i loro servitori. E poi, nello spontaneo slancio di una bontà estrema, arriviamo fino a salvare alla maniera di Cristo, consegnandoci per loro e facendo di noi stessi delle merci.

(Pubblicità)

La sfida è di non ridurci a scegliere tra chi la fa, la pubblicità, e chi la demolisce, visto che i secondi comunque non sfuggono alla logica della privatizzazione e del format pubblicitario. Si tratta piuttosto di fare in modo che la pubblicità entri veramente nello spazio pubblico. Che la pubblica piazza respinga i pannelli e riaccolga le bancarelle, che il claim sia riconosciuto come superiore al marketing e il dibattito come superiore al claim. Insomma, che il villaggio gallico ci appaia più luminoso di Times Square e che riprendiamo le nostre vivaci azzuffate di Ordinalfabetix e di Automatix sotto lo sguardo del nostro Creatore, anch’egli giudeo, se crediamo ai Vangeli, e dunque dotato del senso di un commercio trascendente.

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