«La morte mi ha tentata, ora combatto l’#eutanasia». Claire Freeman

Sul dibattito pro e contro eutanasia e/o suicidio assistito si sta confrontando il mondo intero e, oltre alle battaglie in punta di diritto, credo sia importante parlare delle persone, dei loro volti, delle loro storie particolari eppure generalizzabili, perché siamo tutti membri della grande famiglia umana e in tutto il pianeta il cuore dell’uomo resta sempre lo stesso.

Da Christchurch, in Nuova Zelanda, arriva la storia di Claire Freeman, una modella tetraplegica.

Claire, originaria di Whangārei, ha 40 anni e a sottrarle il movimento di gambe e braccia è stato un incidente stradale, avuto a soli 17 anni, che le ha provocato una lesione spinale all’altezza del collo. Questo non le ha impedito di costruirsi una vita: si è laureata in design e ha trovato lavoro in questo campo a Christchurch. Poi nel 2011 qualcosa le si è spezzato dentro: quell’anno un terribile terremoto di magnitudo 6.3 scosse la città e molti edifici, compresa la cattedrale cittadina, furono gravemente danneggiati e crollarono, totalmente o parzialmente. I morti registrati furono 185, più di 1000 i feriti e non accertati i dispersi.

Quell’evento tragico le risvegliò «un sacco di dolore che avevo tenuto in profondità».

Così tentò il suicidio quattro volte e sfiorò la morte: finì in ospedale per una settimana.

«Ricordo di aver parlato con uno psicologo e di aver detto: Non capisci, avere una disabilità è davvero difficile, ho tanto dolore, voglio farla finita», ha raccontato lei stessa nel documentario “Defend New Zealand”.

Gli dissi che stavo pensando a un suicidio assistito e lui disse: «Potrebbe essere un’opzione per te». Così abbiamo fatto una chiacchierata e lui ha parlato della Svizzera e di cosa succede in altre parti del mondo.

Così ho iniziato a mettere insieme le cose per farlo, ero nel dolore costante, mentre ancora cercavo di lavorare e costruire una casa e ogni sorta di cose.

Ironia della sorte, ciò che le ha fatto cambiare idea è stato un disastro medico. Un’operazione per sostituire un “pezzo di metallo” nel suo collo andò molto male e la lasciò ancora più disabile. Doveva smettere di lavorare e riposare.

«Ho iniziato a dormire, e il dolore ha iniziato a scomparire», ha detto:

So per esperienza personale che gran parte del mio dolore era legato allo stress e allo stile di vita frenetico e al modo in cui continuavo a spronare me stessa e il mio corpo.

La cosa sorprendente è stata il sonno, penso che sia stata davvero una grande cosa, non essere in grado di fare nulla, semplicemente stare stesa a letto pensando alla vita.

Incapace di lavorare, è diventata attiva sui social media, postando su Instagram e aprendo un blog.

Ha inoltre intrapreso un dottorato presso l’AUT University per le scelte relative alle attrezzature per la mobilità. Claire descrive i suoi due supervisori, la dott.ssa Joanna Fadyl presso l’AUT e la dott.ssa Barbara Gibson all’Università di Toronto come «i due migliori supervisori del mondo» per l’argomento. Ha detto:

[La dottoressa Gibson] non stava prendendo studenti, ma quando ha scoperto cosa mi era successo, mi ha accettato.

Cominciò a parlare della qualità della vita, e mi resi conto che molti dei consigli che mi erano stati dati, come quelli dello psicologo e di uno psichiatra che mi aveva visto dopo un precedente tentativo di suicidio, era perché mi guardavano e vedevano la disabilità.

Non stavano dicendo: “Ehi, cosa sta succedendo nella tua vita?” “Stai lavorando troppo?” “Hai troppo dolore?” Nessuna di queste domande è stata posta, era solo, “Certo che vuole morire, è su una sedia a rotelle, sta soffrendo”.

Attraverso Instagram, dove ha 18.300 follower, Claire ora aiuta altre persone con disabilità che stanno pensando di togliersi la vita.

L’anno scorso è stata invitata a fare da modella alla settimana della moda milanese in Italia dopo che gli organizzatori di uno spettacolo di “inclusive modeling” l’hanno vista su Instagram.

«Non mi vedo come una modella, ma all’improvviso ero in passerella», ha detto.

Ora ha raccontato la sua storia in una serie di documentari in cinque parti intitolata Defend New Zealand, con lo scopo di presentare il suo caso contro la proposta di legge sul fine vita di David Seymour, che legalizzerebbe in Nuova Zelanda l’eutanasia. 

Il direttore creativo Henoch Kloosterboer, un neozelandese olandese, è stato ispirato a realizzare i film dopo che la sua matrigna ha ricevuto il verdetto tragico di una malattia che le lasciava solo sei mesi di vita. Sapeva che persone in situazioni simili hanno scelto il suicidio assistito nei Paesi Bassi, dove è legale.

A seguito di ciò, Seymour ha poi dichiarato di aver modificato il disegno di legge originario, che avrebbe permesso a chiunque, «in una condizione medica grave e irrimediabile», di chiedere l’eutanasia, limitando l’applicazione alle persone con «una malattia terminale che rischia di porre fine alla sua vita entro sei mesi».

Non è abbastanza, ma è già qualcosa e soprattutto la modifica pone il dito sul punto centrale della questione eutanasia/suicidio assistito, e cioè l’irreversibilità di una scelta fatta da una persona, che, in quanto tale, può cambiare opinione, se le è data altra vita da vivere.

Certi tunnel bui che ci avvincono hanno la caratteristica plumbea di sembrare perenni, mentre, se è vero che tante situazioni oggettive non si possono cambiare, è sempre vero che l’uomo può mutare la sua disposizione d’animo verso la medesima condizione, facendo fiorire nel suo cuore quello che pareva un deserto irrisolvibile.

La storia di Claire, inoltre, denuncia un atteggiamento gravissimo di tante figure mediche: il loro sguardo focalizzato sul problema invece che sulla persona. Eppure tutti quanti siamo un universo complesso, nessuno di noi è solo il proprio problema, e quando la malattia (fisica o mentale) che colpisce ha i contorni dell’irreversibilità, diventa importantissimo ricucire i fili di tutto il resto, perché se una malattia non si può guarire, la persona si può sempre curare, sia in senso palliativo strettamente medico, che nel senso ampio del prendersi cura.

Inoltre spesso abbiamo radicati in mente degli standard minimi di vita, al di fuori dei quali squalifichiamo l’esistenza e motiviamo automaticamente ogni infelicità, magari solo perché non siamo capaci di immaginarci a reagire in una situazione simile. Eppure ci sono tante persone che possono testimoniare la ricchezza di vite vissute ben al di fuori di questi presunti standard minimi, con gioia e soddisfazione.

Insomma, il dibattito sull’eutanasia e il suicidio assistito, compiuto da persone sane, pasciute e tranquille, finisce per essere guidato dalla paura di non essere capaci di vivere in condizioni difficili, diventa la proiezione pietistica della propria insicurezza e miseria umana.

Eppure, come nella storia di Claire, spesso capita che le cose che vanno storte possono contribuire a raddrizzarci e ad aggiustare il cuore. Diamo credito alla speranza.

 

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