Sentinella, quanto resta della crisi?

Rissa durante i lavori sul disegno di legge costituzionale in corso alla Camera, Roma, 12 febbraio 2015. ANSA/STRINGER

Oggi l’ufficio delle letture propone Isaia, con la sua poesia oracolare per la caduta di Babilonia, sulle sentinelle del mattino. Il finale, così vibrante in quell’invocazione ripetuta verso il profeta, mi ha indotto ad un’azione penosamente moderna, sebbene manifestazione di una brama di antica conoscenza: incollare sul motore di ricerca le parole del salmo e vedere cosa esce.

Sono uscite due cose nemmeno parenti: Giuseppe Dossetti e Guccini. Da una parte l’accorato appello di Dossetti1Giuseppe Dossetti, (1913-1996) fu un testimone di primo piano della resistenza al fascismo e della edificazione di un’Italia democratica e repubblicana. Divenne uno dei padri della Costituzione, fu deputato e vice-segretario della DC, ai tempi di De Gasperi. Ritiratosi ben presto dalla politica, si fece monaco e prete, fondando una nuova famiglia spirituale nella diocesi di Bologna. Al Concilio, al seguito del card. Lercaro, diede un contributo originale al rinnovamento della Chiesa. Poi, ritiratosi nel Medio Oriente, a Gerico, per moltissimi anni fu l’uomo della preghiera e del silenzio. ai cattolici, pronunciato nel 1994 in occasione di un discorso2pubblicato da Metronomie anno XI Giugno-Dicembre 2004. per il decennale della morte di Lazzati, già rettore dell’Università cattolica di Milano, dall’altra il canto di un moderno poeta affamato di verità, senza nemmeno una certezza; da una parte un’analisi socio-politica sull’Italia all’inizio dell’era Berlusconi, col suo smarrimento dei valori condivisi, il suo vuoto riempito da un appetito smisurato e incontenibile per le cose, la sua perdita del senso della comunità, politica e sociale, nel dilagare di una nuova ideologia del singolo, e dall’altra lo stupore colmo di speranza di chi trova in questa richiesta alla sentinella l’allegoria della vita umana intera.

Rileggere oggi Dossetti fa un certo effetto, perché quel che dice potrebbe essere stato scritto quest’anno, tanto è aderente la sua analisi alla realtà presente. Però ammetto che il taglio dolente eppure sereno di Guccini pare quasi dirmi di più, essendo paradossalmente più trascendente, in quanto parla dell’uomo in generale e non di una specifica società.

Sono da secoli, o da un momento
fermo in un vuoto in cui tutto tace,
non so più dire da quanto sento
angoscia o pace.
Coi sensi tesi fuori dal tempo,
fuori dal mondo sto ad aspettare
che in un sussurro di voci o vento
qualcuno venga per domandare.
E li avverto, radi come le dita,
ma sento voci, sento un brusio
e sento d’essere l’infinita eco di Dio.
E dopo, innumeri come sabbia,
ansiosa e anonima oscurità
ma voce sola di fede o rabbia,
notturno grido che chiederà:

Shomèr ma mi-llailah?

Forse l’approccio giusto alle profezie di Dossetti è ascoltare prima Guccini e poi leggere: la realtà disastrata e disastrosa dei cattolici in politica, da lui denunciata, è guaribile solo ripartendo da una conversione interiore che attiri di nuovo lo sguardo ad un orizzonte che trascende l’immediato presente e il proprio tornaconto personale (o di parte), senza però dimenticare che l’uomo questo è, in ogni caso. L’imperfezione, anche grave, fino al delitto perpetrato contro il bene comune, resta ineliminabile. Ciascuno compia dunque il proprio cammino, nell’attesa dell’aurora, per sè e per il proprio mondo: ogni luce che si accende, per quanto piccola, rischiara intorno la tenebra.


1. La sentinella interpellata.

Lazzari è sempre stato — ma in particolare negli ultimi anni della sua vita — un vigilante, una scolta, una sentinella: che anche nel buio della notte, quando sulla sua anima appassionata di grande amore per la comunità credente poteva calare l’angoscia, ne scrutava con speranza indefettibile la navigazione nel mare buio e livido della società italiana3Vedi le parole di speranza pronunziate nell’ultima intervista data alla TV il 10 marzo 1986, due mesi prima della sua morte: in G. Lazzati, Pensare politicamente, II, Ed. Ave, Roma 1988, p. 445 ss..

Perciò mi pare che per lui e per la sua devota e ansiosa scrutazione possano va­lere le parole di un breve, e un po’ enigmatico, oracolo del libro di Isaia: inseri­to tra le profezie sulle Nazioni pagane (in questo caso, come formalmente pre­cisa la versione greca dei LXX, sull’Idumea oppressa dagli Assiri).

Mi gridano da Seir.
Sentinella, quanto resta della notte?
Sentinella, quanto resta della notte?
La sentinella risponde:
Viene il mattino, e poi anche la notte;
se volete domandare, domandate,
convertitevi, venite!
(Isaia 21, 11—12)

2. Nessun rimpianto per il giorno precedente.

Una prima riflessione si può fare su questo testo.

Non c’è nessun cenno al giorno precedente: ai suoi pesi, alle sue prove, ai suoi tormenti e alle sue speranze (se ce ne potevano essere). Chi interpella la senti­nella, e la sentinella stessa, non si ripiega a considerare — tantomeno a rimpian­gere — il giorno prima.

Certo Lazzati non si faceva nessuna illusione, nei suoi ultimi anni, su ciò che si stava preparando per la cristianità italiana. Chi ha potuto avvicinarlo allora, av­vertiva che la sua coscienza esprimeva un giudizio duro, lucido, su ciò che sta­va maturando per il nostro Paese, appunto quello a cui stiamo assistendo ora dopo le ultime elezioni: non tanto lo sbandamento elettorale dei cattolici, ma le sue cause profonde, oltre gli scandali finanziari e oltre le collusioni tra mafia e potere politico, soprattutto l’incapacità di “pensare politicamente”, la mancanza di grandi punti di riferimento e l’esaurimento intrinseco di tutta una cultura po­litica e di un’etica conseguente.

Perciò Lazzati, se posto di fronte agli ultimissimi accadimenti, non sarebbe stupito né si attarderebbe in vani rammarichi per l’improvvisa caduta dell’espressione politica del cattolicesimo italiano. Io sono sicuro che egli da anni la vedeva per scontata e quasi fatale: pur essendo ben convinto — e con quale vigore! — della validità in sé del patrimonio ereditato dal passato meno re­cente (anteriore alla prima guerra mondiale e da quello prefascista) e dal passa­to più recente (soprattutto dei primi lustri del secondo dopoguerra). Tale eredi­tà poteva annoverare una elaborazione culturale, forse modesta, ma vivace; un’opera di formazione vasta e costante, di quadri e di masse; sforzi organizza­tivi appassionati e perseveranti; e soprattutto tanta fede e tanta speranza e tanti sacrifici di persone umili e realmente disinteressate; e infine, alcuni momenti forti di mediazione civile e politica riconosciuta da molti come valida.

A questa eredità si ricollegava Lazzati e l’ha anche gestita ed arricchita di suo. Ma non credo che oggi, dopo tanta dissipazione che ne è stata fatta per legge­rezza e per disonestà diffusa, egli si attarderebbe a insistervi o per lo meno non direbbe che il problema si riduce principalmente a rivendicare con energia il patrimonio passato e ad “avere l’orgoglio delle proprie ragioni”.

Ragioni appunto del passato: cioè di ieri, o meglio di ieri l’altro. Non abbiamo ancora abbastanza considerato — e direi proprio che non ce ne vogliamo per­suadere — quant’acqua sia passata dal 1989: in cinque anni è come se ne fosse passata tanta da sommergere non un’isola, ma un intero continente (l’Europa: e l’Europa soltanto?).

Che non ne siamo ancora persuasi, non siamo solo noi cattolici (o lo siamo so­lo nelle affermazioni generiche, e poi non ne deduciamo quasi nulla quando si tratta di operare) ma lo sono anche i laici, e in particolare le sinistre nostrane sempre più prive di una cultura aggregante; e persino queste nuove destre, che hanno vinto le elezioni sulla scommessa del nuovo, ma che per ora si mostrano ancora attaccate a metodi vecchi, a soluzioni archeologiche, e persino quando vorrebbero innovare (come fa la Lega) fanno proposte capaci di dare voce alla protesta degli interessi di oggi, e non capaci di interpretare il vero movimento della storia, italiana ed europea.

3. La notte va riconosciuta per notte.

Dunque, a parer mio, Lazzati oggi non sarebbe un saggio laudator temporis acti, cioè non si attarderebbe a rimpiangere il passato di ieri o di ieri l’altro, o a riaccreditarlo di fronte agli immemori, ma si immergerebbe consapevolmente nella notte: direbbe con semplicità e forza che la notte è notte, ma sempre con l’anima della sentinella che (secondo un altro testo celebre della Scrittura, il De profundis) è tutta protesa verso l’aurora:

L’anima mia è verso il Signore
più che la sentinella verso l’aurora
più che la sentinella verso l’aurora
(Salmo 129/130, trad. Ravasi)

Pur non guardando al passato, e senza stabilire alcun confronto col tempo di prima, e pur guardando in avanti verso il mattino, la sentinella è ben consape­vole che la notte è notte.

Prescindiamo da un disordine più generale, che investe tutta l’Europa (e che ha riflessi speculari sui suoi prolungamenti asiatici e africani). Guardiamo per ora solo all’Italia. Siamo di fronte a evidenti sintomi di decadenza globale.

Anzitutto sul piano demografico: abbiamo il tasso di natalità più basso, sicché se continuassimo sempre in questo modo, si profilerebbe tra un secolo e mez­zo l’estinzione del nostro popolo. E comunque nella nostra società, a un cre­scente numero di anziani e di vecchi presto non sarà più un valido compenso il numero di giovani e di persone mature. Già oggi i minori di diciotto anni sono solo dieci milioni, su cinquanta, cioè un quinto del totale.

In secondo luogo, sganciato sempre più sistematicamente il matrimonio dal necessario e imprescindibile rapporto con la fecondità, si hanno due conse­guenze:

  • la fecondità cercata, quando è cercata, per conto suo, cioè non come realizzazione umana della pienezza della personalità, ma come gestione di inge­gneria genetica, che finisce quasi sempre con l’essere avulsa da qualunque spiri­tualità;
  • e dall’altra parte l’atto sessuale tende sempre di più a dissociarsi da ogni regola, nella ricerca esclusiva di un piacere che si fa sempre più autonomo e più sofisticato, fino alle forme più perverse, come è sempre accaduto nei periodi di decadenza dei popoli e di grave perdita delle culture.
  • In terzo luogo questa ossessione del piacere sessuale, come porta a una continua ed eccessiva stimolazione dell’istinto naturale, così lo infiacchisce nel­le sue stesse potenzialità naturali (e sono segnalate alte percentuali di questo decadimento). E ancora porta (con altri fattori concomitanti quale l’eccesso fu­ribondo di immagini mediatiche) porta, dico, all’ottundersi delle facoltà supe­riori dell’intelligenza, cioè la creatività, la contemplazione naturale, il discerni­mento, per una inabilità alla durata dell’attenzione e del confronto, e quindi dell’elementare capacità critica.
  • In quanto luogo la scuola, specialmente la scuola superiore — in gravis­simo ritardo nel rinnovamento dei suoi ordini, delle sue strutture e dei suoi programmi — è sempre più inadeguata a compensare questo vuoto desolante: e in certi ambiti locali è fatalisticamente rassegnata a non funzionare più per nul­la.
  • Infine, al vuoto ideale e conseguentemente etico, si tenta dai più di compensare con la ricerca spasmodica di ricchezza: per molti al di là di ogni ef­fettivo bisogno vitale, elevata a scopo a se stessa. Si verifica così per parecchi ciò che la prima epistola a Timoteo (6,9) chiama il laccio di una bramosia insensata e funesta.

Così, alla inappetenza diffusa dei valori — che realmente possono liberare e pienificare l’uomo — corrispondono appetiti crescenti di cose — che sempre più lo materializzano e lo cosificano e lo rendono schiavo.

Questa è la notte, la notte delle persone: la notte davvero impotente, uscita dai recessi dell’inferno impotente, nella quale la persona è custodita rinchiusa in un carcere senza ser­rami (Sap. 17,13.15).

4. La notte delle comunità.

In questa solitudine, che ciascuno regala a se stesso, si perde il senso del con-essere (il Mit-sein di Heidegger, cioè l’esserci al mondo insieme: pur esso, però insufficiente, come cercherà di insistere Levinas): e la comunità è fratturata sot­to un martello che la sbriciola in componenti sempre più piccole (di qui la fata­le progressione localistica) sino alla riduzione al singolo individuo.

È appunto il singolo ciò su cui costruisce tutta la sua dottrina l’ideologo della Lega: i diritti sono solo degli individui, il diritto è solo individuale4G. F. Miglio, Introduzione a H. D. Thoreau, Disobbedienza civile, A. Mondatori, Milano 1993, p. 24 e passim.. E perciò ri­spetto agli altri non vi possono essere che contratti, in funzione dei rispettivi in­teressi e del reciproco scambio.

Noi stiamo entrando in un’età caratterizzata dal primato del contratto e dall’eclissi del patto di fedeltà.

Un’età, dunque, in cui

gli ordinamenti federali sono sistemi in cui si tratta e si negozia senza soste5G. F. Miglio, Il negoziato permanente, in “Micro Mega”, 1 /94, p. 14-15

Al che ha già risposto Cacciari, concludendo appunto su Micro Mega il suo dia­logo con Miglio: cioè che questo di Miglio è puro occasionalismo (invero alla sua volta teologico, a dispetto della sua grande pretesa di laicità) e che per tale via si ridurrebbe.

Il politico a pura contrattazione economica, per dis­solvere il sistema in un coacervo di accordi e di con­venzioni,

E perciò Cacciari gli ripropone la domanda che aveva già formulato

Che cosa differenzia un tale sistema da quello che regola gli accordi fra imprese industriali e commerciali?6M. Cacciari, Dialogo con Miglio, in “Micro Mega” 1 /94, p. 10.16-17.

C’è da chiedersi, a questo punto, se tali degenerazioni non siano insite nella de­cadenza del pensiero occidentale, come sostiene Levinas. A suo parere, posso­no essere evitate non con un semplice richiamo all’altruismo e alla solidarietà7Quanto possono essere vuoti e sterili i richiami (anche cattolici) a una mera solidarietà, si può vedere nell’articolo di E. Berselli, Gli esorcismi della solidarietà, in “Il Mulino”, 5/93, p. 867 ss., ma ribaltando tutta la impostazione occidentale, cioè ritornando alla imposta­zione ebraica originale, nella quale si dissolve proprio questa partenza dalla li­bertà del soggetto. I figli d’Israele sul Sinai, nel momento più solenne e fondan­te di tutta la loro storia, quando Mosè propose loro la Legge, hanno detto:

Faremo e udremo (Es 24,7)8A commento di questo testo e delle deduzioni che già ne traevano i maestri del Talmud, vedi Levinas, Quattro letture talmudiche, Il Melangolo, Genova 1982, p. 67-97, che comincia citando un detto di Rav Simai: «Quando gli israeliti si impegnarono a fare prima di udire, scesero 600.000 angeli e posero su ciascun israelita due corone: una per il fare, l’altra per l’udire». E Levinas continua: «Ciò è motivo di scandalo per la logica, e può essere preso per fede cieca o per l’ingenuità della fiducia infantile (…). La tradizione ebraica si è compiaciuta di questa inver­sione dell’ordine normale, in cui l’intendere precede sempre il fare. La tradizione non finirà mai di sfruttare tutto il partito che si può trarre da questo errore di logica, e tutto il merito che sta nell’agire prima di avere inteso (…), e ha cura di dimostrare che l’ordine in apparenza rovescia­to è, al contrario, fondamentale (…). L’adesione al bene per coloro che dissero: “Faremo e u­dremo”, non è il risultato di una scelta tra il bene e il male, essa viene prima (…), è un patto col bene antecedentemente all’alternativa del bene e del male (…). Segreto di angeli, non coscienza infantile (e cita il Salmo 103, 20, che egli interpreta esattamente come la Vulgata latina: “Benedicite Domino, omnes angeli eius: potentes virtutes, facientes verbum illius, ad audiendam vocem sermonum eius, cioè: Benedite il Signore, voi tutti suoi angeli: virtù potenti, che fate la sua parola, per udire la voce delle sue parole: così anche la LXX e A. Chouraqui, Le cantique des cantiques suivi des psaumes, PUF, Paris 1970, p. 229)». Perciò Levinas conclude: «La relazione diretta col vero, che esclude l’esame preliminare del suo tenore, della sua idea — voglio dire, l’accoglimento della Rivelazione — può essere unicamente relazione con una persona, con l’altro. La Thorà è data dalla luce di un viso. L’epifania dell’altro è ipso facto la mia responsabilità nei confronti dell’altro: la visione dell’altro è fin d’ora un’obbligazione nei suoi confronti (…). La coscienza è l’urgenza di una destinazione che porta all’altro, non l’eterno ritorno su di sé».

Cioè essi scelsero un’adesione al Bene, precedente alla scelta tra bene e male. Realizzarono così un’idea di una pratica anteriore all’adesione volontaria: l’atto con il quale essi accettarono la Thorà precede la conoscenza, anzi è mezzo e via alla vera conoscenza. Questa accettazione è la nascita del senso, l’evento fondante l’instaurarsi di una responsabilità irrecusabile.

L’accoglimento della Rivelazione è una caratterizzazione dell’uomo come risposta, come coscienza della destinazione che porta all’Altro. Ben avanti ogni sermone edificante, ogni moralismo, ogni paternalismo: c’è una relazione e una responsabilità che mi costituisce prima ancora che io possa chiedermi come devo comportarmi e cosa devo fare9Vinci, Ebraismo e filosofia in E. Gevinas, in Aa.Vv., Filosofia ed ebraismo, Giuntina, Firenze 1993, p. 124-127.

Comunque si può affermare di Lazzati che, anche se non ha svolto queste premesse teoriche, e se ha semplicemente tutto ricondotto — anche l’etica — al mistero di Cristo, suprema fondazione di ogni chiamata dell’uomo, ha però sempre visto il mistero di Cristo indissolubilmente congiunto a una eticità rigo­rosa e sistematica. Egli ne ha analizzato e approfondito e, quel che più conta, ne ha testimoniato con i fatti, tutte le applicazioni in ogni ambito dell’esistenza personale e comunitaria. Da giovane laico si è impegnato nell’Azione Cattolica e nella cultura. Così, fatto prigioniero, dal primo giorno all’ultimo dei due anni di internamento nei Lager tedeschi, ha incessantemente cercato di infondere speranze e costanza e fedeltà nei compagni di prigionia. Rimpatriato, ha fatto tacere ogni preferenza personale, ha semplicemente riconosciuto il dovere del momento, e si è impegnato in politica ad tempus e sempre con limpido e nobile rigore etico. E dopo, con la stessa semplicità, è ritornato ai suoi studi e al suo insegnamento, e soprattutto al suo magistero continuo, col quale inculcava ai più giovani la passione etica nell’esercizio delle singole professioni. E finalmen­te ha ancora testimoniato la sua superiorità etica nella sua sofferta indipenden­za e imparzialità di Rettore all’Università Cattolica. E poi nella sua lunga malat­tia fino alla morte.

5. L’illusione dei rimedi facili e delle scorciatoie per uscire dalla notte.

Ritornando ora all’oracolo di Isaia, e preso atto che esso parla di notte, e di notte fonda, dobbiamo ancora soggiungere che esso non lascia grandi spe­ranze ai suoi interpellanti: ma con voluta ambiguità, annunzia sì il mattino, ma anche subito il ritorno della notte. L’oracolo del profeta non vuole alimentare illusioni di immediato cambiamento, e anzi invita a insistere, a ridomandare, a chiedere ancora alla sentinella, senza però lasciare intravedere prossimi rimedi. Potremo anche per questo aspetto trovare qualche indicazione valida per noi ora, e sempre esempi validi in Lazzati.

Certamente, anzitutto, l’indicazione e l’esempio di una perseveranza durevole che sa, anche nelle circostanze estreme, sfuggire alla tentazione di soluzioni fa­cili e di anticipazioni tattiche.

Oserei aggiungere un consiglio che, a mio avviso, emerge dalla nuova congiun­tura che si sta creando nel nostro Paese, proprio in questi giorni dopo la for­mazione del nuovo governo.

Conviene ripensare alle cause profonde della notte, quali già Lazzati le indicava, agli inizi degli anni ’80, come realtà intrinseche alla nostra cristianità italiana. Anzitutto una porzione troppo scarsa di battezzati consapevoli del loro batte­simo rispetto alla maggioranza inconsapevole. Ancora, l’insufficienza delle co­munità che dovrebbero formarli; lo sviamento e la perdita di senso dei cattolici impegnati in politica, che non possono adempiere il loro compito proprio di riordinare le realtà temporali in modo conforme all’evangelo, per la mancanza di vero spirito di disinteresse e soprattutto di una cultura modernamente ade­guata; e quindi una attribuzione di plusvalore a una presenza per se stessa, anzi­ché a una vera ed efficace opera di mediazione; e infine l’immaturità del rap­porto laici-clero, il quale non tanto deve guidare dall’esterno il laicato, ma pro­porsi più decisamente il compito della formazione delle coscienze, non a una soggezione passiva o a una semplice religiosità, ma a un cristianesimo profon­do ed autentico e quindi ad un’altra eticità privata e pubblica10G. Lazzati, Il vero scoglio della presenta cattolica, in “Vita e pensiero”, LIV, 1981, n. 10, p. 26, riprodotto in Pensare politicamente, II, cit., p. 333 ss..

Ebbene, se queste erano, e sono tuttora, le cause profonde della nostra notte, non si può sperare che si possa uscirne solo con rimedi politici, o peggio ri­nunziando a un giudizio severo nei confronti dell’attuale governo in cambio di un atteggiamento rispettoso verso la Chiesa o di una qualche concessione ac­cattivante in questo o quel campo (per esempio la politica familiare e la politica scolastica).

Evidentemente i cattolici sono oggi posti di fronte ad una scelta che non può essere che globale e innegoziabile, perché scelta non di azione di governo ma di un aut-aut istituzionale.

Non si può in nessun modo indulgere alla formula giornalistica della Seconda Repubblica, impropria, anzi erronea imitazione del modo francese di numerare la successione delle forme costituzionali avvenuta nel Paese vicino.

Non si vuol dire, con questo, che nel caso nostro non ci siano cose da cambia­re, in corrispondenza delle grosse modificazioni intervenute nella nostra società negli ultimi decenni. È molto avvertita, per esempio, una diffusa e pervasiva alterazione patologica dei rapporti tra privati, partiti e pubblica amministrazio­ne; come pure la pletoricità e macchinosità di un sistema amministrativo che non si adatta più alle dinamiche di una società moderna; e ancor più la degene­razione privilegiata e clientelare dello stato sociale (tradito); la necessità di una lotta sincera e non simulata alla criminalità organizzata; e infine l’emergenza e la necessità di adeguata valorizzazione di una nuova classe operosa di piccoli e medi imprenditori.

Si può aggiungere l’esigenza di uno sveltimento della produzione legislativa, e perciò la riforma dell’attuale bicameralismo; e soprattutto un’applicazione più effettiva e più penetrante delle autonomie locali, da perseguirsi, però, al di fuori di ogni mito che tenda a stabilire distinzioni aprioristiche nel seno del popolo italiano e che perciò tenda a scomporre l’unità inviolabile della Repubblica.

Se tutto questo sarà fatto, nel rispetto della legalità e senza spirito di sopraffa­zione e di rapina, nell’osservanza formale e sostanziale delle modalità costitu­zionali, non ci può essere nessun pregiudizio negativo, anzi ci deve essere un auspicio favorevole.

Ma c’è una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto. Certo oltrepasse­rebbe questa soglia una disarticolazione federalista come è stata più volte pro­spettata dalla Lega. E ancora oltrepasserebbe questa soglia qualunque modifi­cazione che si volesse apportare ai diritti inviolabili civili, politici, sociali previ­sti dall’attuale Costituzione. E così pure va ripetuto per una qualunque soluzio­ne che intaccasse il principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri fondamentali, legislativo esecutivo e giudiziario, cioè per ogni avvio, che potrebbe essere irreversibile, di un potenziamento dell’esecutivo ai danni del legislativo, ancorché fosse realizzato con forme di referendum che potrebbero trasformar­si in forme di plebiscito11Il referendum deve avere come oggetto un quesito semplice e comprensibile da tutti. Se invece sono presentati più quesiti insieme, e specialmente di natura tecnica-giuridica complessa, le risposte possono diventare non attendibili. Per giunta, soprattutto quando sono circondate da una forte emotività imperniata su una figura di grande seduttore, possono trasformarsi da legittimo mezzo di democrazia diretta in un consenso artefatto e irrazionale che appunto dà luogo ad una forma non più referendaria ma plebiscitaria..

Questi oltrepassamenti possono essere già più che impliciti nell’attuale governo: per il modo della sua formazione, per la sua composizione, per il suo pro­gramma e per la conflittualità latente ma non del tutto occultata con il Capo dello Stato. Perciò, più che di Seconda Repubblica si potrebbe parlare del pro­filarsi di una specie di triumvirato: il quale, verificandosi certe condizioni ogget­tive e attraverso una manipolazione mediatica dell’opinione, può evolversi in un principato più o meno illuminato, con coreografia medicea (trasformazione ap­punto di una grande casa economico-finanziaria, in Signoria politica).

In questo senso ho parlato prima di globalità del rifiuto cristiano e ritengo che non ci sia possibilità per le coscienze cristiane di nessuna trattativa, almeno fino a quando non siano date positive, evidenti e durevoli prove in contrario.

6. Convertitevi!

La sostanza ultima dell’oracolo della sentinella è al di fuori di ogni ambi­guità: Convertitevi!

La radice ebraica šuv, (שוב) impiegata nel libro di Isaia, significa per sé ‘ritorna­re’. Ma può esprimere anche, specificamente, il rivolgersi a Dio, cioè la conversione12Così qui intendono il testo di Isaia il Targum e l’antica versione siriaca, e dei moderni, oltre al CEI, la Bibbia di Gerusalemme..

Secondo la sentinella non si tratta tanto di cercare nella notte rimedi esteriori più o meno facili, ma anzitutto di un trasformarsi interiormente, di un dietro­front intimo, di un voltarsi positivo verso il Dio della salvezza.

Radice di questa conversione è anzitutto la contrizione, il pentimento.

Nel caso nostro dobbiamo anzitutto convincerci che tutti noi, cattolici italiani, abbiamo gravemente mancato, specialmente negli ultimi due decenni, e che ci sono grandi colpe (non solo errori o mere insufficienze), grandi e veri e propri peccati collettivi che non abbiamo sino ad oggi incominciato ad ammettere e a deplorare nella misura dovuta.

C’è un peccato, una consapevolezza collettiva: non di singoli, sia pure rappre­sentativi e numerosi, ma di tutta la nostra cristianità, cioè sia di coloro che era­no attivi in politica sia dei non attivi, per risultanza di partecipazione a certi vantaggi e comunque per consenso e solidarietà passiva.

Ma per quanto fosse convinto ed esplicitato e realizzato nei fatti, questo pen­timento non basterebbe ancora. Inquadrandolo nel pensiero di Lazzati — so­prattutto degli anni in cui cominciava più direttamente a pensare alla Città dell’uomo — si dovrebbe dire che i battezzati consapevoli devono percorrere un cammino inverso a quello degli ultimi vent’anni, cioè mirare non a una presenza dei cristiani nelle realtà temporali e allo loro consistenza numerica e al loro pe­so politico, ma a una ricostruzione delle coscienze e del loro peso interiore, che potrà poi, per intima coerenza e adeguato sviluppo creativo, esprimersi con un peso culturale e finalmente sociale e politico. Ma la partenza assolutamente in­dispensabile oggi mi sembra quella di dichiarare e perseguire lealmente — in tanto baccanale dell’esteriore — l’assoluto primato della interiorità, dell’uomo inte­riore.

Questo potrebbe sembrare persino ovvio e banale: ma ovvio non è, come ap­pare chiaramente da tanti segnali nel mondo cattolico italiano, da tante affer­mazioni contraddittorie che si susseguono, da tante preoccupazioni ben altre che di fatto animano gruppi e personalità, vecchie e nuove, del laicato e del clero.

Mi si consenta perciò di precisare meglio che cosa è questo primato dell’interiore. Muovo fondamentalmente da tre testi di s. Paolo.

Rm. 7,15-24: Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio, io faccio, ma quello che detesto (…). Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desi­derio del bene, ma non la capacità di attuarlo: infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio (…). Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento alla legge di Dio secondo l’uomo interiore, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra.

2 Cor. 4,16-18: Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose vi­sibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne.

Ef. 3,14-16: Io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati dal suo Spirito nell’uomo interiore.

7. L’uomo interiore.

Dal confronto di questi tre testi possiamo ricavare:

  • il significato fondamentale, preso dalla filosofia greca volgarizzata, di uomo interiore in s. Paolo;

  • e a un tempo il suo slittamento verso il concetto propriamente semitico (ed evangelico, e tipicamente paolino) di uomo nuovo.

Tutt’e due sono indispensabili, a parer mio: e tutt’e due devono essere tenuti presenti e valorizzati nella ricostruzione etica che è necessaria perché la nostra conversione sia piena e matura: e perché l’eventuale operare politico dei cri­stiani si possa effettivamente sottrarre agli errori e alle colpe sinora commesse. Cominciamo dall’uomo interiore nell’accezione della filosofia greca volgarizza­ta, ben presente nella frase riferita dell’epistola ai Romani: è l’uomo secondo ragione, secondo il νόος (la mente) che impegna per il meglio le sue facoltà a costruirsi pienamente secondo quelle virtù che chiamiamo cardinali (e che an­che gli antichi chiamavano così): la temperanza, la fortezza, la prudenza e la giustizia.

Dobbiamo riconoscere che noi cristiani le abbiamo di fatto trascurate: tutte o quasi tutte, almeno per certe loro parti o implicanze. Abbiamo magari insistito molto sulla temperanza, e in particolare sulla castità, ma assai meno sulla for­tezza: che ci possa far sostenere non dico la persecuzione violenta, ma appena il disagio sociale di una certa diversità dall’ambiente che ci circonda, oppure che ci porti ad affrontare il contrasto e la disapprovazione sociale o comunita­ria, per difendere esternamente una tesi sentita in coscienza come cogente.

Ancor meno abbiamo insistito sulla giustizia in quanto obbligo di veracità ver­so il prossimo (e di qui la tendenza a tante dissimulazioni, considerate spesso dai non cristiani tipicamente nostre). Soprattutto non abbiamo saputo raggiun­gere un senso pieno della giustizia, superando una sua concezione limitata solo a certi rapporti intersoggettivi e sapendola estendere ai doveri verso le comuni­tà più grandi in cui noi siamo inseriti. È a questo punto che si è potuto asserire da altri (E. Galli della Loggia), in un ripensamento della vicenda storica del li­beralismo nei confronti del cattolicesimo, nei decenni trascorsi dell’Italia unita­ria, che al vuoto religioso o all’anticlericalismo del liberalismo, i cattolici non hanno offerto il compenso che potevano dare e che doveva essere loro pro­prio, per l’edificazione di un’etica pubblica13E. Galli Della Loggia, Liberali che non hanno saputo dirsi cristiani, in “Il Mulino”, 5/93, p. 855 ss..

Se questo è vero – come può apparire vero anche a prescindere dalla ricostru­zione storica del Galli della Loggia, in conformità a molti e insistenti richiami Lazzatiani in materia – dobbiamo riconoscere di avere negli ultimi decenni perduto un’occasione storica unica e probabilmente irrecuperabile, e dobbia­mo, pur tardivamente, cercare di riempire il vuoto e di correggere i molti errori e peccati. Dobbiamo ora porci come obiettivo urgente e categorico di formare le coscienze dei cristiani (almeno di quelli che vorrebbero essere consapevoli e coerenti) per edificare in loro un uomo interiore compiuto anche quanto all’etica pubblica, nelle dimensioni della veracità, della lealtà, della fortezza e della giustizia (quanto ancora c’è da fare soprattutto per l’eticità tributaria, oltre le facili giustificazioni forse talvolta ovvie, ma sempre non consentite al cristia­no!).

8. L’uomo nuovo e la Città dell’uomo.

Ma s. Paolo ci insegna anche che all’uomo interiore si oppone (combatte contro) un’altra legge o forza antitetica che è nelle radici della nostra corporeità intaccata dal peccato.

E la consapevolezza di questo dovrebbe anzitutto portarci tutti all’umiltà: ad edificare i nostri sforzi individuali e collettivi sul presupposto della nostra miserabile fragilità, che fa dire all’Apostolo: sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?

Umiltà, dunque: individuale e collettiva di noi tutti cristiani. Mentre è tanto fa­cile che, come collettività, procediamo con falsa sicurezza, con infelice parrisia, se non con arroganza, che proprio ripensando a tutti questi decenni non dovremmo avere, ma dovremmo piuttosto sentire come ragione di confusione e di vergogna.

L’uomo interiore, tuttavia, può essere salvato, anzi, come dice s. Paolo, rinnovar­si di giorno in giorno se è potentemente rafforzato dallo Spirito di Dio. Allora l’uomo interiore può essere elevato a uomo nuovo, veramente essere in Cristo nuova creazione (2 Cor. 5,17 e Gal. 6,15); rivestito di Cristo come è realmente ogni bat­tezzato (Gal. 3,27).

Può così essere fortificato per ogni combattimento dalla panoplia di Dio (Ef. 6,11); cioè rivestito della corazza della fede e dell’amore (I Tes. 5,8), e rivestito, come eletto di Dio, di viscere di misericordia (Col. 3,12).

Ma appunto tutto ciò deve essere di ora in ora implorato da Dio, credendo e confidando nella sua Paternità misericordiosa: piego le ginocchia (…) perché vi conce­da, secondo la ricchezza della sua gloria (…).

In ultima analisi, è solo questo che può vincere la notte. Lo squarcio operato nel buio – nel momentaneo leggero peso della nostra tribolazione – dal fulgore dell’enorme, letteralmente καθ’ὑπερβολήν εἴς ὑπερβολήν – eterno peso di gloria.

Ma per questo ci vogliono dei battezzati formati ad essere e ad agire nel tempo continuamente guardando all’ultratemporale, cioè abituati a scrutare la storia, ma nella luce del metastorico, dell’escatologia.

Purtroppo siamo invece più spesso abituati al contrario, cioè ad immergerci continuamente e totalmente nella storia, anzi, nella cronaca: la nostra miopia ci fa pensare all’oggi o al massimo al domani (sempre egoistico), non oltre, in una reale dilatazione di spirito al di là dell’io.

C’è un aspetto e una conseguenza particolare di questa auspicabile sanzione della nostra vista – sanzione, dico, operata dal richiamo escatologico – che mi pare, concludendo, di dovere particolarmente segnalare: il ricordare sempre che la Chiesa non è ancora il Regno di Dio: ne è, se mai, il germe e l’inizio14Concilio Vaticano 11, Lumen Gentium, n. 5.. E va aggiunto che delle sue due funzioni: l’evangelizzazione (cioè l’annunzio del Cristo morto, risorto, glorificato) e l’animazione cristiana delle realtà temporali, la seconda spesso può concernere il Regno in modo molto indiretto. Il che porta a concludere che tutte queste realtà temporali che dovrebbero essere ordinate cristianamente (compresa la politica) possono essere finemente e sag­giamente relativizzate, secondo le diverse opportunità concrete: e comunque sempre vanno rispettate nella loro autonomia e perseguite da laici consapevoli e competenti che, come diceva Lazzati,

vivono gomito a gomito, per così dire, degli uomini del loro tempo e di varia estrazione culturale… attraverso il confronto e il dialogo, naturalmente senza perdita della propria identità, sempre nel rispetto della natura di tali realtà e della loro legittima autonomia, con sincero sforzo di comprendere l’altro15G. Lazzati, La Chiesa nella città dell’uomo, in Pensare politicamente, 11, cit., p. 431.

E questa è la via – diurna e non notturna – verso la Città dell’uomo, nella prospettiva sempre intensamente mirata della Città celeste, della Nuova Gerusalem­me.


La notte, udite, sta per finire,
ma il giorno ancora non è arrivato,
sembra che il tempo nel suo fluire
resti inchiodato.
Ma io veglio sempre, perciò insistete,
voi lo potete: ridomandate!
Tornate ancora se lo volete,
non vi stancate!

Cadranno i secoli, gli dèi e le dee,
cadranno torri, cadranno regni
e resteranno di uomini e idee, polvere e segni.
Ma ora capisco il mio non capire,
che una risposta non ci sarà,
che la risposta sull’avvenire
è in una voce che chiederà:
Shomèr ma mi-llailah? 

 

 

 

Note

Note
1 Giuseppe Dossetti, (1913-1996) fu un testimone di primo piano della resistenza al fascismo e della edificazione di un’Italia democratica e repubblicana. Divenne uno dei padri della Costituzione, fu deputato e vice-segretario della DC, ai tempi di De Gasperi. Ritiratosi ben presto dalla politica, si fece monaco e prete, fondando una nuova famiglia spirituale nella diocesi di Bologna. Al Concilio, al seguito del card. Lercaro, diede un contributo originale al rinnovamento della Chiesa. Poi, ritiratosi nel Medio Oriente, a Gerico, per moltissimi anni fu l’uomo della preghiera e del silenzio.
2 pubblicato da Metronomie anno XI Giugno-Dicembre 2004.
3 Vedi le parole di speranza pronunziate nell’ultima intervista data alla TV il 10 marzo 1986, due mesi prima della sua morte: in G. Lazzati, Pensare politicamente, II, Ed. Ave, Roma 1988, p. 445 ss.
4 G. F. Miglio, Introduzione a H. D. Thoreau, Disobbedienza civile, A. Mondatori, Milano 1993, p. 24 e passim.
5 G. F. Miglio, Il negoziato permanente, in “Micro Mega”, 1 /94, p. 14-15
6 M. Cacciari, Dialogo con Miglio, in “Micro Mega” 1 /94, p. 10.16-17.
7 Quanto possono essere vuoti e sterili i richiami (anche cattolici) a una mera solidarietà, si può vedere nell’articolo di E. Berselli, Gli esorcismi della solidarietà, in “Il Mulino”, 5/93, p. 867 ss.
8 A commento di questo testo e delle deduzioni che già ne traevano i maestri del Talmud, vedi Levinas, Quattro letture talmudiche, Il Melangolo, Genova 1982, p. 67-97, che comincia citando un detto di Rav Simai: «Quando gli israeliti si impegnarono a fare prima di udire, scesero 600.000 angeli e posero su ciascun israelita due corone: una per il fare, l’altra per l’udire». E Levinas continua: «Ciò è motivo di scandalo per la logica, e può essere preso per fede cieca o per l’ingenuità della fiducia infantile (…). La tradizione ebraica si è compiaciuta di questa inver­sione dell’ordine normale, in cui l’intendere precede sempre il fare. La tradizione non finirà mai di sfruttare tutto il partito che si può trarre da questo errore di logica, e tutto il merito che sta nell’agire prima di avere inteso (…), e ha cura di dimostrare che l’ordine in apparenza rovescia­to è, al contrario, fondamentale (…). L’adesione al bene per coloro che dissero: “Faremo e u­dremo”, non è il risultato di una scelta tra il bene e il male, essa viene prima (…), è un patto col bene antecedentemente all’alternativa del bene e del male (…). Segreto di angeli, non coscienza infantile (e cita il Salmo 103, 20, che egli interpreta esattamente come la Vulgata latina: “Benedicite Domino, omnes angeli eius: potentes virtutes, facientes verbum illius, ad audiendam vocem sermonum eius, cioè: Benedite il Signore, voi tutti suoi angeli: virtù potenti, che fate la sua parola, per udire la voce delle sue parole: così anche la LXX e A. Chouraqui, Le cantique des cantiques suivi des psaumes, PUF, Paris 1970, p. 229)». Perciò Levinas conclude: «La relazione diretta col vero, che esclude l’esame preliminare del suo tenore, della sua idea — voglio dire, l’accoglimento della Rivelazione — può essere unicamente relazione con una persona, con l’altro. La Thorà è data dalla luce di un viso. L’epifania dell’altro è ipso facto la mia responsabilità nei confronti dell’altro: la visione dell’altro è fin d’ora un’obbligazione nei suoi confronti (…). La coscienza è l’urgenza di una destinazione che porta all’altro, non l’eterno ritorno su di sé».
9 Vinci, Ebraismo e filosofia in E. Gevinas, in Aa.Vv., Filosofia ed ebraismo, Giuntina, Firenze 1993, p. 124-127.
10 G. Lazzati, Il vero scoglio della presenta cattolica, in “Vita e pensiero”, LIV, 1981, n. 10, p. 26, riprodotto in Pensare politicamente, II, cit., p. 333 ss.
11 Il referendum deve avere come oggetto un quesito semplice e comprensibile da tutti. Se invece sono presentati più quesiti insieme, e specialmente di natura tecnica-giuridica complessa, le risposte possono diventare non attendibili. Per giunta, soprattutto quando sono circondate da una forte emotività imperniata su una figura di grande seduttore, possono trasformarsi da legittimo mezzo di democrazia diretta in un consenso artefatto e irrazionale che appunto dà luogo ad una forma non più referendaria ma plebiscitaria.
12 Così qui intendono il testo di Isaia il Targum e l’antica versione siriaca, e dei moderni, oltre al CEI, la Bibbia di Gerusalemme.
13 E. Galli Della Loggia, Liberali che non hanno saputo dirsi cristiani, in “Il Mulino”, 5/93, p. 855 ss.
14 Concilio Vaticano 11, Lumen Gentium, n. 5.
15 G. Lazzati, La Chiesa nella città dell’uomo, in Pensare politicamente, 11, cit., p. 431.

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