Gli arcangeli nella Commedia (…e il mistero di Michele)

Michele (?)

A questo punto sorge un problema: gli arcangeli Gabriele e Raffaele sono, come abbiamo visto, ben presenti e operanti nelle vicende del viaggio dantesco, mentre l’arcangelo Michele, il terzo componente della triade angelica suprema, ne risulterebbe inspiegabilmente assente, essendo soltanto citato di sfuggita un paio di volte, quando Virgilio ricorda al demonio Pluto che il viaggio di Dante è voluto da Dio,

ne l’alto, là dove Michele
fé la vendetta del superbo strupo,

cioè punì la superba ribellione di Lucifero (If VII,11-12); e quando gli invidiosi recitano le litanie dei santi:

…gridar: «Maria, òra per noi!»:
gridar: «Michele» e «Pietro» e «tutti i santi».

Pg XIII,49-51

Francesco Maffei, San Michele che sconfigge Satana

Per san Michele Arcangelo, la figura più nota e più venerata delle schiere celesti, per il più illustre dei combattenti contro le forze sataniche, sarebbe veramente poco!

Il mistero è stato chiarito e la lacuna colmata dal prof. Silvio Pasquazi in un memorabile saggio de “All’eterno dal tempo”, ripreso poi più volte nelle sue lezioni dal sac. prof. Paolo Pecoraro.

Il prof. Pasquazi ha anche curato sulla Enciclopedia Dantesca la voce “Messo celeste”, da cui stralciamo un rapido (per quanto possibile!) riassunto di tutta la quæstio.

Tutti e due gli studiosi puntano sulla identificazione dell’Arcangelo Michele nel Messo celeste, il misterioso personaggio che viene ad aprire a Dante e Virgilio la porta di Dite, dopo che i demoni con tracotanza l’hanno chiusa, negando le dolenti case a chi sanza morte, ardito, andava per lo regno de la morta gente. Una tracotanza non nuova, perché essi l’usarono anche contro Cristo disceso a liberare i giusti dal Limbo. Virgilio non dispera né vuole che Dante disperi: sa che ci sarà un aiuto superiore: anzi, già di qua dalla porta dell’Inferno sta discendendo l’erta, / passando per li cerchi sanza scorta, / tal che per lui ne fia la terra aperta (If VIII,128-130). Questa speranza e fiducia di Virgilio in un aiuto che pure dovrà giungere, si fonda su un’offerta di aiuto a lui fatta: Tal ne s’offerse (IX,8). Un rombo, pien di spavento, annunzia l’arrivo del soccorso celeste, e, tra la fuga delle anime dannate, Dante vede un ch’al passo / passava Stige con le piante asciutte. / Dal volto rimovea quell’aere grasso, / menando la sinistra innanzi spesso; / e sol di quell’angoscia parea lasso (IX,80-83). Pien di disdegno viene alla porta e con una verghetta l’aperse, quindi, rivolto ai demoni, ribadisce che il volere divino non può mai essere diviso dal suo fine ed è inutile ne le fata dar di cozzo. Poi si rivolse per la strada lorda, / e non fé motto ai due poeti, ma fé sembiante / d’omo cui altra cura stringa e morda (IX,100-102).

Le interpretazioni finora proposte circa il Messo celeste si riducono a due categorie: quella che vede nel Messo un angelo e quella che lo vede come una creatura umana (Enrico VII, Cesare, Enea, Mosè), caratterizzata da superiore autorità.

L’opinio communior

L’ipotesi che ha più largo seguito e che più resiste è quella che identifica il Messo con un angelo del cielo. Tuttavia non è priva di motivazione anche la tesi opposta, sicché una risposta del tutto soddisfacente sarebbe quella che riuscisse ad identificare nel Messo bensì un angelo del cielo, ma collegato per vincoli eccezionali con i valori della storia umana, con l’Impero, con il mondo classico e, in definitiva, con quel Limbo dantesco che tutto ciò in qualche modo riassume.

La lectio difficilior

Si notino intanto i fenomeni che accompagnano l’arrivo del Messo (IX 64-72): vento, tuono e terremoto. Nella tradizione e nella Sacra Scrittura, Dante trovava bene attestato il rapporto tra l’intervento angelico e l’insorgere del vento (Ps. 17; Ezech.1,4, e altresì Zach. 6,5; Dan. 7,2); e un discorso analogo più esteso ed esplicito Dante poteva leggere nell’Areopagita, a lui ben noto (De cœlesti hyerarchia XV 6).

Quest’angelo deve scendere dal Limbo, e non dal Paradiso, come viene ad attestare il verso e già di qua da lei discende l’erta (If VIII,128), verso che suona: e già, appena or ora i diavoli mi hanno respinto, la forza angelica è partita in nostro soccorso, e si trova in un punto al di qua della porta dell’Inferno. Per far scendere il Messo dal Paradiso, quella precisazione del verso 128 sarebbe inutile, anzi quasi assurda: infatti, in forza di essa, l’angelo impiegherebbe un istante o poco più per spostarsi dal cielo alla porta dell’Inferno, e un tempo molto più lungo (tutto quello corrispondente a quanto si dice nei vv. 1-63 del canti IX) per discendere l’erta, che è cammino di gran lunga più breve. Inoltre, se il Messo ha preso a muoversi dal di qua della porta, cioè dal Limbo, Virgilio può sapere che scende da lì, poiché – e questo è il punto – sa che ivi è la dimora di lui, e le sue parole dunque hanno un significato; se invece il Messo ha preso a muoversi dal cielo, non si comprende come possa Virgilio sapere con tanta esattezza a qual punto il Messo sia arrivato in quel momento.

Ora una ricerca così orientata ci ha permesso di motivare l’esistenza di un angelo buono che presiede al Limbo dantesco, in particolare ai “megalopsychoi” (con evidenti implicazioni circa la saldabilità dei limbicoli).

L’Apocalisse (cap. 20) parla di un angelo che ha la chiave dell’abisso e con essa il potere di tenervi rinchiuso il demonio per mille anni; san Paolo rivela l’esistenza di un misterioso “katéchon” (2Thes. 2,1-11) che impedisce lo scatenamento delle forze infernali: le quali due ultime forze angeliche possono, dunque, identificarsi con quella che nel Limbo esercita il suo potere attorno al margine superiore del baratro dantesco e cioè con san Michele Arcangelo, che svolge in quel luogo due funzioni: impedisce con il suo nobile castello (castrum, fortezza militare ) l’uscita di Lucifero dall’Inferno fino allo scadere dei 1000 anni; prepara alla visione di Dio, al Paradiso, la bella scola dei sapienti e buoni pagani che non ebber battesmo.

Sulle tracce di Michele

Vediamo rapidamente gl’indizi della presenza di quest’angelo nel Limbo della Commedia.

Anzitutto non sarebbe conveniente che le anime, pur buone, del nobile castello fossero costrette a essere traghettate da Caronte (Quinci non passa mai anima buona, Inf. III 127), del che si trova una confusa traccia nel discorso di Caronte a Dante e un significativo precedente nel mito di Mercurio “psychopompo”. E anche qui, come già abbiamo osservato per il Messo, il vento, il terremoto, il sonno e il risveglio di If III,130-136 e IV,1-6 sono fenomeni che denotano la presenza attiva di una forza angelica superiore ai margini dell’Inferno. Se poi mancasse un custode angelico nel Limbo, quest’unico luogo si troverebbe in un’inspiegabile disparità di condizioni rispetto a tutte le altre parti dell’oltretomba dandesco. Inoltre, nel Limbo, i segni di una presenza angelica sono il foco/ ch’emisperio di tenebre vincia (If IV,68-69), lumera che, si badi, non procede dai “megalopsychoi”, ma ne illumina la sede (v. 103) e quasi li ospita (v. 116). Il castello deve avere un castellano, né tale funzione può attribuirsi a Omero che è poeta sovrano, cioè primus inter pares.

Vi è anche insieme con la percezione luminosa quella uditiva: la voce (IV,79-82 e 92), non attribuibile ai savi. Il passaggio del bel fiumicello come terra dura (v. 109) appartiene alla categoria delle operazioni angeliche (e si veda anche qui l’affinità con il Messo che passa Stige con le piante asciutte, IX,81). Anche il segnor de l’altissimo canto (IV,95-96) sembra a chi scrive riferibile piuttosto a una misteriosa forza angelica che al poeta Omero. La reticenza e il voto di Virgilio (IX,8-9) si spiegano meglio se Virgilio avverte forse confusamente, ma intensamente, che il suo andare e l’arrivo del Messo celeste e la vittoria su Dite non sono individualistiche avventure, bensì sono momenti essenziali di un dramma storico ed escatologico, nel quale Virgilio stesso è direttamente cointeressato (Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!, v. 9): sicché il Messo non assiste soltanto Dante, ma anche Virgilio e tutto ciò che in Virgilio si riassume.

L’auctoritas forse decisiva per affermare la presenza attiva di un angelo “psychopompo” – e precisamente di san Michele arcangelo – al margine dell’oscura cavità infernale, va indicata nell’Offertorio della messa per i defunti:

Domine Jesu Christe, Rex gloriæ, libera animas omnium fidelium defunctorum de pœnis inferni et de profundo lacu: libera eas de ore leonis, ne absorbeat eas tartarus, ne cadant in obscurum, sed signifer sanctus Michael repræsentet eas in lucem sanctam. Fac eas, Domine, de morte transire ad vitam.
Signore Gesù Cristo, Re di gloria, libera le anime di tutti i fedeli defunti dalle pene dell’inferno e dall’abisso immane: liberale dalla bocca del leone perché il tartaro non le assorba e non cadano nell’oscurità, ma Michele, l’alfiere santo, le riporti vive alla luce santa. Signore, falle tornare dalla morte alla vita.

Il testo solleva grosse difficoltà teologiche. Le anime del Purgatorio sono irrevocabilmente destinate alla beatitudine: e qui si prega perché non incorrano nella dannazione! Si prega perché passino dalla morte alla vita: ma se sono anime del Purgatorio è una preghiera inutile, poiché sono già passate dalla morte (fisica) alla vita (soprannaturale); e se poi sono anime dell’Inferno, si richiederebbe una cosa contrastante con il dogma. La soluzione più ovvia (e, riteniamo, più dantesca) sarebbe che si tratti delle anime del Limbo: in tal caso, infatti, essendo incerta la loro eterna sorte, si può invocarne dopo il trapasso la salvazione; e trovandosi esse senza Grazia, ma senza colpa, si può chiedere per esse che passino dalla morte (spirituale) alla vita (spirituale)1Non manca peraltro un’interpretazione certamente ortodossa e meno sconvolgente, quella di “preghiera retroattiva”..

William Blake, Il messo celeste alle porte di Dite

Il Messo celeste dantesco, identificato con l’angelo del Limbo, va poi in conseguenza ulteriormente identificato con l’angelo dell’Impero romano, cioè con il custode celeste di quel mondo classico e di quell’umanità non disonestamente pagana di cui Roma è il massimo prodotto e la suprema organizzatrice. A quest’angelo dell’Impero romano ci riconduce un’estesa tradizione patristica e medievale sul “katèchon” escatologico paolino, di cui abbiamo fatto cenno (cf., fra l’altro, s. Girolamo, Epistola CXXI,11). Anche attraverso il “katèchon” paolino è possibile ricondurre la figura del Messo celeste-angelo del Limbo a quella dell’arcangelo Michele, che fu sempre oggetto di grande venerazione e particolarmente lo fu in età medievale.

L’identità del “katèchon” con san Michele doveva apparire almeno molto probabile a Dante attraverso i citati passi di 2Thes. 2,1-11 e di Apoc. 20. E san Michele presenta anche altri caratteri che lo avvicinano all’angelo del Limbo. Il suo stesso nome2Michael, com’è noto a tutta la tradizione cristiana, ebraica e islamica, significa “chi è come Dio?”, che suona adorazione degli arcani disegni di Dio, si addice al custode celeste del luogo in cui si riassumono la profonda obbedienza e l’umilissima disponibilità del pius Æneas e dei suoi discendenti. Il dato biblico che presenta Michele come protettore del popolo d’Israele fa dedurre che, succeduta la Chiesa alla Sinagoga, il medesimo debba farsi difensore del nuovo popolo eletto, e, in primo luogo, del suo nucleo centrale, cioè di Roma e dell’Impero (e, dunque, di quel mondo classico che nel Limbo si riassume). Nel Medioevo sono innumerevoli le attestazioni di questa funzione attribuita all’arcangelo Michele come difensore di Roma e dei suoi valori.

È stato anche notato un certo piglio bellicoso, militaresco, nel Messo, un piglio che si addice al duce dell’esercito celeste. Ricordando poi che l’angelo d’Israele è san Michele (cf. Dan. 10,13-21 e 12,1 ) e che egli protesse il passaggio del suo popolo medesimo nel Mar Rosso, appare piuttosto evidente l’analogia con il Messo che passa Stige con le piante asciutte.

Per ultimo, un conforto all’ipotesi di un angelo che per amore e nella speranza si faccia partecipe della condizione dolente dei limbicoli, poté venire a Dante dalla visione che ebbe san Francesco, quando ricevette il dono delle stigmate, precisamente da san Michele arcangelo, che gli apparve in figura di angelo crocifisso. Il suggerimento francescano di Michele arcangelo crocifisso e così quasi prosecutore, su un piano spirituale, dell’opera redentiva del Salvatore, dà come risultato che san Michele può bene trovarsi nella Commedia, in una condizione spiritualmente penosa, e che egli, accettando con assoluta offerta di sé tal condizione, vince contro le forze diaboliche, e guida a salvezza, per misteriose vie, coloro che nella medesima condizione si trovano, cioè le anime del Limbo”.

Note

Note
1 Non manca peraltro un’interpretazione certamente ortodossa e meno sconvolgente, quella di “preghiera retroattiva”.
2 Michael, com’è noto a tutta la tradizione cristiana, ebraica e islamica, significa “chi è come Dio?”

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