Dopo Charlie ecco a voi Alfie, un altro figlio di Ugolino

Working Title/Artist: Ugolino and His SonsDepartment: ESDACulture/Period/Location: HB/TOA Date Code: Working Date: ca. 1860-61, executed in marble 1865-67 photography by mma, Digital File DP247543.tif retouched by film and media (jnc) 4_21_11

Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli
ch’eran con meco, e dimandar del pane.

Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?

di Lucia Scozzoli

Charlie è morto, e non è stato il primo bambino ad essere sacrificato dall’evoluta Inghilterra all’altare del best interest della collettività a motivo della sua fragilità. Non sarà nemmeno l’ultimo.
Alfie Evans è un piccolo di 14 mesi ricoverato all’Alder Hey Hospital di Liverpool e affetto da tali e persistenti crisi epilettiche e convulsioni da indurre i medici a metterlo in coma farmacologico. Cos’abbia il piccolo non si sa, che nome abbia la patologia che affligge questo pupetto paffuto e bellissimo è ancora un mistero, un mistero che pare non interessare a nessuno però: i genitori hanno lanciato una disperata raccolta fondi per andare a cercare ovunque si trovino un po’ di certezze, intanto che i medici inglesi si rifiutano di tracheotomizzare Evans per permettere che la lunga degenza in sedazione profonda sia meno dolorosa e disagevole, esattamente come fecero per Charlie, convinti che tanto non durerà. Già hanno invitato i genitori ad autorizzare il distacco della ventilazione ed essi si sono ferocemente opposti, ma temono che l’ospedale presto ricorra a vie legali.

C’è da chiedersi stupiti e attoniti come dei medici possano suggerire di “lasciar andare” senza nemmeno sapere cos’abbia una creatura tanto indifesa quanto evidentemente viva: in un video la mamma solletica i piedi e le mani al piccolo, il quale le ritrae infastidito, continuando nel suo lieve sonno beato. Evans non ha per niente l’aria del vegetale, se le crisi avute abbiano o meno provocato irreparabili danni cerebrali non si sa, per il momento è vivo, è persona.
Ma poi il criterio in base al quale ci dovremmo liberare dei nostri figli non è nemmeno la pietà per le loro presunte sofferenze: una madre di Newfoundland, in Canada, si è sentita suggerire da un medico di sottoporre la figlia di 25 anni a suicidio assistito, perché la ragazza è handicappata dalla nascita: ha una paralisi cerebrale, la spina bifida, ha subìto decide di operazioni e necessita di cure assidue, ma cammina, parla, comunica e, soprattutto, ha pure assistito all’esplicito invito e ne è rimasta sconvolta. Il medico ha dato dell’egoista alla madre che difendeva il diritto alla sopravvivenza della figlia.
Ma egoismo per cosa? Per usare ed abusare delle risorse della collettività per occuparsi di una sola inutile creatura, improduttiva e bruttarella.
L’opinione pubblica inglese non si è scomposta granché per la sorte di Charlie: è stato considerato l’ennesimo esserino su cui non conviene investire, meglio e più etico destinare le risorse per curare chi ha più chance di guarire (e diventare utile alla collettività).
Questo tema della limitatezza delle risorse come scusa per autorizzare a lasciar morire di fame i propri figli scava nell’inconscio collettivo di una società che non si raccapriccia più per l’atroce sorte del conte Ugolino e anzi ne recita farsescamente il ruolo con la faccia imbellettata a coprire insopportabili bruttezze.
Se anche ci trovassimo nella condizione di aver contato il pane e l’aria che respiriamo, tanto da poter asserire con matematica certezza che non ce n’è per tutti e non c’è modo di procurarcene né presto, né tardi, come fossimo imprigionati in una torre da cui nessuno ci libererà, veramente lasciar morire per primo il soggetto più debole sarebbe la scelta che faremmo per noi e per i nostri figli? Veramente crediamo al mors tua vita mea, esercitato sul frutto delle nostre viscere? Ma che senso ha per me sopravvivere ai miei figli? Talmente grande è il dolore di veder morire per sentenza di mancanza di risorse, quando sai che se ci fossero più soldi, se ci fosse più volontà, se ci fosse più attenzione invece tuo figlio potrebbe vivere, che verrebbe da mettere all’asta un rene e mezzo fegato per trovare questo maledetto denaro, verrebbe da vendere se stessi al mercato degli schiavi, verrebbe da buttarsi giù da una finestra per non assistere all’evitabile. L’inevitabile ha in sé la sua giustificazione, l’evitabile invece porta in dote il peso della colpa e del rimorso.
La tirannia del bilancio della sanità pubblica: ma chi ci crede? Vorrei passare il dito tra le voci che prosciugano le casse di un ospedale per vedere davvero quanto essenziali siano, quanto eticamente calibrate alle necessità, quanto indiscutibilmente blindate. Vorrei sapere se costa di più dire ad una coppia di genitori che in quell’ospedale mancano le competenze per aiutare il figlio e lasciarli andare altrove o pagare un pool di avvocati per costringerli ad accettare che lo ammazzino. Vorrei sapere se, con la vastità della rete ospedaliera di uno stato, e medici ed infermieri assunti e pagati a contratto, non a numero di pazienti, non liberare un letto in un reparto significhi veramente togliere qualcosa a qualcun altro. Vorrei sapere se accantonare forzatamente un problema e lasciare una creatura con cannula nel naso, che si sposta ed è da risistemare di continuo, costi di più o di meno che predisporre un intervento di tracheotomia stabile. Vorrei sapere se ai medici di questi ospedali pro morte interessa davvero qualcosa dei soldi.
Siamo assillati dall’idea di diventare poveri: pensiamo che una famiglia che si trovi a sostenere il peso di un disabile grave sarebbe più contenta se potessimo liberarla da tale incombenza (e senz’altro è vero), e poi si identifica la causa della sofferenza con il congiunto malato, con un’indebita trasposizione di valore. Non è il figlio ad essere il peso della madre, ma la sua non autosufficienza, la sua malattia, il suo bisogno di assistenza, tutte cose che possiamo mitigare con mezzi di cui disponiamo: abbiamo la ricerca scientifica che cura ogni giorno una patologia in più, abbiamo la tecnica che fornisce soluzioni sempre più ingegnose, abbiamo le competenze per un’assistenza domiciliare di sostegno, abbiamo anche la ricchezza collettiva per farci carico di tali aiuti. Ma tutto questo è difficile, nella scala delle priorità dei nostri governanti (che così spesso, ahimé, rispecchiano le nostre) prima vengono i benefit a chi produce e vota: più importante il bonus energetico che l’assistenza ai disabili, meglio il riscatto della laurea dei millennials che un assegno di mantenimento più congruo per chi non è autosufficiente, meglio le luminarie di Natale che la riparazione di un ascensore in un edificio pubblico.
L’egoismo è assurto a sistema etico, con una giravolta morale incredibile: sei egoista tu che mendichi pietà e aiuto per la tua creatura debole e fragile, invece che lasciarla morire nella giungla dell’homo homini lupus.
Anche fosse (e non è) un problema di risorse limitate, ci siamo lasciati tiranneggiare e terrorizzare dallo spauracchio della povertà: finirà l’acqua sulla terra, finirà il grano, finirà il ferro, finirà il petrolio. Nel frattempo accaparro: per me, finché ce n’è. Il mondo funziona così, completamente dimentico del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, con cui Cristo ci ammonisce dal fare i conti con la matita in modo troppo rigoroso e crudele, perché non è questo il modo di approcciare i doni della creazione.
Invece ci vogliono convincere che non c’è aria per tutti e gli inglesi sono già ben convinti. La scelta resta tra veder morire di abbandono o un intervento secco che faccia fuori subito; di curare, in ogni caso, non se ne parla.
Certo anche Ugolino avrebbe scelto la decapitazione per i propri figli piuttosto che assistere alla loro morte per fame, ma in ogni caso egli ha condiviso la sorte delle sue creature. Invece ai genitori di Charlie prima e di Alfie ora è chiesto di benedire l’esecuzione dei loro figli per poi andarsene in pace. Ma quale pace?

Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
dicendo: «Padre mio, ché non m’aiuti?».

Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’ io cascar li tre ad uno ad uno
tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’ io mi diedi,

già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno.

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