Oltre le imprecisioni teologiche: una risposta ad Antonio Spadaro

Padre Antonio Spadaro durante una tavola rotonda nell'Ambasciata italiana presso la Santa Sede, Roma, 10 maggio 2017. ANSA/GIORGIO ONORATI

Caro Padre Spadaro,

ho riflettuto qualche giorno sulle considerazioni da lei esposte e firmate (insieme con Marcelo Figueroa) sull’ultimo numero de La Civiltà Cattolica. Come lettore della Rivista e abbonato di lungo corso – ma anche in virtù dei nostri incontri personali e dei contatti epistolari intercorsi fra noi – vorrei permettermi di rivolgerle alcune considerazioni. Credo di averle già detto altre volte quanto io abbia apprezzato i suoi lavori di critica letteraria contemporanea (in ispecie americana, e particolarmente su Flannery O’Connor): a tal proposito, la mia amica Elisabetta Cipriani – anche lei finissima lettrice della “zia Flannery”, come ama chiamarla – condivideva con me perplessità su come si possa conoscere a fondo l’autrice de La festa delle azalee e poi scrivere editoriali quale quello de La Civiltà Cattolica 4010. Ma questa è letteratura, e io ho molto più da imparare che da insegnare, quindi mi siedo e ascolto.

In margine all’editoriale di Adinolfi

Le mie osservazioni vogliono porsi in margine a quelle, critiche ma oneste, di Mario Adinolfi, comparse l’altro ieri su La Croce: a differenza sia di lei sia di Adinolfi, io non ho mai messo piede negli Stati Uniti, e la mia conoscenza degli Usa è tutta filtrata da letteratura (scritta, filmica, musicale…), oltre che da un buon numero di contatti e di amicizie in loco. Certamente molto meno dell’esperienza negli States maturata sia da lei sia da Adinolfi: devo dire però che, nel complesso, trovo le considerazioni del di lui editoriale più cogenti e più ficcanti di quelle riportate nel suo. Il lettore ricava la sgradevole impressione di un pezzo “a tesi”, volto a delegittimare la presidenza Trump e in generale la teologia politica repubblicana: ma non vorrei soffermarmi su questo punto, come neppure Adinolfi vi si è soffermato – noi de La Croce guardiamo con interesse a Trump, ma non lo abbiamo mai acclamato come “l’uomo della provvidenza” – e di certo non vorrei che queste mie considerazioni assumessero le sembianze di un’apologia per il Presidente degli Stati Uniti.

Non ho la minima intenzione di contestare i riferimenti al parterre teologico-politico di Trump, da lei giustamente sintetizzati nei nomi di Lyman Stewart e di Rousas John Rushdoony (e più prossimamente di William Strauss e Neil Howe): quello che mi pare poco convincente, nella sua analisi, è che siano questi i fattori che hanno determinato l’elezione di Trump. Davvero è una disputa teologica quella che decide l’identità dell’inquilino della Casa Bianca? Dominionismo contro ambientalismo? Così si muovono le masse umane, negli Stati Uniti? Stento a immaginarmelo, ma non ho un’esperienza diretta a cui rifarmi. C’è però un dato incontestabile, nell’obiezione di Adinolfi: a portare Donald Trump alla Casa Bianca, numeri alla mano, non sono stati i “WASP” del “profondo Sud”, bensì la middle class impoverita degli Stati centrali, nonché i latinos di Nevada e altri Stati che, sulla carta, erano dati per clintoniani.

I migranti votano a destra

Certo, l’icona del nostalgico unionista del Sud che frusta i neri tenendo nell’altra mano una Bibbia ci ha regalato una superba inquadratura di Tarantino – e se il regista del Tennessee l’ha voluta proprio così essa non sarà una pura visione del suo genio – ma ciò non dimostra né che costoro abbiano issato il Tycoon alla Casa Bianca né che abbiano la forza per farlo. In realtà, Padre Spadaro, il pensiero che gli immigrati votino “a sinistra” è anche più superficiale di quello che vuole essere “di sinistra” una qualunque risoluzione che faciliti l’immigrazione: i migranti che conosco e che sono riusciti ad acquisire la cittadinanza italiana, ad esempio, esprimono per la massima parte opzioni politiche “di destra” – e non nel senso che votano Alfano (giustamente non sanno neanche chi sia), ma Casapound, Forza Nuova e affini; viceversa, è una pura ovvietà che l’immissione massiccia di manodopera a basso costo volga le variabili del mercato del lavoro a vantaggio dei “capitalisti” e non degli “operai” (se vogliamo usare categorie “di sinistra”).

Ma vorrei passare a questioni che per la mia formazione sento più affini, e del resto sono senz’altro più affini anche a lei, sempre per formazione: cercherò di seguire l’ordine in cui le osservazioni mi si presentano leggendo il suo testo.

Cosa c’entra il manicheismo?

Anzitutto, lei è sicuro che valga la pena di impegnare la delicata categoria di “manicheismo” per descrivere l’agone politico? Non riesco a chiamare alla memoria neppure un esempio di politica – di qualunque orientamento e in qualsivoglia ordinamento – che non denunci nell’altera pars “il male”. Mi pare che il più modesto concetto di “dialettica politica” basti a descrivere tutto questo: si potrebbe parlare, anche se in un senso molto lato, di “manicheismo”, se e solo se si concepissero la propria e l’altra parte come entità archetipiche, come veri e proprî principî. Ma questa è un’altra cosa per la quale non riesco a tirar fuori un esempio: non sto a leggere tutti i discorsi di Trump, ma in quelli che ho ascoltato non mi pare di aver colto codeste sfumature, e se l’attuale POTUS è certamente più basico del suo predecessore, nelle categorie adottate, questi non era certo meno versato di lui nell’esaltare le magnifiche sorti e progressive della propria gestione (che al riparo di un intempestivo Nobel per la pace ha proseguito, prolungato e mantenuto le guerre della gestione Bush). È semplicemente retorica politica: doceremoveredelectare. Come Hitler e come Kennedy, come Adenauer e come Göbbels. Non ci scomoderei la teologia.

Non è tutto “dominionismo”

Che poi il fondamentalismo evangelico abbia la sua influenza è un altro discorso: la storia di Stewart la conosciamo, ma non è certo stato lui a introdurre nella retorica nazionalista statunitense il “God bless America” che tutti i presidenti (con rare eccezioni) frizionano di continuo senza tema di usura.

E qual è il credente, di qualunque religione positiva si voglia, il quale non ritiene che – conformando l’agire dell’uomo alla volontà del Creatore – la creazione darà il meglio di sé? C’è bisogno di assegnare a questo pensiero la lettera scarlatta del dominionismo? Quest’ultimo si caratterizza per l’arrogante pretesa di avere il diritto a spadroneggiare sul mondo, non per l’idea che vivendo sine glossa la Parola di Dio tutta l’umana società si giovi di un’accresciuta pace e di una giusta prosperità.

Di muri, recinzioni e barriere

Quanto all’avversione a musulmani e migranti, Padre Spadaro, non sarò certo io a difendere l’indifendibile tormentone del muro al confine messicano (spero ancora che fosse una boutade elettorale): ha sicuramente ragione il Santo Padre quando dice che «se uno pensa a fare muri e basta, questo non è cristiano». Da europeo che non ha mai messo piede negli Usa, però, mi dico che questo Messico dev’essere un bel grattacapo, per gli statunitensi: nel 1993 fu Bill Clinton a volere e a far costruire una recinzione spinata e militarizzata al confine californiano col Messico (325 miglia di rete e filo spinato messi su col forte supporto della moglie Hillary). L’esperienza non dovette sembrare né sgradevole né infruttuosa, alla first Lady: ancora nel 2005 la senatrice dem concionava contro l’immigrazione illegale e suggeriva che si valutasse un sistema per “tracciare i migranti”. Un anno dopo, la stessa era del gruppo dem che aderì al Secure Fence Act, insieme con molti repubblicani. Certo, la Clinton ha sempre evitato di parlare di “muro”, preferendo il più morbido “barriera”, ma non so come si possa definire questo accorgimento in termini di “teologia politica”… Ancora meno sono titolato a parlare del Muslim ban, ma trovo legittimo che uno Stato sovrano si prenda del tempo per riorganizzarsi a fronte di un’emergenza: anche le istituzioni ostili alla presidenza Trump ne hanno convenuto.

Evitiamo di scadere nel marcionismo

Ma questa è politica e, come vede, ne so grossomodo quanto si può leggere sui giornali: a lei chiedo invece come mai quando enuncia i principî ermeneutici di certa esegesi sia ravvisabile nelle sue parole un certo marcionismo: non ci sono nei Vangeli passi apocalittici e deprecatorî in abbondanza, da non permettere una contrapposizione tra questi e i libri storici dell’Antico Testamento? Davvero Elia che scanna i profeti di Baal è più crudo di Pietro che uccide Anania e Saffira con la sola profezia? E lo stesso Elia – ricordato da Gesù a proposito della vedova di Sarepta – non è tenero quanto Gesù che risuscita il figlio della vedova di Nain, mentre si prostra a favore del figlio della Sidonita? Perché allora continuare anche noi ad alimentare certe immaturità purtroppo mai eradicate dal sentire comune?

Mi spiace poi che torni a usare la categoria di “manicheismo” in assenza di un riferimento a una contrapposizione principiale, primordiale: Obama evitava accuratamente i riferimenti ai testi sacri, e comprensibilmente (date le sue origini personali) – non citava la Bibbia per non scontentare i musulmani e non citava il Corano per non esporsi alle accuse degli avversarî – ma in compenso ha giustificato molti raid con la retorica della “difesa della libertà”. Anche qui, parlerei più serenamente di opportunità politica che di “diversa impostazione politico-teologica”: “may God bless you and may God bless the USA” è una formula preferita dal GOP, ma non in via esclusiva.

Ecologia integrale ed ecologismo disintegrante

Veniamo invece all’ecologia: mi è molto spiaciuto che Trump sia venuto meno all’accordo di Parigi sul clima, ma non credo assolutamente che lo abbia fatto nell’intento di “accelerare” «l’imminente giustizia di un Armageddon». Direi piuttosto che sia un imprenditore desideroso di avviare una forte ripresa dell’economia interna e che a tal fine cerchi di eludere i legacci degli accordi internazionali facendosi forte di un primato economico, politico e militare che lo tiene al riparo da ogni pensabile ritorsione.

Bisogna poi ricordare che l’adesione a programmi di riduzione del CO2, di per sé, non indica una vera mentalità ecologica (almeno come la intende la Chiesa cattolica): se tali piani politici si appoggiano su sedicenti analisi scientifiche inficiate di neomalthusianesimo (la settimana scorsa le “ricerche” di Seth Wynes e Kimberly Nicholas campeggiavano anche su Repubblica…), il punto non è che si tiene all’ambiente – il punto è che il foraggio della propria posizione politica viene da altri mulini. Così ad esempio le industrie sono clientes storici dei Repubblicani, mentre Ong, Onlus & affini lo sono dei Democratici: farsi pagare la campagna elettorale da Planned Parenthood, però, che alle americane vende aborti [l’azione di abortire] e rivende aborti [i resti mortali degli innocenti] a ditte farmacologiche e cosmetiche, non è meno inquinante che farsela pagare dalle imprese edili e dalle industrie metallurgiche. Questo ecologismo che considera l’uomo il cancro del mondo – una scelta espressa anche nel testo di Caproni per la maturità 2017 – è misantropico. Mefistofelico.

Non capisco poi cosa intenda suggerire con l’assonanza tra “faith” e “fight”: il primo cristiano a indicarla fu san Paolo, e che la sua estremizzazione abbia esiti virtualmente esiziali è cosa nota ma – di nuovo – si sta riferendo a qualche discorso, a qualche provvedimento, a qualche Act? O di cosa parla? Steve Bannon è molto influenzato dall’opera di Rushdoony? E cosa ne consegue, praticamente? Alla fine la tensione con la Russia dovrebbe salire o scendere? E quella con la Cina? E i rapporti con l’Ue?

Dare voce alla Chiesa

Ancora, non vedo cosa ci sia di non auspicabile nell’idea che la cosa pubblica abbia un rapporto più sereno con la comunità dei credenti: poiché sono figlio e discepolo di Agostino, non m’illudo che ciò possa accadere, ma sempre perché sono figlio suo non mi rassegno a vivere in un contesto in cui l’evento cristiano non abbia la minima incidenza. E non per partigianeria: la Chiesa si propone al mondo per salvarlo col servizio, non col dominio. Agostino però scriveva vibranti lettere di protesta, al Prefetto d’Africa, per la reintroduzione dei saturnalia a Ippona: la società non si giova delle cose cattive e il cristiano ha il dovere di partecipare alla gestione della cosa pubblica con libertà di giudizio e parrhesía. Noi europei, poi, troviamo di cattivo gusto il riferimento pubblico alla religione e alla fede: ma è un problema nostro, perché la pace di Westfalia ci brucia ancora dentro.

La cosa curiosa è che molti degli europei perseguitati per motivi religiosi sono scampati alle guerre di religione riparando oltreoceano e ricevendo – così la loro narrazione – dalle mani di Dio una nuova “terra promessa”. Così noi europei viviamo il complesso dello Stato adolescente, che ripudia le proprie origini e cerca sé stesso; che vuole essere “laico” e non “etico” ma «vive di presupposti che non è di per sé in grado di garantire». Questo è l’enunciato classico del c.d. “dilemma di Böckenförde”, Padre Spadaro, ed è la ragione teorica per la quale il Great Ormond Street Hospital si sta battendo da mesi per far morire il piccolo Charlie Gard mentre le eccellenze ospedaliere e cliniche d’America e d’Italia si battono in direzione contraria.

Il punto è che gli ospedali sono un’invenzione cristiana, come sappiamo: se la medicina è nata prima di Cristo, di certo gli ospedali sono nati non solo dopo Cristo, ma per Ipsum, cum Ipso et in Ipso. Gli splendida vitia dell’antichità classica non hanno saputo concepire un luogo in cui dei medici curassero, a spese pubbliche, i malati di tutti. Questo è il πολίτευμα cristiano. Ed è sotto gli occhi di tutti il destino di certe istituzioni quando venga meno il loro sostegno naturale – cioè la fede –: esse marciscono così come marciscono i cadaveri quando si disperde lo spirito vitale. Non vorrà chiamare apocalittica questa roba, voglio sperare: sono cose spiegate sublimemente nella delicatissima (e precostantiniana) lettera a Diogneto.

I cristiani sono nel mondo ciò che l’anima è nel corpo. […] La carne odia l’anima e la combatte pur non avendo ricevuto ingiuria; […] anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo.

Come si fa a infagottare questa enorme complessità, che si dibatte inesauribilmente da venti secoli, ne “la dottrina di Rushdoony”?

Oltre a Max Weber c’è Michael Novak

E perché citare ancora Max Weber come se le sue tesi non fossero state criticate, come se la stessa Chiesa cattolica in America non avesse prodotto alternative culturali che non cedessero alla polarizzazione dialettica tra Chiesa e mondo? Non abbiamo salutato pochi mesi fa il compianto Michael Novak, che ci ha illustrato il legame elettivo tra “capitalismo democratico” e umanesimo cristiano? Perché leggendo il suo editoriale continuo ad avere l’impressione di un attacco a tesi alle amministrazioni repubblicane, ree di aver avuto per riferimenti culturali persone come Norman Vincent Peale? Me lo chiedo da non americano, non repubblicano, non trumpiano, davvero: stare a sentire un telepiazzista della fede è davvero più grave che favorire l’half birth abortion?

L’integralismo cattolico

Veniamo finalmente al mondo cattolico, che conosciamo entrambi certamente meglio: mi pare che le parole più misurate e più documentate sull’argomento siano ancora quelle di Massimo Introvigne nell’inchiesta sul “fondamentalismo cattolico” pubblicata un anno fa da La Nuova Europa. Ebbene, tra le altre acute distinzioni il sociologo torinese osservava che – se il fondamentalismo evangelico avviene in nome del sola Scriptura – quello cattolico si elabora a partire da un inedito “sola Traditio”. Su tale base alcune frange della Chiesa oppongono al Magistero pontificio una presunta “dottrina immutabile”. La differenza veniva subito evidenziata da Introvigne: la Scrittura resta comunque un libro, oggettivo e impugnabile di per sé; la Tradizione, per sua natura, no – essa è viva e multiforme, può al più essere definita “costante” ma neppure per un istante è monolitica.

Benissimo. Ora le chiedo: dove sono questi cattolici che oppongono la Tradizione al Papa? Chi sono? Quanti sono? Come sono organizzati? Dove si oggettiva e con che mezzi si concreta la “santa alleanza” tra fondamentalisti e integralisti che negli States sosterrebbe Trump “contro il Papa”?

Spero non stia parlando di omologhi americani dei lettori europei di Jean Ousset e Romano Amerio: per numero e per forma mentis non potrebbero tenere in piedi più di un’associazione culturale – altro che lobbying.

Ma da come scrive lei sembra individuare le tracce di codesta “santa alleanza” nelle coalizioni che si sono organizzate per opporre al dilagare delle legislazioni abortiste, omosessualiste e laiciste una resistenza pugnace e un attivismo civile. Spero di aver capito male, perché in nessun modo riesco a leggere in quel fragile mosaico di esperienze ed estrazioni (che penso di conoscere benino, dal momento che ne faccio parte) un’armata unita «nel sogno nostalgico di uno Stato dai tratti teocratici».

Un passaggio incomprensibile al pari di quello successivo: xenofobia e islamofobia? Ma non le risulta da ogni rassegna stampa che a promuovere l’odio per lo straniero e la paura dell’islamico sono perlopiù istanze di destre nazionaliste che talvolta hanno esplicitamente abbandonato il cristianesimo in favore di varie forme di neopaganesimo? E come potremmo ascriverci a un tale errore, noi che – parafrasando Pio XI – «siamo tutti spiritualmente migranti»?

Solo la Chiesa può presiedere all’integrazione dei popoli

Non per questo, però, possiamo negare che i terroristi che si fanno saltare urlando il nome di Allah siano evidentemente guidati da un’ispirazione religiosa: marginale e aberrante quanto si vuole, nondimeno religiosa. Lo impone la stessa onestà intellettuale che esige di non considerare ogni musulmano un potenziale terrorista: la differenza per il futuro la farà solo l’integrazione, Padre Spadaro; e un’integrazione del genere potrà farla solo la Chiesa cattolica, oggi come ieri. I governi possono stanziare fondi, se lo credono, ma non hanno visione, per loro i migranti sono un problema o una risorsa (nel senso di “manodopera a basso costo”) – in entrambi i casi si abusa di loro.

Siamo un tantino più duttili di come si direbbe leggendo il suo editoriale, Padre Spadaro: noi che sosteniamo un’ecologia integrale veniamo caricaturati come “integralisti” perché proponiamo una via – quella del Vangelo – in cui nessuno guadagna sulla pelle degli altri ma tutti (proprio tutti) devono «mangiare in pace il proprio pane». A essere poco duttili, invece, sono certi generici appelli a non confondere «l’elemento religioso con quello politico». Sono realtà disomogenee – è ancora la lezione di Agostino ad averci smaliziati in tal senso – ma di sicuro il Santo Padre non può intendere «spezzare il legame organico tra cultura, politica, istituzioni e Chiesa». Non può perché la cultura viene dal culto, etimologicamente e storicamente, e perché la Chiesa si è fin da subito e fino alla fine dei tempi invischiata in un complesso di relazioni con le istituzioni e nella vita politica. Di più, sono le parabole del Regno a esigerlo: ciò che chiaramente il Santo Padre si propone di spezzare è il circolo vizioso di certe liaisons dangereuses. E in questo ci mostra una volta di più il mite coraggio di cui tutti abbiamo bisogno.

Eusebio, Agostino, Orosio… e Re Artù

Che poi ci siano movimenti religiosi estremisti desiderosi di intestarsi questo o quel grande evento, Padre, è cosa così ovvia da risultare banale: normalmente la loro forza effettiva è inversamente proporzionale al vigore dei toni spesi nella comunicazione. Ma se Church Militant si rifà al mito agiografico-politico di Costantino, almeno noi dovremmo evitare di conformarci a quel trito modello che ha già appestato, per altre vie, fin troppa teologia dell’Ottocento e del secondo Novecento.

Il modello teologico-politico di certi movimenti ecclesiali è infatti quello proposto da Eusebio di Cesarea, o – per essere più precisi – la sua volgarizzazione post-agostiniana operata da Paolo Orosio: sono le sue Historiæ adversus Paganos la magna charta della teologia politica universalistica medievale, ma da qualche parte sopravvive l’ispirazione autentica del De civitate Dei, che il sommo Agostino concepì proprio all’indomani del crollo di Roma – e del disegno eusebiano – sotto le armi di Alarico. Penso all’epopea medievale di Artù e di Camelot e mi sollevo a ricordare che almeno i poeti non hanno ceduto alle semplificazioni: non c’è bisogno di essere puristi, assolutisti, fondamentalisti, WASP e unionisti, per credere possibile un (sia pur fragile) equilibrio politico in cui ci si ispiri francamente alla sapienza cristiana senza perciò cadere nella teocrazia, e in cui si tenda tutti alla formazione integrale dell’uomo senza demonizzare le debolezze e le fragilità umane.

Un continente fondato su tre grandi viaggi

L’Europa non insegue un sogno etnicista perché da sempre vive dell’armonia tra differenze, ma sarebbe da stupidi o da disonesti negare che alcuni indirizzi politici internazionali volgono alla sostituzione etnica di cui parlava il “piano Kalergi”.

Niente complottismo, niente demagogia, niente strategia dell’odio: pochi giorni fa scrissi che la nostra cultura europea si fonda sulle narrazioni e sulle epiche di tre viaggi – quello di Abramo, quello di Ulisse e quello di Enea (di cui i viaggi apostolici sono a loro modo reiterazioni) –; non abbiamo paura di chi arriva a casa nostra con il carico pesante di un lungo viaggio. Siamo educati all’ascolto, noi: ma potremo spezzare con gli affamati pane e parola solo se non ci saremo lasciati imbolsire dalle sirene mondane e se tra le vicende alterne del mondo avremo conservato fissi i nostri cuori lì dov’è la vera gioia.


Scritto per La Croce – quotidiano
Informazioni su Giovanni Marcotullio 296 articoli
Classe 1984, studî classici (Liceo Ginnasio “d'Annunzio” in Pescara), poi filosofici (Università Cattolica del Sacro Cuore, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, PhD RAMUS) e teologici (Pontificia Università Gregoriana, Pontificio Istituto Patristico “Augustinianum”, Pontificia Università “Angelicum”, PhD UCLy). Ho lavorato come traduttore freelance dal latino e dal francese, e/o come autore, per Città Nuova, San Paolo, Sonzogno, Il Leone Verde, Berica, Ταυ. Editor per Augustinianum dal 2013 al 2014 e caporedattore di Prospettiva Persona dal 2005 al 2017. Giornalista pubblicista dal 2014. Speaker radiofonico su Radio Maria. Traduttore dal francese e articolista per Aleteia Italiano dal 2017 al 2023.

1 commento

  1. Caro Marcotullio, la ringrazio per il tono pacato con cui ha risposto a padre Spadaro. Anche io ho avuto occasione di incontrarlo un paio di volte, senza però trarne una impressione definita, ma comunque sia senza nessuna ragione di avversione. Le confesso però che l’articolo che lei qua commenta ha suscitato proprio una reazione di avversione intellettuale: del tipo, ma quest’uomo sa di che sta parlando, non dico quando tratta dell’America, cosa a cui non è tenuto, ma quando parla del cristianesimo, a cui invece sarebbe tenuto? C’è un punto in particolare, su cui lei sembra convenire, e sul quale io invece sono in totale disaccordo: la distinzione di politica e religione. Dai miei studi filosofico-teologici ed antropologici, di cui ho raccolto i risultati nel libro “Democrazia regale – Cristianesimo autorità potere” da me pubblicato presso Marsilio, devo dire che in epoca precristiana, che si estende presso i popoli che non hanno avuto contatti con la cristianità fino a poco tempo fa, che si tratta esattamente della stessa cosa. E’ solo il Cristianesimo a introdurre la differenza, a seguito del famoso “il mio regno non è di questo mondo” – che io intendo non senso di: non c’è regno di questo mondo che lo può esaurire. Mentre perciò Avanti Cristo ogni società era essenzialmente teocratica, Dopo Cristo solo la Chiesa si può fregiare, come sostiene il beato Antonio Rosmini nella sua “Filosofia del diritto”, della qualifica di “società teocratica”. Solo nella cristianità dunque si istituisce quella dialettica di “società teocratica” e “società civile”, detto più volgarmente di Chiesa e Stato, che ha caratterizzato la storia europea. Il modo odierno di distinguere religione e politica quindi, come ambiti separati di cose umane, a prescindere dalla effettiva storia cristiana che ha introdotto la distinzione, rappresenta in effetti il tentativo di annullarla, facendo della politica, ovviamente liberal-democratica, il nuovo ambito inglobante di vita umana, di una nuova “religione imperiale” che non tollera le religioni che include nel suo “pantheon” se non quando sono disposte a giurare nel suo nome. Lo strano è quanti cristiani, anche tra i cattolici, appaiono disposti a farlo. Devo dire che ho l’impressione che purtroppo padre Spadaro rientri nel loro novero? La critica di aspirazioni teocratiche che indirizza, facendo di tutta l’erba un fascio, a “integralisti cattolici” e “fondamentalisti protestanti” suona infatti alle mie orecchie più dovuta al loro contravvenire alla “religione imperiale” liberal-democratica che non ispirata dalla dottrina cristiana. Strana poi la deprecazione della “islamofobia” in bocca a un gesuita, che cioè uno che si presuppone essere un religioso cattolico non si accorga che essa risponde a una logica di indifferenziazione, e non a quella cristiana per la quale solo sono superabili le differenze tra gli uomini in Cristo, per cui permane al di fuori di lui il peccato: come quello di chi in odio ai cristiani li accusa di essere “fobici”, o peggio “odiatori”. La finale pars construens di stampo “francescano” non è teologicamente più accurata della pars destruens dell’articolo. Usa concetti dati per scontati, e non aiuta il lettore a capire che cosa rappresenti Cristo così che egli ne debba essere seguace: la realizzazione della figura regale di chi tutto da per tutto ricevere in cambio, in un sacrificio nel quale a differenza che altrove egli davvero muore e davvero risorge, suprema attestazione di una capacità di amare con la quale chi lo segue entra in comunione. Può trovare lo svolgimento di questi fin troppo brevi accenni nel mio libro, che, mi permetta, le consiglio caldamente di leggere.

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