Ve lo dico io, come si sentono Chris e Connie Gard!

Non mi piace raccontare questa storia, perché è un affare personale e a voi non dovrebbe interessare, ma in questi giorni non faccio che leggere affermazioni del tipo:

ma come fanno i genitori a dire che Charlie non soffre? Se i medici dicono che non ci sono speranze, sarà pur più autorevole la loro voce che quella di due persone qualunque! Non è che questa difesa accanita è un atto di egoismo per non lasciar andare il figlio?

Tre frasi, tre obiezioni che mi gonfiano l’anima di rabbia dolorosa e alle quale è giusto dare una risposta.

Ero incinta per la mia terza figlia, quando all’ottavo mese il mio ginecologo, già rabbuiato in volto alle precedenti visite, anche se io non lo avevo voluto notare, fu costretto a decretare senza ombra di dubbio che la mia piccolina aveva qualcosa che non andava, essendo io affetta da polidramnios. Non sapeva di preciso cosa ci fosse che non andava, non si vedeva nulla, ma la mia pancia enorme, una marea di liquido amniotico e un feto piccino significavano occlusioni nell’apparato digerente della bimba.

Mi portò al reparto a fare un’ecografia di secondo livello, vide anche malformazioni cardiache: aorta stretta e arteria polmonare troppo ampia. Mi mandò a casa dicendo di fare la valigia e andare il giorno dopo col referto direttamente al pronto soccorso del Sant’Orsola: «Ti tratterranno, vedrai», 15698035_1272641599448872_3988128367730416799_n.jpgmi disse.

Passai la giornata su internet e lessi tutto lo scibile umano sul polidramnios e su cosa significasse, su tutte le patologie di cui poteva essere sintomo, quali fossero le percentuali statistiche di ciascuna e le probabilità di sopravvivenza.

Il giorno dopo arrivai al Sant’Orsola che ero un’enciclopedia vivente. Come previsto, mi ricoverarono, mi fecero decine di ecografie, alcune addirittura con una platea di studenti di medicina davanti, perché ero un caso difficile: la bambina aveva lo stomaco pieno ben visibile nell’eco, cosa che non avrebbe dovuto essere, se avesse avuto l’apparato digerente occluso come la quantità abnorme di liquido amniotico suggeriva. Perché?

Dopo due giorni partorii con cesareo, mi portarono via la mia creatura in tre secondi, feci appena in tempo a sfiorarla con le labbra mentre filava dritta in rianimazione. Nella notte i chirurghi la dovettero operare d’urgenza. All’uscita dalla sala operatoria, il dottore disse a mio marito che si trattava di atresia esofagea, e lui chiese: «Che tipo?». Il medico strabuzzò gli occhi: esistono cinque tipi di atresie esofagee, questa è una nozione medica specifica, che mio marito ed io avevamo acquisito da soli, spinti dalla disperazione e dalla paura, studiando come matti. Ad ogni tipologia erano associati guai diversi, eravamo pronti a tutto. Tra l’altro il mistero dello stomaco pieno fu svelato: di atresie ne aveva due: una all’esofago e una al duodeno, per cui lo stomaco si era riempito poi era rimasto sigillato così e non si era più vuotato. Per non farci mancare niente, insomma.

La mia piccola si fece un mese in rianimazione sedata, subì anche un intervento al cuore. A tre mesi i medici confermarono la diagnosi globale: sindrome di VATER. La dottoressa che me lo comunicò chiese: «Non vuole sapere cos’è?», ed io risposi di no, che lo sapevo già. Ovviamente ci ero già arrivata da sola, i sintomi li avevo visti benissimo e avevo continuato a studiare per tutti quei mesi.

I genitori di bambini piccoli malati hanno solo una freccia nella propria faretra: la conoscenza. E la sfruttano fino in fondo. Non sono scimuniti ebeti che non sanno niente, sono persone che si spremono le meningi per cercare di essere utili, per fare le scelte migliori, per non trovarsi impreparati.

La sapete la storia di Lorenzo Odone? Il piccolo statunitense affetto da adrenoleucodistrofia. La malattia colpisce le cellule cerebrali e i medici diedero al bambino un massimo di due anni di vita. I genitori, Augusto Odone e Michaela Odone, non si arresero e cominciarono a interessarsi alla malattia, diventando esperti a livello mondiale della patologia del figlio. Lorenzo è morto il 30 maggio 2008, all’età di 30 anni. Grazie alla cura scoperta dai suoi genitori, che non erano dottori, tanti altri bambini sono potuti guarire. Loro non si sono arresi.

Quindi non15780847_1272641616115537_6582684402872053550_n.jpg mi venite a raccontare cretinate in merito al fatto che Chris e Connie non possono avere le competenze mediche per disquisire della malattia del figlio, perché è falsissimo. Non ce le avete voi, le competenze, ma loro sì, loro hanno la tenacia, l’amore, la caparbietà per essersele acquisite da soli, le competenze, mentre voi facevate i leoni da tastiera e cercavate un alibi rassicurante all’idea atroce che un bambino venga giustiziato in un ospedale.

Quanto alla ipotesi mostruosa che un genitore possa lasciar soffrire il figlio per l’egoismo di tenerlo con sé e non farlo morire, non so da quale cupo angolo di un inconscio malato possa nascere: trattenere nella sofferenza per non avere la forza di elaborare un lutto? Non esiste un solo caso al mondo a cui si possa applicare una simile frase, che si tratti di adulti o bambini, genitori o coniugi.

Il dolore fisico è di un materialismo immanente che taglia lo sguardo, ti atterra al livello del pavimento in cui stai. Sul figlio che soffre, si veglia la notte insonne, non si trova pace nello spirito per riposare un attimo. Basta un mal di orecchie a provocare nel genitore una pena che fa male in mezzo al petto come un chiodo, si attraversa la città di notte per trovare una farmacia aperta e comprare un antidolorifico idoneo, si finisce sempre per pregare involontariamente “fai soffrire me al posto suo”. Ma che genitori siete, voi, che pensate di poter lasciar soffrire vostro figlio per trarne un conforto spirituale? Di quale diabolico conforto state parlando poi?

Nei reparti pieni di piccoli innocenti malati, abitano eserciti di genitori costantemente presenti, che non abbandonano, che riferiscono ai medici di ogni sospiro, mossa, cambiamento, che vanno a bussare in guardiola a mezzanotte se notano qualcosa di strano. Sono i primi a chiedere per i figli terapie che non li facciano soffrire, non solo cure che possibilmente guariscano. Sono i primi che mettono le mani avanti se una terapia prospetta troppi effetti collaterali, che non si accontentano di vaghe rassicurazioni. I genitori di bambini malati di cancro vivono ogni ciclo di chemioterapia come una tortura interiore senza precedenti, come essere spellati vivi. Come potete anche solo pensare che Chris e Connie possano non tenere in conto la sofferenza eventuale del figlio?

Mi sono stancata di questo approccio forzatamente medico ad un problema che è tutto umano: voi siete dei miseri codardi che non vogliono riconoscere il ribrezzo e la paura che vi suscitano i malati gravi, come Charlie, e giustificate il vostro raccapriccio meschino con astruse teorie sul fatto che il bene supremo del malato sarebbe la sua morte.

Se non avete il cuore di Chris e Connie, tacete, tanto più che non è chiesto a voi quel che la vita ha chiesto a loro. Dover combattere contro la malattia mortale di un figlio è un’atrocità terribile, ma dover pure difendersi dagli stupidi che criticano e si oppongono ad ogni scelta che hai fatto con tutte le lacrime che avevi deve essere il massimo dell’ingiustizia. Una società civile che ti atterra invece che sostenerti, nella mala sorte. Che tristezza.


PS: poi alla fine anche ricercatori e luminari italiani e statunitensi hanno dato ragione a Chris e Connie. Restano da convincere i dottori del GOSH, le cui motivazioni appaiono sempre meno mediche e sempre più ideologiche. CVD. I genitori, invece, avevano individuato subito la terapia. Cuore di mamma e papà.

4 commenti

  1. E’ così come raccontato da Lucia Scozzoli.. anzi, ancora più acutamente. Perché la lettera stampata non trasmette nè l’altezza nè la profondità di quello che accade nel cuore di un padre e di una madre. Ecco perché occorre comprendere che la famiglia, ogni famiglia con figli disabili, è un bene incalcolabile per la società. Il bene comune comincia da qui.

  2. Per varie esperienze personali, posso dire che è esattamente così. In Italia poi esiste la cultura che il medico è un gradino immediatamente sotto Dio e, pertanto, sul suo giudizio non si discute. La medicina non è una scienza esatta, il medico non sa, prova a capire. Ringraziando Dio, esiste l’amore di un genitore per il figlio.

  3. E’ doloroso a dirsi perché ai medici tutti noi dobbiamo tanto. Ma tutto questo ancora una volta testimonia il fatto che il genitore di un figlio malato porta su di sé un’ulteriore tremenda responsabilità, quella di dover lottare spesso contro i medici stessi, per la salvezza e per il bene del proprio figlio. E tutto questo senza aver la competenza necessaria, dovendosela costruire, dovendo lottare contro la comunità scientifica, che non manca di far pesare la sua autorità, e dovendo lottare contro i propri dubbi. Mettere tutto in discussione, pensando a quell’esserino indifeso che può contare solo sull’amore, mentre per i medici è spesso -purtroppo – solo “un caso”.

  4. Bisogna avere l’umiltà di tacere, tacere e ancora tacere.
    Nessuno mai può neanche immaginare un solo grammo del dolore e dell’amore e del coraggio di questi genitori. Questi genitori sono la testimonianza di quanto possa essere forte e insondabile l’amore e che ogni amore può essere Tutto l’Amore

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