Il nostro amore struggente – e infecondo – per i cani

di Lucia Scozzoli

Carlo Cultrera ha scritto tre giorni fa per la 27esima ora del Corriere della sera un articolo per la rubrica “amori moderni” dal titolo “la scelta dolorosa di addormentare il proprio cane (dopo 15 anni insieme)”. L’articolo si snoda nel racconto sincero e coinvolgente della vita di un cane e del suo padrone, che si è dispiegata nel ménage quotidiano fatto soprattutto di fedeltà e affettuose abitudini, fino alla vecchiaia inevitabile dell’animale, il sorgere di tanti acciacchi, i tentativi di porvi rimedio, la resa, la scelta di addormentare la povera bestia per non vederla soffrire più. A 15 anni un cane è vecchio, non si può più fare granché, oltre che lasciarlo soffrire in pace, vederlo spegnersi lentamente o dargli una spintarella indolore che anticipi la dipartita di qualche mese.

Nel racconto della malattia del cane di Cultrera c’è qualcosa di straordinariamente oblativo: portarlo fuori tutti i giorni, con tutti i climi, peli ovunque, vomito di cane da pulire, soldi da spendere in interventi. Viene da domandarsi perché sopportare tanto, per un animale che, si sa, non ci sopravviverà di certo.

Io ho avuto un cane in gioventù, per soli due anni: era un meticcio dalle orecchie penzolanti e l’andatura sgraziata. Finì sotto una macchina in tempi record, ma a quei tempi abitavamo su una provinciale trafficata e un cancellino lasciato inavvertitamente aperto gli fu fatale. Lo avevamo preso solo perché un tizio era venuto a casa nostra con questo cucciolino in una scatola, consapevole del fatto che non si può sbarcare in una casa animata da tre bambini con un batuffolino impacciato e non riuscire a piazzarlo lì in via definitiva: mia madre di animali non ne voleva sapere, ma, per quanto fosse donna rigida e severa, non poté resistere agli occhioni lacrimevoli dei suoi tre cuccioli e ci concesse di tenerlo.

Non furono rose e fiori per molto tempo: il cane, chiamato Buc (Dio solo sa da dove ci saltò fuori un nome tanto ridicolo), crebbe rapidamente e divenne una bestia alta un metro, dal pelo vagamente rossiccio e puzzolente, la lingua lunghissima e incline a leccare ogni cosa, denti appuntiti con cui capitava di graffiare le nostre manine morbide durante i più banali giochi in cortile. Il cane abbisognava di lavaggio settimanale e mangiava tutti i giorni abbondantemente, per non parlare delle uscite posteriori. In pratica, come ampiamente previsto e temuto da mia madre, ella si ritrovò a cuocere papponi per il cane, a fargli il bagno nella mastella, a raccogliere escrementi ai bordi del giardino. In cambio avevamo tante leccate in faccia, zampate sui pantaloni e guaiti ad ogni nostro ritorno a casa dopo la scuola.

Il cane non mise mai piede in casa, ma fuori volavano ciuffi di pelo in abbondanza. Come cane da guardia era inutile: abbaiava per fare la festa a chi conosceva, mai per intimorire uno sconosciuto. Insomma, quando una macchina lo investì davanti a casa, noi bambini ci sgolammo in lacrimazioni miserevoli e mia madre esultò abbondantemente senza darlo troppo a vedere, mentre mio padre lanciava improperi di carattere assicurativo.

Questa breve esperienza mi ha insegnato poche fondamentali cose sui cani: puzzano terribilmente, vanno accuditi tutti i giorni, senza dimenticarne nemmeno uno, nemmeno se hai 40 di febbre, e sono come bambini che non crescono mai.

Ho avuto tre figli, io, e ho fatto notti in bianco, preparato pappette, staccato stelline in brodo dal muro, cambiato pannolini, lavato sederi, pulito vomito, giocato ore e ore, vegliato febbri, guardato 150 volte il libro della giungla e riletto la stessa favola un milione di sere. Eppure non è stato faticoso come fu Buc per mia madre. La differenza sta tutta in due postille fondamentali: i figli sono figli e crescono.

Le risorse psico-fisiche che si investono sulle creature umane non sono mai a fondo perduto, hanno in sé un egoismo istintivo e primordiale fatto da ancestrale cura per la prole e desiderio di prosecuzione della discendenza, o qualcosa del genere. Comunque accudire un figlio è incredibilmente e insospettabilmente facile (salvo qualche inevitabile momento di crisi, in cui uno si chiede come ha fatto a ficcarsi in una simile situazione, ma passano in fretta di solito). Per dirla in maniera colorita, la cacca del proprio figlio non puzza. Ma soprattutto i figli crescono ogni giorno un po’, si evolvono e ci riservano una novità al giorno, con fantasia e stupore. Sono persone vive e vivide, che noi coltiviamo amorevolmente per poi liberarle nel loro ambiente naturale: il vasto mondo. Non si fanno figli per avere un po’ di compagnia, insomma.

Tante persone sono solite fare confronti tra i cani e i figli, come coinvolgimento emotivo e gratificazioni affettive, ma io proprio non riesco a trovare la cifra di paragone, non mi sembrano cose commensurabili tra loro. I cani sono sempre fedeli, sempre grati delle cure che ricevono, sempre affamati di relazione col padrone, che reclamano con atteggiamenti servili e mai con i capricci di un bambino trascurato. Questo non li rende migliori degli uomini, come qualche animalista eccessivo ama dire, ma semplicemente subordinati, cosa che ci fa un immenso piacere. Essi alimentano il nostro bisogno di servizio e dedizione, reclamando con la loro presenza una cura costante da parte nostra, e ci ricambiano con matematica precisione mediante una affettuosa fedeltà. Il do ut des è assicurato e in questo scambio sicuramente l’uomo guadagna molto: sentirsi utili e poter godere delle coccole di un caldo cucciolo peloso abbassa il nostro stress e aumenta la nostra autostima. L’alleanza tra cane e uomo, infatti, è molto antica, pare getti le sue radici addirittura 40.000 anni fa.

Però questo sentimento non c’entra niente con l’amore che gli uomini sono capaci di dedicare ad un altro essere umano: manca il fondamento principale e cioè la libertà. Qualunque persona ami, questo atto non te ne garantisce la dedizione eterna, nemmeno da parte di un figlio. Chi ama per sé, per sentirsi utile o per avere un contraccambio proporzionato, fa i conti senza l’oste.

Insomma, dell’articolo di Cultrera contesto con forza il sottotitolo della rubrica “amori moderni”: è una forzatura inaccettabile ascrivere ad “amore” la relazione tra un cane e il suo padrone. Forse è colpa dell’italiano, che usa un solo vocabolo per esprimere così tanti sentimenti diversi, dall’amor filiale a quello erotico, passando per l’amicizia o la passione, senza trascurare l’amore per gli hobbies o, per l’appunto, gli animali domestici, o forse è la malafede di certo giornalismo modernista che predilige gli equivoci terminologici a tutto vantaggio di un’ideologia disumanizzante.

Così mentre avanzano leggi e sentenze che autorizzano lo scioglimento di ogni vincolo di fedeltà e cura reciproca tra esseri umani, e pare sempre più una normalità pure la fabbricazione su commissione di bambini, scelti come cuccioli di razza aderenti ai propri gusti, ci tocca sorbirci l’elogio della fedeltà del cane al padrone e del padrone al cane, nell’apologia di un rapporto caduco, destinato a finire sempre prima di noi, a morire sterile di conseguenze, nel suo consumarsi completamente all’interno di dinamiche di soddisfazione reciproca senza sorprese.

Insomma, struggersi d’amore per un cane sarebbe sintomo di maggiore umanità che non promettere fedeltà eterna ad un coniuge, secondo la modernità.

Io credo che dovremmo lasciare gli animali al loro mondo, prendendocene cura come attenti pastori, e riservare la parola amore ad altre più qualificanti relazioni. Perché il rischio di questa deriva che vuole umanizzare gli animali è che alla fine ci disumanizziamo noi.

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