Pubblicità, popolo, pelo… e un po’ di pesce (chissà quanto fresco)

Fotogramma da una storica pubblicità di un silicone da doccia.
di Fabrice Hadjadj1Editoriale del no 15 di Limite. Traduzione di Giovanni Marcotullio

La pubblicità esiste fin dalla più alta Antichità. Non parlo solo degli scavi che hanno esumato in un sito dell’Egitto faraonico una lattina di Coca-Cola: il sito era già molto turistico e gli scavi, finanziati dalla Coca-Cola Company stessa (a meno che non fosse la Pepsi, che cercava di dimostrare come la concorrente non avesse poi inventato niente di speciale). Parlo dei nostri antenati Galli. Dell’Armorica, non dell’America.

Come tutti sanno, dopo essersi imburrato la chioma per timore che il Cielo non gli piombi in testa, il Gallo installa i suoi banchetti sulla piazza del villaggio e si mette a gridare: «È fresco, il mio pesce! Ancora si dimena!». Entra allora in scena un altro Gallo. Fabbro com’è, abituato ai sensi del fuoco più che a quelli dell’acqua di mare, egli è molto insolentito dall’odore dell’orata e contesta subito lo spot brontolando: «No, non è fresco questo pesce!».

Segue una disputa il cui tono sale progressivamente prima di ricadere in una pioggia di botte. Altri Galli si affrettano per unirsi alla bagarre. S’impugnano i pesci per la coda, ci se ne serve come di racchette – e la palla è la sagoma di un avversario preso a caso. Lo spettacolo è commovente. La comunità si reinventa. La comunità si esprime. Essa manifesta carnalmente la sua solidarietà permettendo a ciascuno dei suoi membri di menarle di santa ragione. Quel che era partito come commercio termina in politica.

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La canonica rissa tra Ordinalfabetix e Automatix (come se l’è immaginata un Gallo belga discendente da un rabbino polacco) permette di distinguere i due sensi della pubblicità, vale a dire dell’ingresso nello spazio pubblico. Un po’ di etimologia anzitutto, perché la parola “publico” risale anch’essa alla più alta Antichità. Secondo il Dictionnaire d’Ernest Klein proviene dall’accorpamento di due parole che rimandano al popolo e ai peli: poplicus, che può tradursi con “popolare”, e pubicus, che non designa solamente quanto è relativo al pube, ma anche tutto quanto aleggia attorno a quella pelosità secondaria che appare con la pubertà – baffi, barba, ciuffetti sotto le ascelle…

Lo spazio pubblico è quello del popolo, ma di un popolo che ha la barba, in qualche caso è perfino calvo, insomma è abbastanza maturo per combattere (o piuttosto dibattere) attorno al bene comune. I Galli mi scuseranno se impiego un linguaggio romano (dopotutto, non sono i nostri unici antenati): lo spazio pubblico si costituisce essenzialmente attorno alla res publica, e la pubblicità è anzitutto un’apparizione in questo spazio, un mezzo per impegnarsi in un dibattito popolare, uno scambio di parole che precede e fonda lo scambio delle merci (un mercato – concluso – è in sé stesso la ratifica di una parola – data).

È quanto osserva Jürgen Habermas (benché fosse Goto e non Gallo) nella sua tesi del 1962 (epoca in cui pensava ancora): Lo Spazio pubblico, Archeologia della pubblicità come dimensione costitutiva della società borghese. La pubblicità, rendendo pubblico qualcosa, lo fa entrare nello spazio del dibattito politico. Lo si vede bene con l’arrivo di Automatix: i pesci nelle cassette diventano oggetto di una discussione sulla loro freschezza, e questa discussione – anche se non arriva a un giudizio di certezza assoluta (quale lettore può dire se i pesci di Ordinalfabetix sono freschi o no?) – permette qualcosa di più importante, di più umano che mangiarsi una sardina nell’angolo come un gattino – la vitalità di una comunità linguistica e carnale.

La pubblicità del pubblicitario (quella di Ordinalfabetix) risponde a una funzione incitativa commerciale; la pubblicità del pubblicista (quella di Automatix) opera una funzione critica politica. La prima, però, è normalmente subordinata alla seconda, nella quale il pubblicitario è a sua volta obbligato a entrare, dovendo giustificare davanti al villaggio la fondatezza delle sue affermazioni.

Il problema della “società borghese” o “capitalista”, secondo la terminologia di Habermas, non è la coesistenza di queste due funzioni, ma il rovesciamento della loro subordinazione. Il commerciale vi assorbe il politico (quale che sia la campagna, essa è sempre pubblicitaria), lo scambio delle merci prevale sullo scambio delle parole (esse stesse divenute “elementi di linguaggio”), poiché il valore è fissato da un preteso mercato autoregolatore, e la Mano invisibile previene ogni colpo basso in cui le mani si armano del prodotto messo in questione. La critica stessa serve alla promozione della propria impresa o del proprio partito.

È come se Automatix non andasse più al confronto diretto, bensì dovesse far vanto a sua volta delle proprie produzioni, gridando più forte: «Le mie lame sì, che tagliano!». O che dovesse trasformare il suo “il pesce non è fresco” in uno slogan concorrenziale. Da quel momento non è più il pannello pubblicitario a entrare sulla pubblica piazza, ma la pubblica piazza che si frammenta in spiazzi pubblicitari. I Galli non possono più fare l’esperienza della rissa, cioè quella della comunità. La concorrenza si oppone alla reciprocità, la scelta del consumatore all’incontro dei cittadini.

Dunque non c’è più, parlando propriamente, uno spazio pubblico, bensì uno spazio super-privato in cui gli interessi particolari si accordano tanto quanto si affrontano, nella misura in cui fanno affari. E alcuni privati vi sono più potenti degli altri: poiché l’accesso allo spazio pubblico è regolato dal denaro meglio di quando vigeva il suffragio per censo, la potenza finanziaria vi domina più della potenza argomentativa o fisica (è finito quel corpo a corpo col quale si testa il corpo comunitario).

Note

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1 Editoriale del no 15 di Limite. Traduzione di Giovanni Marcotullio

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